IL BARBARO ARTIFICIALE



«...noi che non soltanto pensiamo e parliamo aforisticamente, ma viviamo aforismenoi e segregati, come aforismi nella vita senza comunione con gli uomini, senza partecipare alle loro pene e alle loro gioie, noi che non siamo consonanti nel chiasso della vita, ma uccelli solitari nel silenzio della notte». Stirner è uno dei molti segni da cui si apprende la fine dell'educazione. Scaraventato dai banchi della scuola nello Spirito Assoluto, come voleva il maestro Hegel, non poteva acquisire nessuna di quelle maniere tacite, di quelle minime variazioni nell'inflettere la voce che avevano fatto la civiltà e alla fine, per discrezione, pretendevano di essere soltanto dei minuscoli detriti del Gusto. Con lui, ormai, si può avere soltanto il rosario ossessivo dell'idea o l'urlo o l'afasia, alla quale finì per abbandonarsi, il martellamento (come alle tempie) del silenzio che si spalanca dietro l'idea svuotata. Stirner parla continuamente di spettri e di fantasmi.

E, mentre parla, tutto finisce per impigliarsi in quella livida malia che la sua voce stridula, insolente, inarrestabile vorrebbe dissolvere. Anche irridere. Ma nessuno più di Stirner era affine agli spettri. E' tuttora più facile incontrarlo fra gli spettri che tra i filosofi. Come qualcuno non ha mancato di osservare, si deve supporre che Stirner sia qualcosa di cui un filosofo di rango non può occuparsi. Se tocca le sue parole, poi si lava le mani. Già il nome dell'autore è poco serio, evoca il manifesto di un illusionista con tuba e pipistrello più che la dignità di un pensatore. Stirner continua a essere espunto dalla cultura, anche se centinaia e centinaia di titoli gli sono stati dedicati. Molti ricordano Stirner soltanto perché Marx-Engels gli hanno dedicato tante pagine caustiche dell. Ideologia tedesca un po' come Eugen Duhring si ricorda innanzitutto perché Engels gli ha dedicato l' Anti- Duhring, anche se in questo caso sarebbe più misericordioso dimenticare sia Duhring sia l'Anti-Duhring. Ci sono poi invece quei pochi che lo amano a tal punto da non volere amare altri per non diminuirlo. Venerano proprio lui che voleva divorare il sacro e dissipare la venerazione e talvolta inclinano a una molle demenza, talvolta a una fredda furia. In ogni momento, in qualche parte del mondo, c'è una piccola tipografia che lavora a stampare una nuova edizione dell' Unico. Nello scompartimento di un qualche treno c'è sempre un essere oscuro con una valigetta di fibra dove troveremmo una copia dell. Unico, spesso accompagnata da una di Così parlò Zarathustra. Di questi fatti non si cura l'università. Non ricorda che fu Stirner a sfregiarla una volta per tutte. Considera la sua opera «un bon sujet de thèse». Ma trattare di Max Stirner all'interno di una delle innumerevoli storie dei neo-hegeliani o dell'anarchismo invita già a schivarne la mostruosità. Allora Stirner diventa una «posizione», sempre estrema, ultima di qualcosa. Certo, ci sono stati anche lettori che di quella mostruosità si sono accorti, che l'hanno assorbita o respinta, senza celarla. Ma il corpo anonimo della cultura non l'ha riconosciuta. Giunto a una fase della sua vita in cui (come tutto il resto) pretende di essere autonomo, esso secerne al suo interno una nuova sostanza, e presto una nuova figura: la barbarie artificiale, il barbaro artificiale. Max Stirner le annuncia, le enuncia. E subito diventa spettrale. La presenza più intensa di Stirner si incontra così in autori che di lui tacciono o che di lui parlano in testi che non pubblicarono mai: Nietzsche e Marx. Molte loro parole non si possono intendere se non le leggiamo come un sussurrare impaziente, a volte febbrile, rivolto a un fantasma che li perseguita: Stirner. Marx e Nietzsche non hanno mai avuto molto da dirsi direttamente. Ma comunicano come due persone che non si conoscono, eppure hanno un sogno (un terrore) in comune. E allora sono costrette a incontrarsi almeno nel rabbioso, complice, esasperato, torvo, circolare combattimento con il loro fantasma. Quel combattimento li lega come forzati della stessa galera. In Stirner questi due primi consapevoli provocatori di una «filosofia sperimentale» ritrovavano una parte segreta del loro pensiero, ma appunto quella che non volevano riconoscere nelle sue conseguenze. Per tutta la loro vita si possono seguire le fasi di un paziente lavoro di occultamento di questa affinità, nel tentativo di sottrarsi alla oscura mutezza di colui che li aveva preceduti nel consumare l'inebriante tradimento del pensiero. La sfrontatezza di Marx e di Nietzsche discende in linea diretta da quella prima e insorpassabile di Stirner. «Ci voleva una eiserne Stirne ? una «fronte di ferro», sempre nel senso di «sfrontatezza»* per scrivere questo libro ? L' Unico, e quasi sarebbe da credere che l'autore proprio per questa ragione si sia scelto il nome Stirner». Il pensiero aspettava da tempo di degradarsi. Ma occorreva trovare chi fosse abbastanza empio per aiutarlo. Qualcuno che avesse «il gusto e il genio della provocazione», come san Paolo, Nietzsche e Joseph de Maistre, ma azzardasse un passo che fino allora era stato evitato: agganciare da un capo all'altro, con delicata cerniera, la metafisica allo sproloquio. L'incombenza cadde su un insegnante della scuola di Madame Gropius per ragazze di buona famiglia, che si firmava Stirner sulle gazzette del Vormàrz berlinese. Molti, in seguito, dichiararono quello che molti altri avevano supposto, senza osare dirlo: che la metafisica fosse in genere sproloquio. Ipotesi adatta alla grossolanità dei tempi. Più insinuante l'altra, a cui fu data scarsa attenzione: che lo sproloquio fosse metafisica. Stirner ha contribuito generosamente a confondere una volta per sempre le acque del pensiero. Dopo di lui, sarà un puro atto amministrativo distinguere chi è filosofo da chi non lo è. In ogni frase di Wittgenstein è sottinteso il disprezzo per il mestiere della filosofia. Valéry depositava i suoi esperimenti col pensiero in decine di quaderni, ogni mattina fra le cinque e le otto, ma si guardava bene dal parlarne durante la giornata, fra i salotti, l'Académie e i dìners en ville. Musil si mimetizzava fra gli scienziati che, con un lieve sorriso agli angoli della bocca, partecipavano ai ricevimenti dello Spirito. Lo sproloquio avvolgeva già tutti con benevolenza, li accoglieva nei suoi profondi interstizi. Dicevano di assistere all'avvento del disincanto. Ma da quanti secoli (alcuni parlavano addirittura di millenni) continuava a sopravvivere quel disincanto! E il mondo insisteva: rimaneva incantato. Stirner racconta come dovrebbe vivere un soggetto disincantato e la sua ironia deriva dal constatare che tale soggetto non esiste. Se potesse esistere, sarebbe classificato dagli scienziati disincantati come una sopravvivenza arcaica: muto, violento, imprevedibile, proteico. Privo di identità accertabile. Unico.

La divisione degli esseri fra platonici e aristotelici può essere formulata anche in un altro modo, con discriminazione forse ancora più precisa: gli esseri si dividono fra chi pensa che il mondo si regga per magia e chi non lo pensa. Fra quelli che non lo pensano, molti hanno il vizio di credere che la magia sia una qualche illusoria pratica operativa (per altro interessante prodromo della scienza). Ma Wittgenstein lo ha chiarito: non come il mondo sia è magico, ma che esso sia. Il rancore di Marx per i piccolo-borghesi ha origine nel suo gusto classicistico. Le forme, per lui, potevano essere solo chiuse e nette. I profili si dovevano stagliare su un fondo vuoto e trascurabile. L'aristocratico ha un tale profilo, così anche il borghese (finché si attiene a quelle virtù e vizi che lo fondano) e così, infine, l'operaio.

Ma ciò che sta in mezzo fra queste forme è il male più irrecuperabile.

Per Marx, i piccolo-borghesi sono i Lumpen della borghesia e i Lumpen sono il male stesso. Ciò che in essi lo turba è un certo carattere metamorfico e plasmabile, la mancanza di una fisionomia propria, che rende loro possibile diventare qualsiasi cosa, senza rispetto per i ranghi vidimati dalla storia. In quelle sabbie umide del livore, dell'ambizione, del risentimento e del delirio vedeva già nascere i bolscevichi e i fascisti. E i bolscevichi andavano benissimo: il bagno acido della Causa sarebbe bastato a renderli irriconoscibili. Il rivoluzionario, per definizione, non ha origine («non ha neppure un nome», dice il catechismo di Ne"caev): ha solo uno scopo. Ma erano gli innumerevoli altri proliferanti che lo spaventavano e gli apparivano non dominabili, una migrazione di meduse. L'annunciatore di quella schiera avvelenata fu da lui riconosciuto in Stirner. Quel suo singolo non offriva certo un modello antropologico al piccolo-borghese, come Marx-Engels sostennero per ragioni di astuzia polemica, ma qualcosa di ben più temibile: la rottura dello schema delle classi, l'irruzione caotica che veniva a guastare, al penultimo atto, la sacra rappresentazione della storia. Questo era il peccato imperdonabile per eccellenza e tanto basta a giustificare la furia dell'attacco a Stirner.

Sulla base di una consequenziale educazione hegeliana, Stirner prepara il terrore gratuito; sulla base del più affilato dandysmo, Barrès prepara l'immersione nella sapienza del sangue. Bourget vedeva il giovane Barrès di Un homme libre come il «nichilista delicato», che ha «tutte le aristocrazie dei nervi» e irride il mondo che ha già raggiunto la «pubertà della sciocchezza» (Huysmans). Gli rimarrà poi da aspirare l'odore delle stalle, chiedere al tutto di «rientrare nella razza». Mediatrice sarà una piccola tarata, Bérénice. Di lei sappiamo che «adottò come bambola una immaginetta dorata di Nostra Signora, che si apriva sul ventre mostrando la Trinità». Si mettono le mani sul passato, sulla razza, sul sangue, quando l'estenuazione dell'io nel nichilista delicato è giunta al suo termine, quando la barbarie prodotta in laboratorio sul piccolo uomo ha bisogno di appigliarsi a un Ordine. (Quell'Io era stato distillato nei tardi anni del Xix, pronto per i «ragazzi del 1889». Prima si era appena sentita qualche traccia di quell'arroganza estetica, dopo ne scomparirà il sapore o si mescolerà ai molti sapori delle masse ma perso ormai quel sentore clandestino, sequestrato e vizioso). Una delle prime caratteristiche dell. Unico è la brutalità ragionata, a cui si arriva attraverso l'educazione, anzi attraverso il sistema pedagogico più ambizioso che l'Occidente abbia prodotto, l'unico che pretendesse di assorbire, inglobare e sussumere tutto, nella sua furia di Aufhebung. I precettori dell'idealismo germanico si adoperavano a cancellare, col sordo lavoro del concetto, quanto di immediato, efflorescente, fuggevole e violento potesse sorgere. Anche i suoi nemici riconoscono che Stirner aveva il dono velenoso della consequenzialità. Si tratterà allora di constatare come sulla sommità della cultura si apra la terra ignota della barbarie artificiale, a cui Stirner ci introduce con il lieve sorriso del precettore che apre la porta della sua classe, dove ci attendono le fanciulle di Madame Gropius. Perché aggirarci ancora fra la segatura e le chiazze di birra della taverna di Hippel? Molti rivolgimenti e rovine sono sopraggiunti da allora, potremmo anche averla dimenticata. Ma nulla può scalfire il fatto che per opera del trascurabile Stirner, e sempre nel gergo dello Spirito Assoluto, allora per la prima volta venne bucato l'involucro protettivo della cultura, fu per mezzo di lui che si raggiunse quella irreversibile perdita di dignità del tutto che è diventata il nostro fondamento. Una certa barbarie, da allora, intride anche il più coltivato discorso, è un nuovo presupposto della sensibilità, del pensare. Sarà allora utile riportarlo alla luce nella sua crudezza. Più ancora che da Marx, da Freud e da Nietzsche (in fondo erano tutti esseri rispettosi, tenevano alle buone maniere e sapevano benissimo che dovevano mantenerle, anche se la «critica del sussistente» poteva doveva finire per scalzarlo), il mondo di oggi discende, senza saperlo, da Stirner. E non può saperlo, non solo perché «del padre non c'è certezza», ma perché ogni paternità ormai deve essere spuria, e Stirner qui non fa che sbrigare oscuramente la pratica, come si addice al piccolo impiegato del Nulla: «L'essere civilizzato delle città immense torna allo stato selvaggio cioè allo stato di isolamento, perché il meccanismo sociale gli permette di dimenticare la necessità della comunità e perdere i sentimenti di legame fra individui, che un tempo erano incessantemente risvegliati dal bisogno. Ogni perfezionamento del meccanismo sociale rende inutili certi atti, certe maniere di sentire certe attitudini alla vita comune». Lo aspettavano dai confini orientali, con sottili baffi mongoli e una collana di ossa, con la pelliccia imbrattata di midollo e di sangue: apparve come insegnante in un pensionato per fanciulle della società a Berlino, giacca impeccabile ma lisa, lenti ovali, il profilo beffardo e timido. Quando gli amici schiamazzavano da Hippel, si teneva in disparte, contro l'angolo della tavola. Mentre scriveva, si sentiva nella camera stantia uno stridore di nervi surriscaldati, la vicinanza di un ululato. Dopo la pubblicazione dell. Unico, la vita di Stirner, nella solita Berlino, che però ora voleva addirittura dimenticare Hegel, è un fatto solo contabile ed esotico, come quella di Rimbaud a Harar. Avrebbe poi trasmigrato nelle sue due forme definitive: il mutismo di Bartleby e la «nave morta».

Perché nasca Stirner deve esistere la Grande Città. Ben più che nella taverna di Hippel a Berlino, dove si trovavano i Freien, lo spettro del nemico degli spettri appartiene al sottosuolo di Pietroburgo, al ventre di Parigi, alle montagne di rifiuti di Londra, alle navi morte che inghiottono i loro abitatori senza documenti e senza nome nel porto di Anversa. Il suo luogo è ovunque si incontri la folla torbida degli autodidatti febbrili, dei negri della penna, degli uomini disponibili perché non appartengono a nulla, dei borghesi disonorati, degli aristocratici decaduti, dei dannati della terra, scagliati da una savana, dalle paludi o dal deserto sotto le volte marmoree dei Politecnici di un altro continente, la folla sempre più vasta di coloro che conoscono innanzitutto l'umiliazione pubblica e l'esaltazione solitaria. Sul registro degli alberghi Nietzsche si qualificava «professore universitario», ma non lo era più, per sempre, e sentiva ogni anno più chiaramente di assomigliare a quelle larve pullulanti. Fra loro avrebbe anche potuto assumere un ruolo, lo aveva già scelto: quello del «criminale rispettabile». Aveva in orrore quella compagnia invadente e sgualcita, dove sapeva però che i suoi libri avrebbero finalmente trovato orecchie prensili. Li allontanò da sé in ogni modo, mettendo in gioco fino all'ultimo le virtù dell'educazione. Ma non riuscì a cancellare i troppi segni di affinità. Dostoevskij, quando annotava nei suoi taccuini, con ripugnanza e curiosità accanto a somme minuziose di soldi mai arrivati o già scomparsi, che : l'uomo ormai non aveva un profilo, era circondato già da tempo, nella sua camera, da una torma ostile di quelle presenze, anzi a loro apparteneva e li aveva traditi. Consumava il suo lunghissimo tradimento nei romanzi, squarciati spesso dall'ilarità convulsa di chi è troppo vicino a ciò che narra, come un poliziotto che stende il verbale di un massacro a cui ha partecipato. Stirner è il barbaro che irrompe dalle province della Germania dei piccoli Stati nel cuore dell'Impero metafisico. Gli stessi strumenti che erano serviti a Hegel per assorbire ogni residuo di barbarie nello Spirito, servono ora a smantellare lo spirito, a sradicarlo da ogni terreno, a perforare il suolo antropologico dell'illuminismo. La vera «filosofia del martello», che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare, perché troppo irrimediabilmente educato, si compie nelle brevi, tempestanti, offensive frasi che compongono l. Unico. L.egoista di Stirner nega ogni dipendenza: ma ogni dipendenza è una radice, terrestre o celeste. L'egoista di Stirner è lo sradicato che per la prima volta si riconosce come tale. Gira per la città come un perfetto estraneo, a tutto e a tutti. Le parole che invadono la sua mente, i desideri che lo assalgono tutto è per lui cosa da usare o da gettare, suo è soltanto il gesto del prendere o dell'allontanare da sé. E' l'uomo del sottosuolo che saccheggia la metafisica. Di Stirner non abbiamo, ma soprattutto non potremmo avere, commoventi lettere da Schulpforta, con la richiesta di partiture di Schumann; c'è in lui qualcosa di fisiologicamente guasto e corrotto in rapporto alla cultura, qualcosa che lo avvelena dall'inizio. Presupposto di Stirner: il processo di secolarizzazione non riesce a consumare, o addirittura estinguere il sacro, come pretende. Lo sposta, null'altro. E la potenza che esso assume è tanto più devastatrice e incontrollata in quanto non ha più nome, né può essere riconosciuta per ciò che è. Che cosa non è stato perdonato a Stirner? Non tanto le numerose affermazioni manifestamente criminali sparse come spezie di Estremo Occidente nella sua cucina dell'iterazione neo-hegeliana. Non tanto i personaggi dell'«egoista» e dell'«unico», così incongrui e irriducibili a una qualsiasi ragionevolezza pratica. Ma per esempio una rapida frase («I nostri atei sono gente pia») in cui culmina una dimostrazione che nessuno ha potuto confutare. Stirner ha descritto il nostro mondo, sferzato dalla critica che «avanza senza tregua» verso lo snebbiamento totale, come un mondo profondamente bigotto. Che cosa c'è di più bigotto, infatti, di un sano laico, così burbanzoso e credulo verso i suoi princìpi? E quei fieri atei, tutti convinti che un mistico sovrano come Giordano Bruno fosse uno dei loro? La Chiesa, che lo ha bruciato, sapeva assai meglio con chi aveva a che fare. Loro invece gli hanno anche dedicato un monumento, come fosse il Milite Ignoto. E gli illuministi? Se davvero esistessero, dovrebbero evitare innanzitutto di credere nei Lumi. Ecco la nuova «gente pia», neppur protetta nella sua bigotteria dalle mediazioni cerimoniali, dall'arcano pragmatismo di una Chiesa. Invece che da un sacramento, si lasciano possedere da qualche maiuscola. La Società, l'Umanità, l'Uomo, la Specie (erano quelle che il secolo prediligeva e continuano a infierire oggi, anche se molte altre si sono aggiunte). Non sanno su quali presupposti agiscono e non amano che qualche irriverente sofista glielo chieda. Se sono costretti a scoprirli, offrono una visione assai meschina. Frantumi di banalità, cartigli di Luoghi Comuni rivestono lo zoccolo dei loro Princìpi e Valori. Meglio che lo coprano con le loro pratiche superstiziose. Non sempre sono assassine, talvolta hanno una certa stolida mitezza. Sospeso fra le masse oppresse e le masse opprimenti, Stirner anticipa le ghignanti parole di Lautréamont sulla poesia che «deve essere fatta da tutti, non da uno». Ma le applica alla filosofia. Nell. Unico ci invadono pensieri che a lungo non avevano neppure sperato di annidarsi nei libri. Pensieri bruti. Questa infrazione all'etichetta è un effetto imprevisto della regola democratica. Il cronista Lautréamont lo spiegherà: «Il dubbio è esistito sempre in minoranza. Nel nostro secolo è in maggioranza. Noi respiriamo dai pori la violazione dei doveri». Il dubbio sciabola ogni pensiero che alza la testa. Ma la sua lama concederà una disinvolta resurrezione alle vittime. Riappariranno presto, quei pensieri: come opinioni. In che cosa Marx-Engels frodano, parlando di Stirner? Pressoché in tutto. In un libro come L. unico, dove il paradosso è l. oggetto del testo, dove tutto è incongruo e aberrante da ogni via tracciata, basta fingere di non accorgersi che l'incongruenza, la paradossalità e l'aberrazione non erano accidenti ma il fine stesso del discorso, basta rifiutarsi di vedere che questa farneticazione non è altro che la definitiva propedeutica alla mutezza e il lavoro di distruzione sarà già fatto.

Allora si potrà dire tranquillamente che L'unico è incongruo, paradossale, aberrante e farneticante. Certo, questo lo si può dire anche in due o tre pagine. E il fatto che Marx-Engels lo ribadiscano per più di trecento testimonia per lo meno della loro cattiva coscienza. Testimonia anche della loro chiaroveggenza. Ormai uniti dal Sacro Vincolo della Causa, non potevano esimersi dall'infierire sul libro che più di ogni altro irride la Causa, il Vincolo e soprattutto la Sacralità della Causa e del Vincolo. Ammesso (ma non concesso in alcun modo) che la forza della loro «critica» fosse già arrivata a dissolvere ogni aura sacrale, non per questo Marx-Engels erano disposti a rivelarlo essotericamente. La classe operaia aveva bisogno di santini, la Causa sarebbe stata garante dei buoni sentimenti, delle ordinate e laboriose esistenze, dedite innanzitutto ad accumulare abnegazione per le lotte e gli scontri col Nemico. A nessun costo si sarebbe dovuto rivelare che il Libero Pensiero, quell'essere la cui fronte appariva finalmente sgombra da ogni chimera, era la vera beghina dei tempi moderni. L'acido prussico di Stirner, se assimilato anche in una dose minuscola, sarebbe bastato a dare spasmi irrevocabili al torso possente dell'Operaio, desolante figmento antropologico su cui Marx-Engels avrebbero costruito le loro pratiche, prima che fervidi «ingegneri delle anime» li sostituissero all'opera. Nelle colate di piombo del libro di Stirner, nelle sue ossessive ripetizioni e nei suoi indecorosi argomenti, Marx-Engels, che intendevano ormai parlare per tutta la massa dei proletari, videro sollevarsi davanti ai loro occhi un. altra, terribile massa: non quella disposta da Pelizza da Volpedo, marciante fiera a farsi fucilare da ufficiali baffuti. Ma l'infernale, informe agglomerato degli straccioni, degli esseri irriducibilmente vagabondi, incapaci di fedeltà a una classe, sradicati da prima della nascita, convulsi, inarticolati, irrispettosi odiatori del lavoro e della dottrina, quella che sui giornali veniva definita con un brivido sgomento la «schiuma della società». Era il sottosuolo che si scoperchiava, e l'«esercito di riserva» delle larve minacciava di soffocare i proletari prima che i proletari riuscissero a soffocare i borghesi. La maledetta scissione, quella Trennung che già angustiava i massoni di Lessing, penetrava dunque anche nella rocca immacolata del proletariato: essa appariva traversata da una lesione a mala pena visibile, una linea maligna che inghiottiva chiunque si allontanasse dalla giusta linea. Da quella voragine dissimulata sarebbero riemersi anni dopo i dannati della terra: formavano ormai un reticolo senza confini, pari soltanto a quello che il capitale gettava sul pianeta. Sottratti a ogni sicuro censimento, come topi, disponevano dell'arma più sfuggente e corrosiva: il rifiuto muto, la non adesione alla società sotto qualsiasi forma. Il cruccio segreto di Marx-Engels nella loro azione pratica non era tanto la borghesia, questa classe sinuosa, che dall'inizio si era dimostrata tanto avida di distruggersi quanto abile nel restaurarsi. Era il Lumpenproletariat, questo detrito di tutte le classi, questa «apoteosi dello sradicamento» da cui c'era da aspettarsi qualcosa di non meno dannoso delle varie, e previste, difese degli interessi di classe. I Lumpen minacciavano lo schema stesso della successione storica delle classi, quello schema salvifico su cui si fondava l'accettazione della tortura presente e del radioso avvenire. Se i proletari non erano l' ultima classe, la classe definitiva, quella che avrebbe fatto diventare weltgeschichtlich il destino umano, che gli avrebbe dato una dimensione planetaria, se al suo interno il proletariato lottava per distinguersi da un altro proletariato, quello dei Lumpen, allora tutto lo schema appariva minacciato, il disegno della Provvidenza storica non convergeva più verso un punto finale, ma rischiava di venire anch'esso inghiottito dal cattivo infinito della dissociazione inesauribile. Questa era dunque la minaccia segnalata da Stirner, ma non lo si doveva dire perché solo il fatto di riconoscerla ne dilatava l'esistenza. Così Marx-Engels non dichiarano mai che combattono Stirner per queste ragioni, così tentano di ricacciarlo fra gli innocui filosofi berlinesi e vogliono addirittura farlo passare, contro ogni evidenza, per «il più fiacco e ignorante di quella confraternita filosofica». Gli accenni alla questione dei Lumpen, anche nella Ideologia tedesca, sono frettolosi e contratti, ma tanto più significativi: «Stirner identifica coerentemente proletariato e pauperismo, mentre il pauperismo è la condizione soltanto del proletariato rovinato, l'ultimo gradino a cui scende il proletario ormai inerme di fronte alla pressione della borghesia, e solo il proletario defraudato di ogni energia cade nel pauperismo. Si vedano Sismondi, Wade, ecc'. «Stirner» e compari, per esempio, agli occhi del proletariato possono benissimo apparire come straccioni, mai però come proletari». Il proletario incarna dunque il perbenismo della miseria, e non riceverebbe mai in casa uno straccione. Le ragioni di questo vero odio di classe sono oscure: Marx-Engels ci dicono soltanto che il «proletario rovinato» non ha più «energia». Motivo sufficiente si direbbe perché il proletariato non ancora rovinato lo calpesti. Ma sarà vero che il «proletario rovinato» non ha più energia? O non sarà invece un'energia molto più insidiosa, un'energia che non si lascia più incanalare? Meglio passare oltre questa è la tattica scelta da Marx-Engels. Anche in seguito le ingiurie contro i Lumpen furono violente sì, ma sempre accidentali e occasionali. Non doveva apparire con troppa chiarezza che il criterio ultimo dell'umano (per Marx-Engels) era la sua organizzabilità. Ma rimase l'abitudine allo sdegno. Basta vedere con quale senso di fiera ripugnanza perfino Rosa Luxemburg metterà in guardia, anni dopo, i suoi compagni: «D'altra parte la classe operaia è l'ultima classe della società borghese che entra in scena con scopi rivoluzionari, ed è escluso che essa venga sopraffatta da uno strato sociale ancora più radicale, che va di là dagli scopi consapevolmente stabiliti dal proletariato. L'unico strato sociale che sta al di sotto del proletariato, lo strato dei parassiti sociali diseredati, quali le prostitute, i delinquenti di professione e ogni specie di esistenze oscure e casuali non è un fattore rivoluzionario, ma al contrario controrivoluzionario». E Lenin avrebbe tratto con la consueta disinvoltura le conseguenze di quell'odio, per puntellare la diga contro la ricorrente marea anarchica: «L'anarchismo è un prodotto della disperazione. E' la psicologia di un intellettuale che ha deragliato o di un rappresentante del Lumpenproletariat, non di un proletario». Si dava così per acquisito, una volta per tutte, che cosa dovesse essere la psicologia giusta del proletario, nonché dell'intellettuale che non deraglia. Ma, già quella volta, Marx e Engels non avevano incluso la Russia nel conto. Additare qualcuno al disprezzo come piccolo borghese borné e farneticante straccione dell'intelletto non era argomento efficace là dove, dai relitti di tutte le classi, stava sbocciando il fiore velenoso dell'intelligencija e la farneticazione si apprestava a diventare eminentemente «pratica». Dalle meschine camere d'affitto di Berlino, Stirner comunicava direttamente col sottosuolo russo. L'unico era innanzitutto l'uomo del sottosuolo che prendeva la parola. E se le argomentazioni coatte di Stirner sfociavano nell'agognata afasia, la parola del sottosuolo da allora non è mai cessata: ha impregnato ogni discorso, ha leso ogni gravità, ha irriso ogni rango, ha inseguito la storia in ogni cunicolo. In Russia sarebbe affiorata la fisionomia occulta di Stirner, quella che Marx non aveva voluto riconoscere. Tutto l'apparato hegeliano, le polemiche di scuola, la pretesa di esporre una «filosofia» non erano che rocce di cartapesta, ingombranti, ostentatorie adatte a suscitare il riso solitario, come i vergognosi ricordi che avrebbe elencato Dostoevskij attraverso l'uomo del sottosuolo (di professione «assessore di collegio»): la macchia gialla sui pantaloni, la voglia di urtare, sulla Prospettiva Nevskij, l'ufficiale borioso, le facce ottuse dei vecchi compagni di scuola. Con Dostoevskij, L. unico avrebbe trovato la sua epigrafe: «Signori, mi scuserete se mi sono messo così a filosofare: ho quarant'anni di sottosuolo». Marx paventava con superstiziosa lucidità la potenza del declassamento, che intorbida ogni ascesa luminosa del proletariato. Declassarsi non significa passare da una classe all'altra, ma passare da una classe, con le sue osservanze e le sue livree, a un luogo oscillante, senza nome, senza profilo, senza appartenenza, che non si pone più dentro ma di fronte alla società. Il singolo, questo personaggio refrattario di cui Marx avrebbe illustrato con asciuttezza nei Grundrisse la genealogia nel processo del capitale, sfuggiva però alla sua presa come esistenza empirica. Quel vortice psichico disancorato da tutto non era più un materiale che si lasciasse elaborare con tranquillità. Tutt'al più ne poteva nascere il terrorista. Non solo: era il personaggio che per primo operava il distacco dalla fede più oppressiva che Marx condivideva coi suoi tempi (con i nostri tempi): la fede nella Società. In Balzac, ancora, fra i sottoscala e i saloni di Parigi, incontriamo molti destini di avvilimento e degradazione progressiva. Ma il fatto del declassarsi non produce mai «l'effetto russo». Qui ancora domina la maestosa comédie, che implica una sequenza lunghissima di gradi e sfumature dei gradi, fra i quali si può ascendere o discendere. Il centro tenebroso è Vautrin, l'occhio del criminale-poliziotto, che rappresenta l'onnipotenza dal basso. Egli solo potrà impunemente assumere tutte le maschere, perché è il dio che in incognito visita le sue vittime. Tutti gli altri potranno indossarne molte, in successione, ma ogni volta costretti e calamitati dal loro ruolo momentaneo. Con Dostoevskij, invece, una massa gelatinosa assorbe i   profili. Tutto è instabile e un patto segreto lega l'instabilità all'abiezione. I suoi personaggi tendono a perdere (o hanno perso fin dall'inizio) la loro appartenenza: al sangue, alla classe, ma soprattutto alla società, così come al sentimento che, con guizzo malevolo, sono pronti a capovolgere in ogni momento. Fluiscono senza argini, e ormai quasi con indifferenza: innocenti oltre che depravati, pietosi nel torturare, le loro lagrime introducono al più selvaggio riso di scherno. L' unico era nella biblioteca del giovane Dostoevskij. E il libro circolava anche fra i Petrasevskij, quel gruppo perversamente candido di sovversivi che si sarebbe sciolto davanti ai fucili puntati degli ufficiali di Nicola I, prima di sperdersi fra le «case dei morti».

Ma nel rapporto Dostoevskij-Stirner,troviamo qualcosa che è molto più grave di una discendenza di idee: è il monstrum antropologico presentato da Stirner che continuerà a vivere nei romanzi di Dostoevskij. L. unico immette nella psicologia un reagente violento: qualcosa che provoca il distacco da tutto ciò che si offre come Legge: innanzitutto l'identità, il sistema delle equivalenze e via via tutto sino ai ruoli, alle convenienze di classe, ai sentimenti stabiliti. Con Dostoevskij un simile dissestamento di tutto l'umano, il respiro dell'arbitrio, una torbidità fluttuante fra i caratteri, un'impossibilità a tracciarne profili definiti irrompono nel romanzo. La psiche in forma di nube evade da ogni fessura e avvolge la città. Quell'essere che Stirner chiama l'unico è innanzitutto una cavità informe: Dostoevskij evoca da quella cavità un pullulare di volti: l'uomo del sottosuolo, che nel suo giusto anonimato in certo modo li ingloba tutti, ma anche Raskol'nikov, Kirillov, Ivan. Dostoevskij abita il sottosuolo come Zarathustra la sua caverna sulla montagna, ma non ospiterà gli «uomini superiori». Aspetta invece l' Unmensch di Stirner, tutto ciò che sfugge al canone domesticato dell'umano, che i torturatori umanisti, i coltivatori di «scienze e buon senso», tentano di imprimere sull'umanità convinti di farle del bene. Da lì risuoneranno le sue pacate e rovinose domande: «Ma che cosa vi fa essere sicuri che non soltanto si può, ma si deve trasformare così l'uomo?»; «Non sarebbe poi possibile che all'uomo non piaccia lo star bene?». Giunto in Russia, e abbandonate le cappe hegeliane, Stirner non avrebbe potuto evitare di fare un discorso «a proposito della neve fradicia». Il timbro dell'uomo del sottosuolo nasce da quel sarcasmo che a Berlino i primi lettori dell. Unico non avevano neppure percepito, tanto poco sapevano delle cose della vita, e ora culmina: «A noi pesa persino d'essere uomini, uomini dotati d'un vero, d'un proprio corpo e d'un proprio sangue; ci vergognamo di questo, lo riteniamo un'ignominia e aspettiamo di diventare non so che inauditi esseri astratti. Siamo nati morti, del resto è un pezzo che non nasciamo più da padri vivi, e questo ci conviene sempre più. Cominciamo a prenderci gusto. Presto inventeremo la maniera di nascere dall'idea». Lo stile si è fatto più insinuante, ma riconosciamo subito la voce dell'unico. Anche qui, come in Stirner, ci invade un elemento di brutalità costruita, una immediatezza innaturale, che si rivolta contro : l'homme de la nature et de la vérité (che è : l'homme dans toute la vérité de la nature all'inizio delle Confessions di Rousseau). L'uomo del sottosuolo è infatti un prodotto alchemico, «nato da una storta» e «non già dal seno della natura»: ma l'artificio lo rende ancora più violento, perché più civilizzato («la civiltà sviluppa soltanto la varietà delle sensazioni e null'altro»), gli toglie quella nativa stupidità degli uomini che «si convincono più presto e più facilmente degli altri d'aver trovato alla loro attività un sicuro fondamento».

Mentre si voltola nei suoi panni rancidi, l'uomo del sottosuolo, perfetta creatura occidentale, continua ad avere il vizio dell'epistemologia. Con una scheggia di diamante incide crudelmente la materia diafana dei pensieri. Scopre di essere il soggetto del senza fondo, del bespot"cvennost di sestov ( Bodenlosigkeit, déracinement dirà la traduzione francese di Boris de Schloezer) e inveisce: «Dove le ho io le cause prime su cui poggiare, dove li ho i fondamenti? Dove li andrò a prendere?». Come Stirner, l'uomo del sottosuolo ha «fondato la sua causa su nulla» e anche la sua voce è stridula. Dietro al livore, alle ingiurie, ai silenzi troviamo un'esperienza fondamentale che Marx e Stirner hanno in comune e segna la loro vita: la spiritizzazione del mondo. Mentre l'incalzante filosofia, che ora per laico pudore si chiamava «critica», per non parlare dell'avida scienza, scacciavano ombre, ipostasi, idee, simboli, aure, categorie, emblemi dal mondo, dissolvendolo in una cruda luce diurna sul tavolo anatomico, mentre i borghesi si rallegravano fra loro perché lo Spirito andava sempre più in là e intanto diventava sempre più superfluo, sicché era d'obbligo ricorrervi solo quando si scoprivano i monumenti, mentre le macchine ormai, anche se non nella retriva Germania, ronzavano incessantemente e, poiché la Geschichte era diventata Weltgeschichte, dai loro ciechi movimenti, congiunti ai corsi e ricorsi della Borsa, dipendeva l'estinguersi di lontane popolazioni, mentre il totale disincanto planava sulla terra e si inciampava sulle aureole nel fango dei crocicchi, mentre il grande corpo del secolo diciannovesimo operava senza saperlo il suo feroce esperimento su se stesso, e insieme era convinto di fare tutt'altro (e soprattutto di «fare luce») due giovani tedeschi piccolo-borghesi, marchiati da una naturale tendenza a degradarsi in Lumpen (Stirner due volte in prigione per debiti, Marx fermato a Londra come sospetto ladro mentre andava a impegnare l'argenteria della moglie, che portava lo stemma degli Argyll) si guardarono intorno e videro una sarabanda di spettri. Condividevano con il loro tempo la convinzione che gli spettri fossero un segno del male (Guénon osservò l'incresciosa coincidenza per cui lo spiritismo comincia a dilagare negli Stati Uniti come un'epidemia nel 1848, necessario contrappeso alle barricate europee, che a loro volta erano solo un delicato segnale dell'emergenza di un nuovo personaggio, il Caos, sul palcoscenico di Corte della storia). Il loro sguardo si fissò su quegli spettri e ne fu catturato. Ma resistevano e disprezzavano quelli che, intorno a loro, procedevano ignari, convinti di abitare ormai in un mondo vuoto. « Hypostases non fingo!» enunciò l'invasato Max Stirner dalla sua cattedra per fanciulle, mentre un vortice di categorie lo stringeva al muro. A questo proclama, ben più radicale ed efficace del suo antenato, emesso da Newton, Marx risponde con un'alzata di spalle («Pfuil Credere che il pensiero determini la realtà, mentre è la realtà che determina il pensiero!» con tutto il rosario dei chiasmi concomitanti) e punta l'indice sul concreto, dove tuffare conti, comptoirs, magazzini, ore lavorative, dogane, oro, obbligazioni e navi saccheggiatrici. Ma è una finta ripulsa: l'applicazione più rigorosa dell'attacco stirneriano alle ipostasi si compie qualche anno più tardi, nel primo libro del Capitale. In quelle pagine le parole di Stirner, troveranno la loro verifica sperimentale, che proprio Marx aveva escluso con burbera impazienza. Una volta spogliata la realtà di ogni velo metafisico, ridotta al nudo processo produzione-circolazione-consumo, da cui tutti gli altri derivano e su cui si modellano, secondo volontà degli assiomi elencati da Engels, proprio allora si assisterà alla grande ridda degli spettri, alla estrema mutazione del Geist in Poltergeist, che si impadronisce del guardaroba e delle sedie, delle donne e delle pezze di stoffa e tutto trascina dal possesso alla possessione. Unico prosecutore immediato di Stirner, unico fedele seguace che abbia rigorosamente applicato al concreto ciò che il maestro aveva troppo genericamente divinato è dunque il Marx dei Grundrisse e del Capitale. C'è poi un seguace più tardo che, mosso da simili presupposti, avrebbe vagabondato a lungo per articolare in una strategia quel violento imperativo iniziale: Nietzsche. Appena giunto a riconoscere il carattere fittizio di ogni ipostasi, e il dominio maligno di quelle finzioni, invece di ritrarsi nella barbara mutezza dell'«innominabile» e dell'«indicibile» riconoscerà il fittizio (e dunque l'ipostasi) ovunque, non solo in ogni parola e in ogni gesto, ma in ogni forma e processo della natura. E sceglierà di attraversare tutto il fittizio accettandolo come tale, unica pratica che permetta, mutando di continuo i termini dell'apparenza, di evitare che essa, per quanto sontuosa e ocellata, insensibilmente si pietrifichi in essenza. Col tempo, tutto finisce in storia della filosofia. Nel 1866, dopo che per vent'anni un'oscurità quasi totale era calata su di lui, si nominava Stirner in due libri che sarebbero rimasti a lungo una lettura di riferimento: il : Grundriss der Geschichte der Philosophie di Erdmann e la Geschichte des Materialismus di Lange. Proprio da una pagina di quest'ultima «storia» avranno origine le nuove vicende di Stirner. L. unico vi riemerge dal silenzio rigeneratore come «opera famigerata». Ma Lange si era lasciato in qualche modo impressionare da Stirner e aggiunse le parole che sarebbero state decisive: «questo libro ? L. unico* il più estremo che conosciamo in genere». La «magia dell'estremo» («la magia che combatte per noi, l'occhio di Venere, che irretisce anche i nostri avversari e li acceca, questa è la magia dell. estremo, la seduzione che opera tutto ciò che è più estremo: noi immoralisti noi siamo i più estremi...») avrebbe operato ancora una volta. Al British Museum, nell'estate del 1887, un giovane scozzese, John Henry Mackay, leggendo l'opera di Lange si imbatté per la prima volta nel nome di Stirner e in quella frase. Prese nota. Quando, un anno dopo, lesse L. unico gli apparve che l'umanità aveva trovato in Stirner il suo liberatore. Presto si gettava sulle tracce del portentoso e ormai ignoto autore. Marx-Engels avevano costruito, pezzo per pezzo, il «marxismo» e il «marxista» (ovviamente non mancando poi di denigrarlo), Stirner non costruì lo «stirneriano», anche se lasciò buoni spunti perché si costruisse. Sarebbe nato irresistibilmente da solo: il prototipo era quello scozzese un po' ridicolo ed enfatico, lo avrebbero seguito innumerevoli altri, dagli operai del terrore nero ai dandies della «Revue blanche». Mackay si dedicò alle sue ricerche per la biografia di Stirner mobilitando tutte le forze possenti del Kitsch spirituale («perché questo libro è la vita stessa»), che toccava in quel momento vertici mai più raggiunti. Stirner provocava un ulteriore paradosso:

«Ecco qui il libro di Stirner, prodotto anche troppo maturo ed estremamente blasé di una lunga evoluzione, senza più un soffio di ingenuità, ultima scheggia dello hegelismo franante, che si seppelliva nella critica e nel riso di scherno. E dall'altra parte Mackay come biografo di Stirner un cuore puerile, colmo di ingenuità, un'anima bella, calda, che tutto ha salvo una goccia di humour e di capacità critica». Lo smantellatore della «causa» diventava ora la più nobile «causa», da diffondere con ogni mezzo: oggetto di sacrificio, di abnegazione, di incrollabile devozione. Mackay per primo, e poi la stirpe imbarazzante degli stirneriani, saranno un esempio vivente di quegli «atei pii» che Stirner aveva beffato nel suo libro. Nel corso della sua missione, Mackay osservò ben presto qualcosa di strano. Aveva fatto pubblicare un annuncio perché chiunque avesse avuto a che fare con Stirner si mettesse in contatto con lui. Scarse risposte. Le tracce svanivano un attimo dopo essersi rivelate. Giungeva notizia di persone morte, traslocate in luoghi ignoti, di archivi dispersi. Sollevando il capo con fierezza perplessa, Mackay osservava: «Forse che una vita di tale grandezza non dev'esser stata ricca anche di grandi esperienze esteriori?». Ebbene sì. Se Stirner in quanto spettro sembra aver cancellato per quanto possibile le tracce della sua vita anagrafica, se nemmeno un ritratto (salvo lo schizzo tracciato dal nemico Engels) e a mala pena una firma troviamo di lui, quel poco che è rimasto ci appare immerso in una luce univoca e compatta: quella dello squallore e della penuria, della vita anonima e umiliata, che serve solo a riempire qualche riga dei registri municipali e degli archivi scolastici. I soli, di fatto, che si dischiusero a Mackay. Le ricerche per la biografia durarono anni. Solo nel 1898 Mackay pubblicava a Berlino il suo : Max Stirner. Sein Leben und sein Werk, che sarebbe rimasto fino a oggi l'unica biografia dell'unico. Nel frattempo però era dilagato un «caso Stirner», coda velenosa del «caso Nietzsche». E come la sorella Elisabeth accudiva il filosofo a Weimar e lasciava che pochi e scelti ospiti lo intravedessero sulla poltrona, avvolto in una lunga, spessa veste bianca, lo sguardo vitreo, così il patetico Mackay voleva essere il Primo Apostolo di Stirner. Ma in ogni setta si disputa per le precedenze. Amareggiò Mackay che il filosofo Eduard von Hartmann pretendesse di essere lui il «riscopritore» di Stirner, per ciò che ne aveva scritto nella Philosophie des Unbewussten (1869) e nella : Phànomenologie des sittlichen Bewusstseins (1879), mentre era chiaro che a Hartmann premeva di innalzare Stirner solo per diminuire Nietzsche. Lo amareggiò la prefazione di Paul Lauterbach a quella edizione dell. Unico a pochi Pifennig nella Universal-Bibliothek della Reclam (inizio 1893) che segna la trionfale reimmissione di Stirner fra gli autori da leggere. Segnalare, come faceva Lauterbach con gesto colto, a quali autori Stirner appariva «affine» era per Mackay un atto di lesa maestà. Perché occorreva dire preliminarmente che Stirner era la Buona Novella. Per fortuna c'erano, ormai, gli «anarchici individualisti» e l'amico Tucker negli Stati Uniti, che aveva inventato quella formula per la gioia di tutti i futuri storici delle idee. Nelle loro «fedeli e forti mani», ammoniva Mackay, era custodita l'eredità di Stirner, un po' come Marx-Engels affidavano la loro a un proletariato a cui imponevano di essere rude e schietto. Quanto a Nietzsche stesso, anche se Mackay gli concedeva una certa stima, il fatto che la sua fortuna avesse trascinato con sé la riscoperta di Stirner gli appariva piuttosto scorretto. Come si poteva, argomentava Mackay, paragonare questo «spirito confuso, eternamente oscillante, continuamente contraddittorio, sballottato quasi senza difese fra la verità e l'errore, col genio profondo, limpido, quieto e superiore di Stirner?». Era «un'assurdità, non meritevole neppure di una seria confutazione». Con i suoi aggettivi carichi di buone e ottuse intenzioni, Mackay ricostruiva un ritratto del Grande Uomo Ignoto. Quanto più le sue ricerche sulla persona Stirner rifluivano nel vuoto e nell'insignificanza, tanto più fervidamente egli tratteggiava un'immagine priva di qualsiasi riferimento a una realtà documentabile, accumulava già ex-voto intorno al miracoloso medaglione del primo essere compiutamente empio della storia. Coerenite col suo stile, e per evitare che «anche queste tracce esteriori della grande vita siano cancellate», Mackay si dedicò ben presto alle lapidi. Con l'appoggio di Hans von Bulow, la sola persona che avesse conosciuto sia Stirner sia Nietzsche, ne fece porre una nella primavera del 1892 sulla facciata della casa nella Philippstrasse dove Stirner era morto. Su una lastra di granito comprata a buon prezzo perché traversata da una pressoché invisibile lesione, fu inciso: «In questa casa visse i suoi ultimi giorni Max Stirner (Dr. Caspar Schmidt 1806-1856) il creatore dell'opera immortale: L'unico e la sua proprietà 1845». Nel corso delle sue ricerche, Mackay avrebbe poi accertato che Stirner non aveva mai acquisito il titolo di dottore in filosofia e in verità neppure quello di professore di ginnasio. Sulla tomba fu inciso il solo nome Max Stirner. La sottoscrizione per le spese aveva raggiunto 300 marchi, ma ne occorsero 469. Ida Overbeck: «Una volta che mio marito era fuori, Nietzsche rimase a conversare con me per un po' e mi parlò di due strani tipi di cui si stava occupando in quel momento, nei quali intravedeva un'affinità con lui stesso. Come sempre quando riconosceva certi rapporti interiori, era animato e felice. Qualche tempo dopo trovò un libro di Klinger da noi. Mio marito non aveva trovato Stirner in biblioteca. «Ah,» disse Nietzsche «su Klinger mi sono sbagliato. Era un filisteo, non sento alcuna affinità con lui; ma Stirner, quello sì».

Intanto un alito di solennità passava sul suo viso. E mentre io, tutta tesa, guardavo i suoi lineamenti, essi mutarono di nuovo, fece un gesto con la mano come per scacciare, respingere qualcosa e sussurrò: «Ora gliel'ho detto, e non volevo parlarne. Dimentichi tutto. Parleranno di plagio, ma lei non lo farà, lo so»». Perché il pensiero ha bisogno delle ipostasi? Perché sa di racchiudere potenze che lo scavalcano. L'ipostasi è un atto di omaggio che il pensiero offre al regno delle immagini.

Quelle figure allegoriche, dallo sguardo vuoto e cupo, statue che delimitano il recinto dell'intelletto, sono le ultime eredi degli angeli e delle grandi bestie zodiacali, che un tempo saccheggiavano il pensiero senza ritegno. Tuttora esse stanno in circolo fra le erbe folli, e presto tutti dimenticheranno che avevano una funzione: perché, infatti, il pensiero dovrebbe fermarsi in un recinto? L'indefinito movimento rettilineo lo attira verso un ignoto di cui si suppone che sia della stessa natura del noto. Le statue recedono, si coprono di muschio, prima che un anonimo delinquente le decapiti. Nello stagno al centro del parco giacciono silenziose le ninfee. Sotto il filo dell'acqua si cela un'oscura vita che presto farà giustizia del padrone del giardino.

Paradossi: perché tutto fosse processo, tutto doveva diventare cosa.

(Cosa è ciò di cui si può disporre; processo è una potenza capace di disporre di qualsiasi cosa). E, perché tutto diventasse cosa, tutto doveva essere definibile, delimitabile, infine separabile dal tutto.

Cosa: è ciò che si può amministrare, che ha un profilo netto, che si distacca dal resto. Il meccanismo della formazione delle ipostasi è quello che permette appunto una tale precisazione, e fissazione, dei nembi psichici. Alle ipostasi, però, era attribuito un sovrappiù di potenza rispetto al soggetto, che le rendeva non disponibili all'uso ma, al contrario, capaci di usare. Si trattava allora di cancellare il ricordo di tale potenza: e la ragione anche questa volta fu zelante. Ma ne andava della sua vita, o piuttosto della sua tranquillità. La beffa sugli angeli, che traversa i secoli della scienza aggressiva, serviva innanzitutto a tale fine. «Lo spirito dimora in cielo e dimora in noi; noi povere cose non siamo appunto nient'altro che la sua «dimora», e se Feuerbach adesso distrugge la sua dimora celeste e lo obbliga a trasferirsi con armi e bagagli da noi, ho paura che noi, suo alloggio terreno, saremo un po' sovraffollati». La prosaicità di questo trasloco corrisponde al gesto continuamente beffardo di Stirner: mettere il sublime in contatto immediato non tanto con l'infimo quanto con ciò che è medio, con quella stanca quotidianità che dovrebbe ora assorbire ogni cielo e inferno. Così, torcendo appena Feuerbach, Stirner fa ruotare tutta la scena: non più le tesi speculative del fiorente dopolavoro, ma un inaudito caso antropologico, che disturba ogni classificazione. Nella tavola di varianti entro cui si usa inscrivere il rapporto fra sacro e profano incontriamo finalmente una novità: uno dei termini dell'opposizione, il profano, pretende di ospitare nei suoi appartamenti Biedermeier una carovana di zingari gremita di cianfrusaglie, solo perché qualcuno di loro sostiene di essere un lontano parente. C'è un Feydeau in agguato, dietro tutto questo, e Stirner se ne è accorto. Così ci presenta un tale avvenimento epocale come un momento di confusione in famiglia per l'arrivo di ospiti più numerosi e invadenti del previsto.

Ma questa scena di comicità domestica prelude nondimeno a portenti: il sacro esige un ricettacolo, il suo potere miasmatico e penetrante può essere affrontato solo da chi conosca accorgimenti per contenerlo (oggetti, supporti, costruzioni, riti, formule). Nell'intérieur borghese nulla è preparato a un tale compito: i soprammobili ammiccano, si aprono le valve di scatolette disseminate, le tende tremano e si increspano le carte da parati, stridono le tovaglie. L'Ospite passa, lascia qualche sua impronta, si ritira verso le soffitte si deposita in Odradek. Da allora, agli occhi del bambino che sarà Walter Benjamin, ogni oggetto della stanza diventa un totem. Accostandogli l'orecchio, si sente ancora il fruscio di quel passaggio. Le pareti sono tatuate. «Che cosa ci guadagnamo se, per cambiare, spostiamo il divino da fuori di noi a dentro di noi? Siamo noi ciò che è in noi?». Le trombe squillanti dell'Umano annunciavano allora continue conquiste. Si immagazzinava di tutto, e l'individuo contemplava con compiacimento la crescita dei suoi possedimenti. Ma chi si appropriava di che cosa? E qual era la differenza fra l'appropriarsi di una categoria del pensiero e il possedere un titolo di credito? Il possedere appariva come un primo gradino verso l'appropriazione, la quale a sua volta si poteva ritenere totale quando assorbiva senza residuo l'entità appropriata: : ablatio omnis alteritatis et differentiae, aveva scritto Nicola Cusano. Ma lo riferiva all'anima deiforme, che si assimila alla divinità. Mentre ora si trattava di assimilarsi a qualcosa che per definizione ci era estraneo. Eppure, anche senza far intervenire il divino, che complica sempre malignamente le cose, e lasciando fuori anche ogni laico possesso, l'appropriazione incontra comunque alcune difficoltà. Già il nostro corpo ci è estraneo: lo possiamo usare, oppure possiamo esserne oscuramente sopraffatti comunque lo trattiamo come una pluralità di estranei. E la mente stessa: non è forse capace di guardarsi come un. altra cosa? Non è questo, anzi, un suo carattere imprescindibile? Che cos'è la gloriosa «autocoscienza«, in cui allora svettava lo Spirito, se non l'espansione totale di quella capacità? Risaliamo ancora più indietro: che cos'è proprio? Nella risposta a questa domanda si svelano inevitabilmente tutte le ambizioni, tutte le intenzioni riposte del pensiero. Apriamo le Upanisad (ma negli anni di Stirner non ci si era ancora accorti che Schopenhauer aveva appena insegnato ad aprirle). Nelle tre parole del tat tvam asi il proprio si dichiara come scoperta dell'identificazione: l'estraneo è uno degli innumerevoli frutti della non-conoscenza, che impedisce la circolazione del proprio in se stesso.

E quel se stesso è il tutto. La non-conoscenza rimane però ciò che immediatamente ci è proprio. Paradossi di un pensiero pullulante di dèi. Ora, la ragione emancipata di Feuerbach aveva appena incamerato gli dèi, e oltre tutto nella forma eufemistica del «divino». Evidentemente il soggetto di Feuerbach aveva mire diverse dal soggetto delle Upanisad, che per altro non conosceva. Quale proprio cercava, allora? Per Feuerbach, un modello di Uomo pieno di buoni sentimenti e virtù. Ma Feuerbach è qui un pretesto, e non è certo nella sua moderata ragione che cercheremo la risposta del tempo senza dèi. La ragione senza presupposti ogni presupposto è un estraneo la ha fissata nell'indagine in cui sviluppa la sua massima forza: quella logico-matematica. Proprio è un enunciato che appartiene a una teoria formalizzata. Una teoria formalizzata è una sequenza di enunciati trasparenti, nel senso che in essa ogni enunciato è definito senza residui ed è riconducibile, tramite regole di derivazione, a un minimo numero di enunciati originari (gli assiomi). Il sistema formale è una molteplicità dove tutto è e non può che essere proprio. Ma sappiamo dal teorema di Godel che non esiste per le teorie formalizzate interessanti (fra cui l'aritmetica) una procedura effettiva che permetta di decidere la proprietà, cioè l'appartenenza di un enunciato generico alla teoria stessa. Anche il pensiero senza presupposti incontra dunque una insuperabile difficoltà nel processo di appropriazione. E il teorema che la rivela è forse il pensiero da cui quel pensiero pende per impercettibili fili. Ma non è sicuro che la costruzione del sistema formale mirasse innanzitutto alla appropriazione della coerenza logica. Anche il pensiero dove gli dèi sono assenti ha i suoi paradossi. Di fatto, ciò che colpisce immediatamente nel sistema formale è la sua potenza. L'aritmetica, che è il sistema formale su cui Godel ha dimostrato il suo teorema, non può affermare la propria coerenza. Ma l'aritmetica agisce. E un sistema formale che funziona è anche una macchina che produce, moltiplica la potenza. Torniamo alla costruzione del sistema formale: quali sono i suoi caratteri in rapporto al resto del mondo degli enunciati? Innanzitutto, l'assenza di presupposti: il sistema formale considera uguale a zero tutto ciò che gli sta fuori. Poi l'arbitrio: qualsiasi enunciato può essere preso come primo enunciato di una teoria in un sistema formalizzato, purché definisca ogni suo elemento senza residuo. (In realtà il residuo c'è sempre: nell'enunciato a) b esso è la forma dei segni a, (, b: «in principio era il segno», disse Hilbert, e la frase involontariamente? accennava al fatto che l'arbitrio può rendere trasparente tutto, ma non se stesso). La riduzione a zero del circostante e l'arbitrio nel porre i segni degli enunciati nel sistema formale sono due procedimenti di smisurata potenza. La loro applicazione non si arresta nell'ambito in cui tali procedimenti si manifestano nella loro purezza, che è appunto quello logico-matematico. Senza che il soggetto lo sappia, questi procedimenti agiscono in tutti gli ambiti del pensiero senza presupposti. Agiscono nelle loro forme più impure, e ovviamente incoerenti: sono ogni volta simulazioni più o meno sottili o elaborate di sistemi formali. Ma la loro intenzione non è la coerenza, che il sistema formale per altro non riesce a possedere al suo interno. Queste simulazioni mirano alla potenza e la raggiungono. Spesso in una misura che va enormemente al di là del previsto (appunto perché sono simulazioni, dunque i loro elementi si mescolano ai dati empirici, non sono trasparenti, anche se si finge che lo siano, finché la simulazione regge). Il sistema formale può essere un grandioso sistema di controllo. Anche se necessariamente incontra, a un certo punto del suo sviluppo, un elemento di irriducibile incontrollabilità. Ma la speranza è che quell'elemento non dia troppi disturbi pratici. Di fatto l'aritmetica non ha smesso di fornirle i suoi servigi dopo il teorema di Godel. Nei sistemi formali simulati l'incontrollabilità si manifesta in forme evidentemente molto più drastiche, anche in rapporto al puro funzionamento. Ma l'ebbrezza della potenza, fino a quel momento, è immensa. In essa il pensiero senza presupposti trova la sua formulazione del proprio. Proprio è ciò che appartiene all'ambito in cui è esercitabile una forma di potenza. La potenza si valuta come capacità di controllo. Il controllo si produce per mezzo della simulazione di sistemi formali puri, o mescolando le simulazioni ai sistemi formali puri. Ma siamo noi i sistemi formali che agiscono in noi?

La confisca del divino da parte dell'umano, questo atto di buona amministrazione richiesto dai tempi, avrebbe offerto grandi sorprese al momento dell'inventario. Non solo la Bontà e la Potenza, quelle virtù che piacevano a tutti, facevano parte di quei beni, ma certi caratteri un po' antiquati, eppure imponenti. «Ego sum qui sum» era la prima parola del divino, che ora doveva trovare una nuova collocazione. Fin qui Feuerbach non avrebbe osato, non avrebbe saputo spingersi; ma proprio da qui si diparte, con morbosa consequenzialità, Stirner. Che tutto L. unico sia innanzitutto un'immensa tautologia, e addirittura questa beffarda aberrazione: una tautologia costruita con tutti gli arnesi della dialettica, discende da una corretta trasposizione dell'enunciato biblico al soggetto adulto europeo del secolo diciannovesimo. E anche qui si conferma una certa sprovvedutezza negli intelletti progredienti: questi oratori nemici della religione si rivelavano tutti convinti che il religioso fosse una collezione di Virtù, di cui era ora di fare un parco pubblico. Proprio loro non riuscivano a supporre ciò che è ovvio: che il religioso contiene in sé riserve inesauribili di ambiguità e atrocità, più che sufficienti comunque per sgretolare l'angusta psiche laica di professori, ingegneri, avvocati, notai e servitori dello Stato che volessero appropriarsene. E questo di fatto avvenne. Sarebbero nati dementi ineffabili, inesprimibili, unici, dalla prodigiosa potenza ingabbiata in corpi larvali, scossi dallo spasimo. Divenuta tautologia, la teratologia si esaltava. Perché «l'unico» è unico? Molti lettori di Stirner hanno inteso il termine in senso psicologico: deprecandolo o esaltandolo, hanno supposto che intendesse affermare la preziosità di un io. Ma innanzitutto l'io dell'unico esiste soltanto come potenza negativa e distruttrice. Su questo punto Stirner ha provveduto a recidere i rapporti con l'idealismo precedente non meno nettamente di Marx. «Quando Fichte dice: «L'io è tutto», questo sembra concordare perfettamente con le mie posizioni. Solo che non l'io è tutto, ma l'io distrugge tutto, e solo l'io che dissolve se stesso, l'io che non è mai, l'io finito è realmente io. Fichte parla dell'io «assoluto», io invece parlo di me, dell'io caduco». L'io di Stirner è la negazione che produce e abolisce, in un'alternanza rapidissima, tendente a un'impossibile simultaneità. Chi cerca in Stirner la riaffermata sostanzialità di un soggetto troverà invece una cavità deserta e muta.

Perché «unico», allora? Invece dell'Ometto universale e onnilaterale feuerbachiano (poi trasmesso a Marx e da allora planante sulla storia), Stirner ha voluto comporre nell'unico un ircocervo che resuscitasse lo sgomento delle favole. L'unico, espropriato sino alla straccioneria da un processo che utilizza tutto e fa esistere soltanto ciò che è utilizzabile, è il delirio di un sostituirsi dello straccione al processo che lo ha reso tale. Ma appunto di un puro sostituirsi: cambia il soggetto ma non viene intaccato il funzionamento. Anche l'unico utilizzerà tutto e sostituirà tutto. Non riuscirà però a sostituire la cifra di se stesso, la sua coazione ad agire allo stesso modo del processo di cui ha preso il posto. Così come il principio di sostituzione non può scambiarsi con un altro principio. Proprio al centro del regime dispotico della sostituzione sta qualcosa che gli sfugge: quell'unico (il despota straccione), che ora si è identificato col processo stesso. Insostituibile è il processo, come insostituibile è l'unico. Il regime dello scambio cozza alla fine contro se stesso come soggetto e come soggetto non scambiabile, unico, incommensurabile. Questo paradosso prodigiosamente produttivo è il motore che ci ronza di continuo nelle orecchie. : Il Proprio e l. Estraneo. Se si vuole mantenere in esistenza questa coppia ingombrante, una soluzione adeguata sarà quella di divorarne un termine (il secondo, il cattivo) in favore dell'altro. E questo intendeva Marx identificando il comunismo con la «distruzione dell'estraneità» «con la regolazione comunistica della produzione e la distruzione dell'estraneità, che in essa è implicita...», ma il metodo fin dall'inizio apparve sospetto. Troppo amore per la Società, petulante avatar del Tutto. Stirner, anch'egli incline alla paranoia e alla brutalità, ma sgargianti, grezze, vide che fra i personaggi storici solo Dio (e il despota che su di Lui si modella) riusciva a confondere le divisioni fra proprio ed estraneo. Tutto gli è estraneo perché non è Dio, tutto gli è proprio perché Dio è «tutto in tutto». Perché non applicare lo stesso criterio a quell'io disancorato, vagante, che non intendeva occupare il suo posto nelle architetture di Hegel? Come Dio, quell'io sarebbe stato il supremo egoista, in quanto unico egoista che possa far coincidere la sua cosa-causa col tutto, superando così le comuni limitazioni dell'egoista, che sa muoversi solo nei propri domìni. Ma, una volta abbandonati a tale aberrante dilatazione, chi mai avrebbe pensato al proprio e all'estraneo, se non come al ricordo dei banchi di un'aula di Berlino? Veleggiando ora, invece, verso una assimilazione a «l'etre le plus prostitué», che è Dio, «l'etre par excellence», il quale non si stanca, per amore, di «sortir de soi», e non può che uscire in se stesso. Anche Marx previde questa possibilità: «La prostituzione generale appare come una fase necessaria dello sviluppo del carattere sociale delle disposizioni, facoltà, capacità, attività personali. Detto in termini più gentili: il rapporto universale di utilità e di utilizzazione». Stirner sviluppa all'estremo il gesto: utilizziamo tutto come proprio e veniamo utilizzati in tutto da tutti. Compresenza del massimo di proprietà (tutto è nostro materiale) e del massimo di estraneità (siamo il materiale utilizzato da tutti). Intreccio della prostituzione universale, molti passi oltre Sade, ancora impacciato da qualche memoria feudale di sovranità. Mentre nei buoni tempi kantiani si poteva ancora decidere per statuto ciò che era proprio e ciò che era estraneo, ora tutto è simultaneamente l'una e l'altra cosa, e innanzitutto l'io, che pretende di disporre di tutto e su cui tutto dispone. La rabbia sorda che Marx scarica sui Lumpen prosegue in quella che dimostra per i lavoratori improduttivi.

Mantenendo con zelo paleo-borghese la distinzione posta da Adam Smith, Marx vi fa rientrare tutta la «canaglia, dalla puttana al papa». E proprio nei Grundrisse, l'opera che prepara la fossa a tutta la maestosa concezione del lavoro produttivo, in quanto ipotizza lo stadio a cui oggi ci stiamo avvicinando, quello in cui il lavoratore produttivo finisce per trasformarsi in «sorvegliante e regolatore del processo produttivo stesso», proprio nei Grundrisse la inattaccabile fedeltà all'impianto metafisico della produzione (ben più che al suo manifestarsi storico) lo spingerà a un sovrappiù di enfasi nel difendere la distinzione di Smith da quegli economisti servili, i quali vogliono convincere il borghese «che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli struscia il cazzo, giacché forse quest'ultimo movimento gli schiarirà il blockhead il giorno dopo al comptoir». A Marx non preme infatti soltanto una distinzione tecnica, illuminante se si vuol fare trasparire la specificità del lavoro salariato («forma che... si sostituisce alla terra come terreno sul quale la società poggia»). Ben di più gli preme di identificarsi col processo del capitale nella ostilità assassina verso le potenze improduttive, che incarnano però l'incommensurabile: il sacramento, il piacere, la sovranità. E qui, nella simultaneità silenziosa dei loro quaderni monologanti, Baudelaire risponde: se Marx aveva abbassato il sacramento a prostituzione, Baudelaire impone la prostituzione come sacramento («L'amour, c'est le gout de la prostitution»). Puttana-Papa-Lumpen: è quella Trinità della prostituzione che anche Baudelaire stava individuando (le Fusées attribuite agli anni 1855-1862; i Grundrisse al 1857-1858). Nella loro sovranità, sono tutti vicari di Dio, «l'etre le plus prostitué, c'est l'etre par excellence, c'est Dieu». Disponendo soltanto di una zona della manifestazione, non raggiungono quella prostituzione globale e perenne che è il segno del divino. Che poi il Lump si presenti come straccione o come dandy o come poete, non fa molta differenza. Sono comunque esseri senza dignità (se mai, hanno maestà). Ciò che toglie la dignità è proprio l'affermazione del contatto con qualcosa di extra-sociale e autosufficiente, vero nefas: il piacere, l'invisibile, la gratuità dell'arte. (Lo scrittore appartiene ai Lumpen dal momento in cui dichiara l'art pour l'art: risposta insolente, un falsetto incrinato, a un'esautorazione: non ha più una sua funzione, a Corte, perciò rifiuto di ogni funzione).