LETTERA DA PIETROBURGO



Monsieur le Chevalier, Vi scrivo dopo quattordici mesi in cui ho interrotto ogni corrispondenza. La Neva che mi scorre davanti sembra avermi trascinato nel frattempo ancora più lontano. Dietro le tende di taffetas fiuto la Kamciatka. Le mie furie e intransigenze lo sapete bene convivevano sempre in me con un'allegrezza nativa, che sotto il giogo di una pena vana e continua si avvicina ora a estinguersi. La sera mi faccio condurre in carrozza quasi a forza da quelle stesse dame che mi invaghivano e sento la mia testa sovraccarica, stanca, appiattita sotto l'enorme peso del nulla. Parlo ormai quasi soltanto da solo, anche se mi ripugna una tale inurbanità. Ma qualcosa occorre pur fare: allora mi rinchiudo e leggo, con un trasporto che mi fa fremere, spesso, nella notte, quando mi sorprendo a esecrare ad alta voce esseri estinti e tuttavia orrendamente attivi. E sempre questa lugubre politica si presenta allo spirito, si mescola a tutte le idee e le muta in veleno.

Il più recente fra i miei piaceri fu, qualche mese fa, la visita ai resti di un mammut che è stato trovato dentro un blocco di ghiaccio, alla foce della Lena. Anche se gli orsi bianchi lo hanno in parte divorato, ho potuto accarezzare questo testimone inconfutabile del Diluvio, questa promessa del Fuoco che ci piaga e intenerisce nell'attesa. L'orecchio era ancora tappezzato di pelo. Cinque o sei volte ho avvicinato il naso a quella carne. Mai il più voluttuoso degli uomini ha aspirato il più delizioso profumo d'Oriente con la soavità del piacere che mi ha causato l'odore fetido di una carne antidiluviana putrefatta. : Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus: davanti a quella carcassa ho sentito ancora lievemente vibrare la dolcezza del dogma, che è il fuso smeraldino attorno a cui è avvinto ogni mio sentimento. Poi ho ripreso a parlare con gli armadi. Dinanzi all'ineffabile ridicolo della filosofia moderna sento che le mie certezze sono come quel mammut intatto nella sua montagna di ghiaccio. E come lui mi lascio lentamente sbranare dagli orsi bianchi delle mie solitarie giornate. Fatemi sapere soltanto questo, mon Chevalier: che cosa si dice, ora, a Parigi? Il Vostro Senatore di San Pietroburgo Sainte-Beuve: come il bon mot divenne il fin mot, e il fin mot si rivelò così amaro che, per decenza, si evitò per lo più di dirlo e lo si confuse con troppi altri mots. Altrimenti la laboriosa marcia del vivere poteva arrestarsi, in una disperata paralisi: «Bisogna avere un po' di illusione nel procedere della vita: quando ne conoscete troppo bene il fin mot, la natura vi toglie di scena, perché si impedirebbe al dramma di andare avanti». «Mettere ogni tanto prima dei pensieri, per farli passare: «Si legge in Lichtenberg, in Meister, o in Mencio»». Il cruccio di Sainte-Beuve: «far passare», insinuare nei suoi articoli quei pensieri, quelle piccole frasi che più gli appartenevano, ma senza attribuirsele, per non farle troppo notare. Altrimenti sarebbero troppo drastiche e troppo esposte, nella loro delicata costituzione: e si aspetta il lettore che saprà penetrare dietro quelle pelli, riconoscere la vibrazione nascosta. Ma il tempo si è vendicato di questa cautela di Sainte-Beuve; lo sguardo scorre sulla superficie dei suoi scritti, una certa irritazione accompagna la sua sordità verso gli scrittori che non seppe, non volle riconoscere (è la rivendicazione di Proust), e intanto ci si dimentica di considerare la sua stessa opera con quello stesso sguardo lungimirante che gli si rimprovera di aver negato all'opera di altri. Nessuno più di Sainte-Beuve rispettò con fedeltà le convenienze della vita letteraria, nell'agonia dettava ancora qualche riga gentile in risposta a un articolo di Caro («Che dolcezza! che sollievo! quante verità filtrate che si fanno luce, non senza qualche piccolo rimorso!»).

In nessuno quelle convenienze produssero tanto veleno. Parte di esso nutrì i Cahiers postumi, aspri addensamenti di colore; un'altra parte, durante un periodo di tre anni, 1843-1845, migrò verso la Svizzera, dove la «Revue Suisse» di Juste Olivier ospitava le brucianti Chroniques parisiennes di un anonimo che era Sainte-Beuve. Tanto, insinuava l'autore, sornione, «Parigi si agita soltanto per quel che si stampa a Parigi». Così avvenne che, due settimane dopo aver celebrato con devozione la Vie de Rancé di Chateaubriand sulla «Revue des Deux Mondes» («Quando si tratta di M. de Chateaubriand, il critico non è più tale: si limita a raccogliere fiori lungo la strada e a riempirne il suo canestro»), la stessa penna l'accoglieva con sarcasmo sulla «Revue Suisse». Ricordava bene, Sainte-Beuve, come le sonorità cave di Chateaubriand avevano vibrato nella sua giovinezza letteraria, lo rivedeva accanto a Madame Récamier, che «aveva ogni giorno mille invenzioni graziose per rinnovargli e rinfrescargli le lodi», di cui il vecchio melanconico non si saziava: «ella gli radunava da ogni parte amici, ammiratori nuovi. Ci aveva incatenati tutti ai piedi della sua statua con una catena d'oro». A lungo Sainte-Beuve era stato un timido accolito nel delizioso santuario dell'Abbaye-aux-Bois: le sedie si erano disposte in circoli, come orbite planetarie, e Chateaubriand entrava con il manoscritto dei : Mémoires d'outre- tombe avvolto in un fazzoletto di seta. Mai, in quegli anni, paralizzato dalla gloria del maestro e da Madame Récamier, il giovane critico aveva potuto accennare ciò che già gli appariva evidente: che Chateaubriand non tanto aveva a che fare con la religione, con la politica, con il pensiero, quanto con il culto corrosivo di due sole, gelose potenze: la letteratura e le donne. E tanto più Sainte-Beuve rabbrividiva, in quanto riconosceva in se stesso una simile vocazione: ma chiusa nel suo studio, o in una sala della Bibliothèque Mazarine, o dispersa nelle scorribande di un anonimo ròdeur parigino, comunque camuffata per sempre in una studiosa grisaglia, con la governante nell'ombra che teneva la borsa. E lì quella vocazione era approdata da anni senza foreste americane, spesse mura nobiliari, itinerari di Terra Santa e lagune. La sua anima, spirando nei versi prematuramente vizzi di Joseph Delorme, possedeva «come solo viaggio quello da Amiens a Parigi, magari con qualche escursione a Rouen durante le vacanze dell'Ècole de médecine». Ma ora rintoccava il momento in cui i giornali inglesi definivano Chateaubriand «the good old man».

Sainte-Beuve traduceva con perfidia: «le vieux bonhomme», e incrudeliva: «Questo si chiama essere al tempo stesso coronato di lauro e del berretto da notte». Di fronte alla Vie de Rancé, questa spettrale e ancora voluttuosa farneticazione, dettata da Chateaubriand, infermo per la gotta, dal suo letto di ferro nella camera della rue du Bac, dove l'unico mobile era una cassa di legno bianco dalla serratura rotta, confondendo le citazioni dai tomi seicenteschi che gli portava un laido segretario bretone con i propri insopprimibili ricordi, che ancora sgorgavano in quell'ulteriore oltretomba, poiché i : Mémoires d'outretombe erano già conclusi e le due fedeli, Madame de Chateaubriand e Madame Récamier, temevano che l'immaginazione dell'amato non avesse più nulla a cui applicarsi, Sainte-Beuve poté annunciare agli svizzeri, con la brutalità di un cronista mondano: «Il Rancé di Chateaubriand è stato una delusione». Poi precisava: «Noi che meno di altri siamo obbligati al rispetto, a causa della distanza da cui parliamo, dobbiamo dire francamente che questo libro, che ci si attendeva tanto semplice e austero, è diventato, per mancanza di serietà e per negligenza, un vero bric- à- brac; l'autore vi getta di tutto, imbroglia tutto e svuota tutti i suoi armadi». Proseguiva con un ghigno: «Le immagini più ridenti, più folleggianti ci investono ad ogni momento e si mostrano a tutti gli angoli, dietro ogni colonna del chiostro, il che faceva dire l'altro giorno a uno spirito giocoso che si tratta davvero di una tentazione di sant'Antonio, tanti sono i diavoli che vi si incontrano, e quali diavoli graziosi! In certi punti si direbbe che nella Trappa si aprano dei passaggi che danno sulle quinte dell'Opéra». Anche i Trappisti non furono soddisfatti: quel libro, scritto per la gloria del loro grande riformatore e per la penitenza dell'autore, non aveva nulla di pio. Anzi, scagliava i demoni sulla Trappa. Il segretario del convento vi avvertì nel fondo «la temeraria credenza in certi racconti calunniosi e inverosimili». L'abbé Dubois, austero storico di Rancé, accusò Chateaubriand di perversa ostinazione nel rifiutare «ciò che non quadra con il suo romanzo». E così era: ultimo vagabondaggio di Chateaubriand, la Vie de Rancé non ha nulla della biografia edificante. Sono pagine che siglano un definitivo atto di resa all'associazione selvaggia, un vizioso frugare nella propria memoria e rimescolare le ombre, fra le rovine del tempo. Il loro procedere è abrupto, intemperante, erratico. Vi si avverte la fatica del pensum virtuoso e l'attrazione di un monologo dilagante. La prosa accosta pietre di fatti, citazioni e ricordi, unite solo dal muschio. Senza cura di progressione, trascorre da un'ondulata morbidezza agli scorci crudeli e secchi. Questo libro, dedicato a colui che aveva osato scrivere: «Si vive per morire; il disegno di Dio, quando ci dà la gioia della luce, è di privarcene», testimonia un rapace rimpianto per ogni attimo della vita perduta e lascia una sensazione incompatibile con la quiete. E' un congedo che, dietro la penitenza, cerca la memoria del peccato. Nulla è torbido come l'irrequietudine e il tedio dell'uomo vecchio. C'era infine una superstizione troppo blasfema a cui Chateaubriand dava ascolto nel suo libro e certo ad essa alludeva il severo segretario del convento. Era la storia, serpeggiante per quasi due secoli, della testa staccata della duchessa di Montbazon. Amante del giovane Rancé, era «una delle più belle persone che si possano vedere» e, «al ballo, stracciava tutte le altre», ci assicura Tallemant, anche se non era di suo gusto, perché aveva «il doppio delle tette che ci vogliono; e certo erano belle bianche e dure, ma tanto più difficile era nasconderle». Per definirla, Retz scriveva di non aver «mai visto nessuno che, nel vizio, avesse conservato così poco rispetto per la virtù». Si presentò giovanissima a Corte, con tutta la furia delle galanterie e del denaro, che spesso mescolava e allora «l'avidità raffreddava le sue voluttà senza interromperle». Diceva che a trent'anni non sarebbe stata più buona a niente e che allora l'avrebbero dovuta buttare nel fiume. Ne aveva trentacinque alle nozze della principessa Marie, e ancora la sua bellezza dominava ogni altra. Rancé, di quattordici anni più giovane di lei, era già a-446 bate quando cominciò ad amarla: si presentava con una lunga capigliatura arricciata, due smeraldi ai polsi, un diamante al dito, la spada al fianco, due pistole sull'arcione, indossando un giustacuore violetto di stoffa preziosa. In un libello «sui veri motivi della conversione dell'abate della Trappa», scritto da Larroque per diffamare Rancé e pubblicato nel 1685, si faceva risalire la svolta nella sua vita alla morte improvvisa di Madame de Montbazon: «Vi ho già detto che l'abate della Trappa era un uomo galante e che intratteneva varie relazioni tenere. L'ultima che si manifestò fu con una duchessa famosa per la sua bellezza, la quale, dopo aver fortunosamente evitata la morte nel passare un fiume, la incontrò pochi mesi dopo. L'abate, che di quando in quando andava in campagna, era appunto lì allorché avvenne questa morte imprevista. I suoi domestici, che non ignoravano la sua passione, si preoccuparono di nascondergli tale triste evento, che egli apprese al suo ritorno... Salì dritto all'appartamento della duchessa, dove gli era concesso di entrare a qualsiasi ora, e invece della dolcezza che si riprometteva di godere vi scorse come primo oggetto una bara che capì essere quella della sua amante vedendo la testa di lei tutta insanguinata che per un caso era caduta da sotto il drappo con il quale l'avevano coperta con grande negligenza, testa che avevano staccata dal resto del corpo per guadagnare in lunghezza ed evitare così di fare una nuova bara che fosse più lunga di quella di cui si erano serviti». Altri insinuarono che la testa di Madame de Montbazon fu allora rapita da Rancé e lo accompagnò attraverso i gradi della sua conversione e della disciplina claustrale, sempre accanto a lui nella cella. Anni dopo, una voce pretese che alla Trappa si mostrava la testa di Madame de Montbazon nella stanza dei successori di Rancé. Il teschio che appare nei ritratti di Rancé, fra le carte, gli in-folio e il crocefisso, quel teschio nel cui silenzio si condensava la regola della Trappa, non sarebbe stato un'immagine della morte ma l'insostituibile feticcio di colei che «tanto spesso si era chinata sul grembo della vita». L'impudente Chateaubriand finge di discutere con acribia di filologo sull'attendibilità di questa leggenda. E vuole persino proporre una soluzione plausibile: che la decollazione fosse dovuta a ragioni di studio anatomico, non già all'avarizia di chi voleva risparmiare una bara. La conclusione è comunque netta: «Tutti i poeti hanno adottato la versione di Larroque, tutti i religiosi l'hanno respinta». Qui si dividono le acque: proprio nel suo ultimo libro, che doveva metterlo in scena quale penitente, Chateaubriand si era riservato la rivelazione più empia: egli sarebbe stato, in questo caso, e come sempre, dalla parte di quelli che credono più alla leggenda che alla religione, di quelli per i quali la religione stessa è innanzitutto una leggenda. Finalmente ammetteva di essere innanzitutto uno scrittore. Prima di congedarsi, depose la testa di Madame de Montbazon nella cella del riformatore della Trappa. Questa volta, era davvero l'ultimo pezzo del suo bric- à- brac.

Poi chiuse i suoi armadi. «Che cosa avete fatto in questi quarant'anni?». Le labbra del Trappista si dischiusero un attimo per rompere il silenzio: «: Annos aeternos in mente habui». : M. de Saint-Louis: Sono sempre stato un soldato, e avevo ancora il mio reggimento, che servì sotto Turenne, quando mi recai per la prima volta alla Trappa: era nei miei paesi, soffocata fra colline e stagni, nell'antica foresta del Perche. Grandi foglie solitarie scivolavano sull'acqua come su un pavimento di piombo. Pari assenza di vita non avevo mai incontrato, se non all'Escorial. Mi era stato riferito che Rancé, nostro Monsieur de la Trappe, era minacciato dai nemici della sua riforma, che rendeva onore al silenzio. Gli offrii i miei servigi per difenderlo. Non mi rifiutò, non mi accettò, non sorrise neppure. Passò ancora tempo, prima che vendessi il mio reggimento al primogenito di Villacerf e tornassi da Rancé a chiedergli accoglienza alla Trappa. Mi alloggiò in un edificio che aveva fatto costruire fuori dalla cinta del monastero. Un giorno mi disse la frase che per più di tren-448 t'anni avrebbe determinato la mia condotta: «Fatevi una regola, mite quanto volete, purché le siate fedele». Mi disse anche una volta, con un bagliore del gentiluomo che aveva amato Madame de Montbazon, la più bella dei nostri anni, e la più insolente nel vizio, che proprio io, con il mio lungo uso del mondo, conoscevo già le umiliazioni che mi attendevano: poiché gli uomini accanto ai quali viviamo in mezzo al mondo sono gli strumenti scelti da Dio per umiliarci, quindi in un solo istante di quella vita si subiscono spesso le mortificazioni che un monaco incontra nel corso di anni. Fui disperato a lungo, immobile nel mio alloggio ai margini della vera regola. Ma un giorno, in quei silenzi, vidi passare il mondo con il soffio del vento. Era leggero e inconsistente, vuoto. La regola aveva agito. E fui allora di nuovo felice con le mie armi, in una guarnigione sperduta ai confini della terra, dove si sente ancora qualche canzone di soldati e qualche cassa che rotola, mentre si aspetta che il rumore finisca.