BIGLIETTO PER LUCIEN
Mio caro, sono passati quasi centocinquant'anni dal tuo incontro con il bravo Gauthier, quasi duecento dalla presa della Bastiglia, e voglio darti qualche notizia. Seguìto dai suoi compagni, ormai non più sperduti nelle province, ma baldanzosi e invadenti in tutti i mondi che oltre tutto sono anche in via di liberazione, Gauthier non ha cessato un istante di parlare. Anzi invita al dialogo chiunque passi. Nel frattempo, la Lega dei Compagni si è dimostrata compattamente restia a essere déniaisée. E, se qualche sua delegata allegorica permette a tratti di essere débauchée, presto torna ritrosa in ufficio. Noi vorremmo che fossero tutte Ninotchka, ma anche il tipo fisico ormai non è dei più frequenti. Le carneficine a fin di bene non sono servite. E neppure i massacri fraterni. L'onda delle buone intenzioni continua a sciabordare in mezzo ai flutti del tedio. La causa della giustizia e dei popoli affisa tuttora lo sguardo sui santini, ma non raggiunge mai quella loro morbidezza estetica. L'avventurosità del Bene è ancora lontana dall'essere scoperta, dopo che per tanti anni siamo stati obbligati a ristorarci con i Nefandi, sempre prodighi di intrighi e di invenzioni. Intorno c'è una testarda insistenza sul cambiare la vita, ma senza nozioni precise sui facts of life. Mentre scrivevi i Souvenirs d. égotisme con la tua scrittura automatica di Civitavecchia, speravi che quei fogli sarebbero stati pubblicati dieci anni dopo la tua morte. Già vent'anni dopo era troppo, temevi: una volta mutate tutte le «nuances de la vie», il lettore avrebbe percepito soltanto le masse. Poi ti chiedevi: «Ma dove sono le masse in questi giochi della mia penna?». Ebbene, pensa che Gauthier, quella tua nuance, è diventato una massa o una moltitudine, come diceva una professoressa che non voleva compromettersi troppo con le parole del giorno. Ti abbraccio e ti aspetto questa sera per il whist. Talleyrand oo oo oo oo La toilette del principe di Galles era interminabile, come sempre. Laclos, distante, con qualcosa di oscuro e freddo nella parola, quella mattina cadde, per eludere l'attesa, nella trappola che un mondano sapiente come Tilly gli aveva preparato. «M. de Laclos, che non aveva una gran tattica di Corte, ma tutta la cupa impazienza di un filosofo o di un cospiratore, preferì chiacchierare che mettersi a tirar sempre fuori l'orologio e languire». «Com'erano nate le Liaisons?» insinuò Tilly appena lo vide cedere. E finalmente Laclos raccontò: erano un sogno di provincia, di Grenoble, un frutto della lunga noia di guarnigione. C'era un commilitone, oggi scienziato illustre, che aveva avuto molte storie di donne, era un uomo nato apposta per le donne. Fra le altre, una dama di Grenoble che riappare molto attenuata nella marchesa di Merteuil. Parlavano insieme, e talvolta Laclos gli dava consigli sulle mosse da fare. Poi c'erano tante altre storie accumulate negli anni, la sua cassetta dei veleni: sarebbe bastato spostarle sulla scena adeguata, Parigi. Così era andata, più o meno. Laclos si interruppe e bruscamente concluse: «Curavo lo stile più che potevo, e dopo qualche mese di ultimo lavoro gettai il mio libro al pubblico; dopo non ho saputo quasi niente della sua fortuna, ma mi dicono che vive ancora». A quel tempo, come Valmont si era «lavorato» Cécile Volanges, Laclos si «lavorava» ancora il duca d'Orléans, nel quale tanti vedevano un terrorizzante Valmont della politica. Da Londra, il duca spediva lettere strategiche che copiava diligentemente dalle minute del suo consigliere Laclos. Quale cristallina ebbrezza, essere colui che muove colui che è supposto muovere il complotto della Rivoluzione! Dalla solitudine militare dell'isola di Ré, dove le Liaisons si erano intrecciate, si era giunti al delirio del ragno che pensa di coprire il mondo con la sua ragnatela! Pochi mesi dopo, Laclos pretendeva di muovere occultamente non solo il duca d'Orléans ma il club dei Giacobini. E in parte era anche vero. Poi la ragnatela fu spazzata via dal torrente dei fatti. In un palco della Scala, il generale d'artiglieria Laclos si guardava intorno, desolato: nulla per lui era «noioso come un'opera buffa italiana, se non forse un'opera seria». Un dragone dalle guance arrossate, ancora un ragazzo, timido e curioso, gli venne introdotto nel palco dello Stato Maggiore: lo sguardo di Laclos finalmente « si intenerì», quando seppe che quel sottotenente Beyle era anche lui di Grenoble. Dalla provincia alla provincia, rifletteva, pensando a Milano, città per lui priva di qualsiasi incanto, fatta di strade e di case. E forse era il momento di tornare allo scrivere. Un progetto gli stava a cuore, per la sua vecchiaia: scrivere un'opera dedicata a «rendere popolare questa idea: che la sola felicità è nella famiglia». Non sarebbe stata cosa da poco: «sarà difficile disporre gli avvenimenti nel giusto modo, e la difficoltà quasi insormontabile sarà quella di interessare senza ricorrere ad alcunché di romanzesco». La mescolanza di stili e di immagini del 1790 si sarebbe presto ridotta a unità, timorosa di contaminazioni. Ogni ibrido è vizio. Per strada, la fatua varietà delle vesti scompariva, «si era indossata la casacca uniforme del mondo nuovo», primo segnale del borghese che non vuole farsi notare. E anche sulla scena si ritrovava l'unità della più tediosa Età dell'Oro che l'umanità abbia sognato. Chateaubriand, che aveva appena incontrato nel suo vagabondaggio americano lo stormire delle foreste intatte, l'erotismo creolo e il «sublime disordine» delle cascate del Niagara, ascoltò anche quello zufolare dei liberatori: «Mentre la tragedia arrossava le strade, la poesia pastorale fioriva a teatro; non era questione che di innocenti pastori e virginali pastorelle: campi, ruscelli, prati, montoni, colombe, età dell'oro sotto il tetto di paglia, rivivevano ai sospiri dello zufolo dinanzi ai Tirsi tubanti e alle ingenue magliaie che uscivano dallo spettacolo della ghigliottina.
Se Sanson ne avesse avuto il tempo avrebbe recitato la parte di Colin, e Théroigne de Méricourt quella di Babet. I membri della Convenzione si piccavano di essere i più benevoli fra gli uomini: buoni padri, buoni figli, buoni mariti, portavano a passeggio i bambini; facevano loro da balia; piangevano di tenerezza osservando i loro semplici giochi; prendevano dolcemente fra le braccia quegli agnellini, per mostrargli il cavalluccio delle carrette che conducevano le vittime al supplizio. Cantavano la natura, la pace, la pietà, la beneficenza, il candore, le virtù domestiche; queste beghine della filantropia facevano tagliare il collo ai loro vicini con estrema sensibilità, perché la felicità della specie umana fosse sempre più grande». Aria di Parigi. Hegel si aggirava con stupore per Parigi, e in quella «Parigi dentro Parigi» che è il Palais-Royal, seguiva obbediente le prescrizioni del Manuel des Ètrangers, anche se Cousin rideva di lui. A Marie Helena, che lo attendeva a Berlino, non mancava di segnalare le cose più notevoli: «Oggi, per esempio, siamo andati in un abattoir, cioè in un mattatoio.
In quale città del mondo sarei andato in un mattatoio? Ma questa è una delle cose notevoli di cui Parigi è debitrice a Napoleone, come di cento altre cose insigni... E prima abbiamo visto la Borsa, anche questa fondata da Napoleone; che tempio!». Proviamo a togliere Talleyrand dal quadro dei suoi anni, cancelliamo ogni sua orma. Che cosa manca, ora? La fluidità. Rimane la rozzezza rivoluzionaria e quella legittimista, quella direttoriale e quella napoleonica e quella borghese. Come tanti arieti, cozzano contro lo stesso muro. Mentre ogni municipale spirito di parte stava finalmente trovando la sua metafisica nella visione del Partito, Talleyrand conservava l'indifferenza del cielo e dell'acqua, mobile, sfuggente, indenne fra tante fedi.
Talleyrand non amava i bons mots. L'unico comportamento che per lui partecipava in qualche modo della perfezione era quello di una persona che a mala pena conobbe: sua madre. E la madre di Talleyrand fuggiva i bons mots come la peste della conversazione. «Per andare da mia madre, sceglievo le ore in cui era sola: così potevo apprezzare di più le grazie del suo spirito. Mai nessuno mi è sembrato avere nella conversazione un fascino paragonabile al suo. Non aveva alcuna pretensione. Parlava solo per sfumature; mai ha detto un bon mot: era già qualcosa di troppo espresso. I bons mots si ricordano, e lei voleva soltanto piacere e perdere quel che diceva». «La sua maniera, costantemente leggera, di trattare le più grandi cose...». La leggerezza di Talleyrand, e soprattutto la leggerezza nel trattare «le più grandi cose», è il segno in cui traspare la funzione occulta che egli si era scelta. Non esiste più nulla al mondo che non possa essere trattato con leggerezza è il suo presupposto. Tutti sono spaventati di riconoscerlo. Talleyrand lo accetta e lo fa agire in ogni suo atto.
Basta questo a creare quella incommensurabile distanza, che a tanti apparve mostruosa, fra lui e tutti gli altri. Talleyrand sa di poter usare la leggerezza perché le cose non hanno più un peso stabilito. Fluttuano, immensi corpi vaporosi, venefici, non riposano in se stesse. Nulla poggia. Non c'è nulla di più incorporeo e vacuo della volontà. Né si riesce a trovare un vincolo immediatamente visibile fra quella vacuità silenziosa, pura energia compressa, e le trasformazioni smoderate che essa provoca, spesso senza concedere requie sino alla devastazione.