LA STORIA SPERIMENTA
Il ruolo centrale che il sacrificio aveva nelle società arcaiche viene ora assunto dall'esperimento. I sacerdoti crudeli, che alzano il coltello sull'altare, sono ora gli artefici del complotto. Da premettere a ogni discorso sull'esperimento: passo cancellato dall. Ideologia tedesca: «Finora abbiamo considerato soprattutto un lato dell'attività umana, l. elaborazione della natura da parte degli uomini. L'altro lato, l. elaborazione degli uomini da parte degli uomini...». La post-storia è abitata da uomini che credono alle «cause», all'«uomo», alla «società», a tante altre ipostasi, ma è retta da un beffardo soggetto (magari anche trascendentale) per il quale tutto è materiale, tutto permutabile, tutto utilizzabile: un manipolatore perpetuo, che inventa forme e le butta via, si stanca dei materiali più consueti e ne cerca sempre di inediti, scava le foreste amazzoniche e trivella il pack per aggiungere un sapore, un aroma remoto al ciceone. L'innominabile attuale. Marx parla della post-storia quando accenna al passaggio dalla «storia» alla «storia universale»: fase sperimentale della storia, in cui tutto forma un corpo unico, in cui nulla è esterno alla società, in cui tutto agisce su tutto, come nel risonante cosmo primordiale. Suo fondamento empirico: il mercato mondiale, in quanto uscita senza ritorno dalla Borniertheit, dall'angustia locale. Il mercato mondiale reinventa una sorta di fato (come la post-storia in genere risveglia tutte le categorie arcaiche, che si applicano ora a una realtà invertita rispetto a quella entro cui erano nate). «Quanto più l'originario isolamento delle singole nazionalità viene annientato per il progressivo perfezionarsi dei modi di produzione, del commercio e della divisione del lavoro che spontaneamente ? naturwuchsig* ne viene a risultare fra le varie nazioni, tanto più la storia diventa storia universale, sicché, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina che lascia senza pane innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sconvolge intere forme di esistenza di questi regni, tale invenzione diventa un fatto della storia universale...». «Da ciò consegue che questa mutazione della storia in storia universale non è certo una mera azione astratta dell'«autocoscienza», dello spirito del mondo o di un qualche spettro metafisico, bensì un'azione del tutto materiale, empiricamente accertabile, un'azione di cui ci offre la prova ogni individuo, in quanto cammina e sta fermo, mangia, beve e si veste». Ma nulla è più metafisico di quell'«azione del tutto materiale» e si può dire che il vero compimento della metafisica, quasi il suo ritorno allo stadio misterico, dove tutto si compie in una messa in scena senza parole, in una muta ostensione di oggetti, si manifesti proprio in ciò che Marx descrive come «mutazione della storia in storia universale». Le società che noi studiamo sui libri, le società che compongono il passato, che hanno lasciato una gora iridata di relitti o sono scomparse quasi senza residui come orme di uccelli, obbedivano tutte al bisogno di patteggiare, scontrarsi e conciliarsi con qualcosa di esterno ad esse. E da quell'esterno traevano il fiore della loro forza. O altrimenti erano patrimoni del Despota, che le amministrava ai suoi fini fini di un singolo contrapposto a tutti. La società in cui siamo nati è la prima, nelle vicende del pianeta, che voglia bastare a se stessa e solo con se stessa sappia confrontarsi. I nomi dell'Esterno continuano a esistere ormai soltanto nei dizionari, salvo la parola natura: ma natura oggi designa in primo luogo una sequenza di fatti o al massimo di incidenti sociali. Anche per questo s'impone di riferirsi a un segno diverso per nominare questa specie di società e la si può chiamare post-storica perché s'intenda che, in rapporto ad essa, tutta la storia appare ora come un paesaggio di rovine, inesauribile contagio. Durante dodici settimane di veggenza, nel 1908, ad Alfred Kubin apparve la prima città post-storica: Perla. Storia: le trasformazioni (i fatti di cui parlano i libri di storia) avvengono contro un ordine che si presenta come stabile. E' un ordine di sostanze, di corrispondenze, di analogie. Invisibile, onnipresente, inevitabile asse del mondo. Post-storia: le trasformazioni sono implicite nel carattere sperimentale dell'ordine, che presenta come stabile tale suo carattere. L'immensa ingenuità, che oggi possiamo riconoscere, nei molti che nell'Ottocento accusavano la nuova età di «materialismo». Mentre la sua gnosi, clandestina e imperiosa, sottintende che tutto sia spirito e che lo spirito sia il più duttile fra i materiali. «Non è che x più y» questa frase, più di ogni altra, ha oggi diritto al rango di Luogo Comune. La sentiamo ripercuotersi in forme numerose: è la saggezza dell'uomo della strada, l'accortezza dello psicologo, accompagna il sorriso costante del ricercatore: «La vita? Non c'è da meravigliarsi, è fisica più chimica».
E allora sentiamo anche la seconda voce, che Bloy ci ha insegnato a riconoscere nei Luoghi Comuni. Perché qualcosa sia «nient'altro che» bisogna che qualcosa in quell'insieme sia inutile, trascurabile, annullabile e precisamente la sua apparenza stessa, la lettera, che essa sia sostituibile con i suoi componenti. Già in questa formulazione balena un sospetto: che il mondo dinanzi a noi sia un mondo di esoterismo manifesto, che abbia rifiutato il nesso con l'essoterico, che la lettera non sia più un involucro protettivo, ma il senso segreto. Capitalismo: è il nome economico di un immane rivolgimento nel cervello, il predominio raggiunto dallo scambio, quindi dalla digitalità, su tutto; ogni altro principio diventa un'isola al suo interno, così come all'interno del mercato planetario vi sono isole tribali. Il socialismo stesso, fratello nemico del capitalismo, dal capitalismo dipende come un volantino di propaganda dell'Esercito della salvezza si riconduce ai versetti di Isaia. Questo nella teoria. Quando poi il socialismo si applica, per correggere le malignità intrinseche del capitale, produce subito ancora maggiori malignità, senza per altro intaccare quelle che avversa. E questa volta sono malignità più odiose, perché più umane.
Nella crudezza del capitalismo permane un elemento di ordalia: il denaro. Nel socialismo, che ha la mira più inetta: mettere tutto nelle mani dell'uomo, non c'è più un oscuro elemento discriminante extra-umano, quale è il denaro. Al suo posto appaiono nuovi sacerdoti: le spie. Il parco del Figlio del Cielo compendiava la natura intera su una scala ridotta, dentro la società: ora tutta la natura è il nostro parco, e non sappiamo che cosa compendi. Un imbarazzo peculiare della post-storia: «Quando una stessa impressione risveglia in noi un geometra, un bambino, un poeta, un pittore, un filologo una dozzina di linguaggi e di tipi di aggiustamenti, e di serie di atti distinti è ben comprensibile che si sia imbarazzati». La legge, in Russia, è un articolo d'importazione. Come tutte le curiosità esotiche, eccita gli animi e si crea i suoi devoti. Ma il fondo su cui si applica le è ostile. Si danno allora due possibilità: o la legge viene subito espulsa, in quanto tenta di corrompere la genuina floridezza del suolo; o viene assimilata, ma in modo tale da essere irrisa per sempre. Nei brevi mesi in cui ebbe il potere, lo zar Pietro Iii, che giocava con i soldatini di legno e fece processare dalla corte marziale e impiccare sul posto un topo che aveva osato arrampicarsi su due fortezze di cartone, decise di introdurre in Russia il codice federiciano, quale vigeva da pochi anni in Prussia. «Ma,» annotò Rulhière «sia per l'ignoranza dei traduttori, sia perché la lingua russa non ha espressioni per tutte le idee del diritto, non si trovò un solo senatore che riuscisse a capire quell'opera; e i Russi in quel vano tentativo non videro altro che un segno di disprezzo per i loro costumi e un folle attaccamento ai costumi stranieri». Quando si entrò nell'epoca che pretendeva a ogni passo di spiegare la storia, alla legge federiciana, illuministica e militare, si sostituì la legge marxiana degli stadi nello sviluppo delle forze produttive. Ma l'una e l'altra servirono soprattutto a perfezionare le procedure di quella Cancelleria degli Affari Segreti che Pietro il Grande aveva istituito per correggere i costumi della nazione con una raffinata opera di polizia e continuò a operare con zelo e previdenza sotto varie sigle, dall'Ochrana al KGB, offrendo fra l'altro l'unico esempio russo in cui sia indubitabile l'azione del progresso. Ci fu un momento sordo, fra la morte di Hitler e la morte di Stalin, in cui le nazioni, ancora inebetite, si disposero docilmente a occupare i loro posti nel nuovo ordine. La post-storia aveva finito di sbocciare, ora l'attendeva un lussureggiare amazzonico.
In quegli anni proliferarono gli oggetti. Erano oggetti sottili, avrebbe detto un ermetista, che stavano agli oggetti sino allora usuali come il corpo sottile sta al corpo carnale. I meccanismi peculiari dell'epoca che si apriva lentamente entrarono in movimento. Fra la guerra d'Algeria e l'attentato a John Kennedy si accennarono i primi gesti del gioco. E presto tutto ne fu avviluppato, tutti vi partecipavano, con la stessa naturalezza con cui le lattine di Coca-Cola venivano usate per adornare i feticci, fra chiodi e schegge di vetro, come se da sempre fossero state predisposte a quella funzione. Di ciò che è avvenuto fra il 1945 e oggi due storie parallele si possono scrivere: quella degli storici, con tutto il suo macchinoso apparato di parametri, fra cifre, masse, partiti, movimenti, negoziati, produzioni; e quella dei servizi segreti, punteggiata di assassinii, trappole, tradimenti, attentati, mistificazioni partite di armi. Sappiamo che l'una e l'altra sono insufficienti, che l'una e l'altra pretendono di essere autosufficienti, che non potrebbero mai neppure tradursi l'una nell'altra, che continueranno la loro vita parallela. Ma non è forse stato sempre così almeno da quando il Vecchio della Montagna scagliava i suoi uomini per il mondo? Sì, è stato a lungo così, ma il segreto era allora appunto il segreto e i suoi bagliori erano erratici ed esclusivi, una presenza avvertibile, ma non afferrabile una presenza, appunto, segreta. Il segreto non era stato ancora assorbito nei servizi segreti. Perché questo accadesse occorreva attendere gli anni della pura post-storia, come qui si chiama con nome indigente, che vuole solo segnalare la nostra inadeguatezza dinanzi all'innominabile attuale l'età che segue il 1945. Il significato metafisico dei servizi segreti sta nella lettera che li designa: servizi segreti perché confiscano il segreto, tutto il segreto. Più ancora che nelle loro laide vertiginose conquiste, il loro senso riposa in questo: nell'aver costretto con la violenza il segreto a rendersi apparente, troppo visibile, invadente come una pubblicità stampata su ogni angolo. C'è un'impresa comune di tutti i servizi segreti, ben più rilevante, ben più efficace di tutti i loro conflitti: l'annientamento del segreto. Post-storia: l'epifania ottenebrante in cui le ipotesi si solidificano, diventano corpi palpabili, e con ciò sfuggono, più che mai prima, alla percezione. Il loro contagio rende dubbia la materia di tutti i corpi. Quando il segreto è nella lettera, la lettera abbaglia. Non viene più letta, ma soltanto riprodotta.
«Potere occulto», «organizzazione segreta», «trame», «muovere le fila», «complotto», «doppio gioco»: parole, gesti mentali che furono della gnosi, che ancora erano illuminati dalla luce obliqua dei Templari e oggi designano sequenze di assassinii, imbrogli planetari, ricatti, sopraffazioni. Il crimine assume il calco che fu dell'eresia perenne: della gnosi. L'agente segreto è avvolto da uno squallore peculiare, che ha cominciato persino a formularsi nella fabulazione romanzesca. Eppure, perché quello squallore dovrebbe avere un timbro così penetrante? Perché l'agente segreto usurpa il posto del segreto e Psiche è colpita da una luttuosa delusione quando si accorge che il mostro non è più il segreto, ma l'agente che ha avuto il compito di eliminarlo. oo oo oo oo La praxis, nozione ovvia per ogni Gesuita, poteva suonare come un'empia audacia soltanto nelle anguste città della Germania, là dove «il tempo cade goccia a goccia, e non interrompe con rumore alcuno la riflessione solitaria». Soltanto nell'integra goffaggine della provincia nordica, nella sua immobile e proba tristezza una tale esaltazione poteva far turbinare foglie e polvere, finché i cittadini invasati imbracciarono le vanghe per mescolare sangue e terra. La parola di Marx presuppone, come materiale dove infiltrare i demoni, «una tranquillità profonda; ogni tanto si faceva un po. di chiasso per certe idee, ma senza pensare alla loro applicazione. Si sarebbe detto che il pensare e l'agire non dovessero avere alcun rapporto fra loro, e che la verità, fra i Tedeschi, fosse simile alla statua di Mercurio detto Hermes, che non ha né mani per afferrare, né piedi per avanzare». Madame de Stael, grazie alla sua esperienza mondana, avvertì subito tutto questo, non fece però in tempo a conversare con Marx, che avrebbe identificato la filosofia con quelle mani e quei piedi mancanti. Pronubo del lunghissimo, oggi rancido incontro fra l'intelligencija e la praxis fu lo zar Nicola I.
Intorno al 1840, all'inizio dell'«importante decennio 1838-1848», così battezzato da Annenkov, le autorità russe credettero opportuno instradare i giovani vogliosi di Occidente verso le università tedesche piuttosto che verso Parigi, luogo di ogni corruzione e rivoluzione. In Germania ancora, supponevano, si era mantenuto un residuo di decenza, col dispotismo mistico di Federico Guglielmo Iv. Ma se il disegno, secondo le ominose parole del ministro Uvarov, era quello di ritardare di cinquant'anni lo sviluppo intellettuale della Russia, la storia ancora una volta avrebbe preso lo spunto da un'astuta volontà di polizie e governanti per rovesciarla in beffa. Certo, a Berlino barricate e insurrezioni appartenevano all'empietà. Ma lì non c'era neppure quel torbido charme della vita dissipata, della «vie moderne», delle nervose chroniques dei giornali, non c'era quella mistura volatile di febbre e cinismo che respirava ogni giorno Baudelaire. Non c'era la presenza occulta del faubourg Saint-Germain né quella esibita delle grisettes. Lo snobismo non aveva ancora intaccato la cruda sostanza. Qualcosa mancava alla Germania: non aveva abbastanza vissuto. Tanto più virulenta era la carica che lì si associava alle idee, tanto più fascinosa e travolgente, perché del tutto esotica, la visione di un'«azione», di una «praxis» in cui tramutarle. Il giovane Engels, già allora eccellente cronista, precisava: «Se oggi a Berlino voi domandate a chiunque abbia la più pallida idea della potenza dello spirito sul mondo di localizzare il campo di battaglia dove si lotta per il controllo dell'opinione pubblica tedesca sia in politica che in religione e dunque per il controllo dell'intera Germania, vi si risponderà che questo campo di battaglia è all'Università, e più precisamente nell'anfiteatro n. 6, dove Schelling tiene i suoi corsi sulla filosofia della rivelazione». In quell'aula un giovane aristocratico russo, Michail Bakunin, fu visto urlare forsennate acclamazioni al filosofo. Era arrivato nel 1840 a Berlino come alla «Nuova Gerusalemme», con i soldi che gli aveva dato l'amico Aleksandr Herzen. Nello sterminato paese da cui veniva, i suoi affini parlavano già tumultuosamente di Schelling e di Hegel anche nelle più oscure circoscrizioni. Già dal 1830 le lettere berlinesi di Kireevskij trasmettevano segnali, e ogni brochure post-hegeliana veniva consumata da troppi occhi avidi. Nulla è fecondo come l'equivoco: la smania di passaggio all'«azione», che in Germania assumeva naturalmente quei tratti professorali, pedanteschi, lontani dalla vita, che Marx-Engels avrebbero poi schernito dalla Sacra famiglia in poi, in Russia era il retaggio biologico degli «uomini inutili», nobili spiantati e degradati, corrosi dalla reverie, luoghi geometrici di una sottile dissociazione psichica il morbo russo, poi il romanzo russo! Erano, in breve, il materiale più prezioso dell'intelligencija. Anche per questi esseri, così irrimediabilmente estranei a ogni possibile università, l'«azione» era l'unica Fata Morgana, capace di convogliare l'immensa violenza latente in loro verso una direzione senza disperderla nelle vo rticose abiezioni della vita privata. Il punto di contatto, anche geograficamente mediano, fu un piccolo libro di un nobile polacco, i Prolegomena zur Historiosophie (1838) di Cieszkowski, scheggia fatale dell'eredità hegeliana. In poche pagine, che sezionavano la storia per triadi, come il Maestro aveva insegnato, Cieszkowski sprigionò il djinn della praxis parola apparentemente spoglia e laica in cui emergeva la nuova figura del Paracleto. Si trattava innanzitutto di trarre le conseguenze di una affermazione che allora suonava plausibile: «Oggi : il pensiero si è pensato sino in fondo». Qual è allora il passaggio successivo, la «transizione» che si apre? «E' il riconoscimento che la coscienza, come abbiamo detto, non è l'elemento supremo, ma che essa deve progredire innalzandosi al di sopra di se stessa o anche : uscendo da se stessa. Tale è il contenuto della transizione, e quest'ultima si presenta come esigenza di una unità sostanziale dell'essere e del pensiero che non sia più semplicemente in sé e per sé, ma produca anche un sostrato : al di fuori di sé». Dietro le sue cifre, il linguaggio di discendenza hegeliana è assai concreto: quel «sostrato» non è che la nuova materia, la materia tecnica, che timidamente si cerca un nome. Ma, perché fiorisca, occorre che la volontà, dal catechismo napoleonico, si trasferisca definitivamente nei luoghi che finora le erano stati proibiti: «: Ora la volontà assoluta deve essere elevata a quell'altezza della speculazione a cui un tempo era stata elevata la ragione... La filosofia, abbandonando il punto di vista che le è più proprio e conforme, si trasferirà su un terreno che le è estraneo, ma che condiziona interamente la sua evoluzione ulteriore, vale a dire il terreno : assolutamente pratico della volontà». Veniva così siglato il compiuto rovesciamento dei rapporti fra pensiero e volontà: «Secondo Hegel, la volontà è soltanto un particolare modo del pensiero, e questa è proprio la concezione errata: all'opposto, è il pensiero a essere un momento costitutivo della volontà, poiché la volontà e l'azione sono appunto : il pensiero che ritorna all. essere». Il sogno della «riconciliazione con la realtà sotto ogni aspetto e in ogni campo della vita», che ossessionava il giovanissimo hegeliano Bakunin (e quanti altri sparsi per l'Europa!), poteva dunque avverarsi affidandosi alla magia di questa inaudita, elementare parola: praxis. Che dietro di essa, e appena coperta, si celasse la «volontà di volontà» in cui Heidegger avrebbe fissato l'emblema del nichilismo (quindi della tecnica) non poteva apparire perspicuo, anche perché tutti della tecnica avevano così scarsa esperienza. Eppure fu sempre Cieszkowski a enunciare la massima regolativa dei tempi nuovi: «: Nihil est in voluntate et actu quod prius non fuerit in intellectu». Da cui, decisiva conseguenza: «La volontà deve dunque perseguire il suo processo fenomenologico come prima la ragione ha perseguito il proprio. Per parte sua, la vita politica ? Staatsleben* dovrà affermare il suo dominio universale, così come l'arte e la filosofia lo hanno fatto, l'una dopo l'altra». E qui la concretezza si fa improvvisamente brutale: «Nell'avvenire la filosofia dovrà consentire a essere essenzialmente applicata e, come la poesia dell'arte è trapassata nella prosa del pensiero, così la filosofia dovrà scendere dalle altezze della teoria sino al campo della praxis». Finalmente «applicata», la filosofia accetta di morire, penetrando però prima in ogni oggetto, come ormai possiamo constatare. Nelle latebre della storia si preparavano eventi abnormi: una «nuova migrazione», non più dei barbari verso lo spirito, ma dello spirito verso la barbarie della natura, che anela al riscatto. Processo oscuro, «che si annuncia con una fermentazione, anzi in parte con una putrefazione» (e Marx-Engels non parleranno poco dopo del «processo di putrefazione del sistema hegeliano»?). Alla fine di questo processo alchemico riluce ancora una volta la coniunctio: in questo caso l'abrogazione della Trennung, di quella odiosa «scissione» che già tanto aveva fatto soffrire Lessing, e dopo di lui tutte le anime tenere e crudeli della Romantik. «Così si celebra la pace assoluta fra l'interiorità e l'esteriorità ed essa fa sì che appaia, all'esterno come all'interno, quella loro mutua vittoria, che sottrae l'apparenza sensibile al disprezzo in cui era tenuta». Le argomentazioni di Cieszkowski sono un groviglio che avvolge quelle che di lì a poco saranno potenze antagoniste del pensiero: Marx (in una lettera del 1882 avrebbe negato, ma è difficile credergli, di aver letto Cieszkowski), Nietzsche, Stirner aspettano ancora, celati nel sogno di quella pace irreale, di balzarne fuori per separarsi e scontrarsi.