BIEN AHIME'
Luigi Xv seppe sin dall'inizio di essere un «roi de perdition», qualsiasi cosa avesse fatto. E questo gli dava quella insofferenza aspra, fredda, che i cortigiani avvertirono in lui con tremore, già quando era bambino.
Il suo sentimento primordiale, ben più che la noia, era il dispetto: dispetto di trovarsi in uno di quei punti dove le tenaglie della storia si avvicinano a chiudersi e non lasciano gioco alcuno. Era come se la sua esistenza fosse già avvenuta prima che la vivesse. Sentì che non avrebbe potuto non essere dissoluto, inerte, sprezzante. E che, se anche la sua volontà avesse tentato di opporsi, sarebbe stata abbattuta, e nessuno se ne sarebbe meravigliato, come a lui si attribuiva di abbattere, e nessuno se ne meravigliava, la fortuna di certi suoi sudditi. Testimonia Madame du Hausset che ridere gli faceva male: al più si affaticava a sorridere. E quel sorriso voleva dire: vi concediamo tutto, purché non esigiate la nostra attenzione. Con cupa pedanteria, che sconfiggeva la sua naturale eleganza, ripeteva più volte le stesse storie, non trovando mai chi fosse capace di fargli intendere quanta noia producesse. Gli attribuiscono molti bons mots alquanto banali, lodandone l'arguzia, mentre certe sue parole di lucidità devastatrice vengono citate come tratti della sua manifesta indegnità. Lo ossessionavano i «rois fainéants», e il cardinale Fleury, che lo coartava all'inazione, ma non senza esortarlo a mantenere una qualche operosità di facciata, ebbe una volta la malaccortezza di parlargliene.
«Un giorno sono arrivato al punto di dire al Re che c'erano stati in Francia dei re che erano stati deposti perché non facevano niente. La cosa sembrò colpirlo profondamente. Non rispose nulla sul momento, ma due giorni dopo mi disse: «Ho riflettuto su quel che mi avete detto su certi miei predecessori che venivano deposti ma ditemi, quando quei sovrani furono deposti, ebbero delle buone pensioni?»». «...appariva, sul fondo dei piccoli appartamenti di Versailles, come un grande e fosco e triste bambino, con qualcosa nel suo spirito di arido, di malvagio, di sarcastico...». Il Parc aux Cerfs, che già nel suo nome invitava i sudditi acrimoniosi a sognare lussurie inesauribili e claustrali, era «una casa piuttosto povera con un minuscolo giardino, chiusa nel vicolo cieco della rue des Tournelles e della rue Saint-Médéric; comprendeva quattro camere e qualche salottino, e poteva ospitare al più due o tre donne, anzi sembrava piuttosto essere fatta per ospitarne una sola». La casa portava quel nome perché sorgeva in un quartiere alla periferia di Versailles dove, ai tempi di Luigi Xiii, c'era un parco di bestie feroci. Non l'abitarono migliaia di pastorelle dai seni rotondi, languide per Krsna, ma una o due ragazze per volta, in attesa delle visite di un signore sconosciuto, che talvolta veniva fatto passare per un gentiluomo polacco e si dimenticava di togliersi il cordon bleu. E ogni tanto, per qualche mese, la casa era perfino vuota. In quel luogo l'arbitrio assolutista finì di gettare le basi di un'istituzione quanto mai borghese: la mantenuta. E anche Madame de Pompadour, che sovrintendeva a quei piaceri, amministrando poi accouchages e pensioni, non mancò di coniare una massima regolatrice per innumerevoli ménages futuri di minore rango: «E' il suo cuore che voglio». Quanto al resto, rinunciava con sollievo. Non avrebbe più avuto bisogno di mangiare ogni giorno cioccolata con tripla vaniglia e tartufi a colazione, per risvegliare il suo «temperamento molto freddo», visto che «gli uomini, come ben sapete, danno tanto peso a certe cose». Luigi Xiv dice:
«L'Ètat, c'est moi». Un cortigiano dice a Luigi Xv: «Tout cela est à vous». E' questa la frase luciferina di Villeroy, che Hugo ha isolato nella Pitié supreme per avviare il motivo della tetra coazione all'onnipotenza. Allora, quando si stanca di versi come: «Sanche!
Alonze! Clovis! Sennachérib! Cambyse!», Hugo giunge a definire lo stato cronico di Luigi Xv come nessuno dei contemporanei del re era riuscito: «Une stupide joie avec un vaste ennui». Soltanto il suo nemico, il suo rovescio, ebbe per Luigi Xv parole non rancorose, quando il re morì e neppure la bara riusciva a chiudere bene le sue spoglie pestilenziali, trasportate in fretta, in spregio alle cerimonie, di notte, fra i lazzi, a Reims; soltanto Federico il Grande riuscì a scrivere a Voltaire la triste evidenza: quell'uomo maledetto era un honnete homme che aveva il solo difetto di essere re. Con desolata urbanità il cardinale di Bernis aveva scritto qualcosa di simile in una lettera che è un epicedio per la guerra dei Sette Anni: «Amo il Re, e lo compiango con tutto il cuore; honnete homme capace di amicizia e desideroso soltanto del bene, lascia che si faccia il male e si offuschi lo splendore di un regno che avrebbe potuto essere glorioso e tranquillo». «La fine di ogni dinastia è segnata da un re che trascura il governo per dedicarsi alle dissolutezze. La natura annuncia che egli è perduto con segni nefasti (comete, due soli, terremoti, inondazioni, malattie, ecc.). Si sa che in Cina è attraverso il popolo che si manifesta la volontà del Cielo di ritirare il proprio mandato (ming) al Re regnante (rivoluzione, canti di giovinetti ispirati). Le dissolutezze del re tuttavia non sono semplici espressioni di una condotta immorale. Esse esprimono la volontà di accaparrare a proprio profitto tutti i beni, tutto il potere.......... «I «rois de perdition», nella loro arroganza, avevano la pretesa di toccare il Cielo costruendo torri a nove piani, ma anche scavando cantine profonde. La loro condotta può essere intesa come una esagerazione eccezionale di una morale di festa normale (se si pensa alle bevute invernali dei contadini). Il torto non è nell'azione stessa, ma nella sua «dismisura». Esso consiste nel fare sempre e troppo ciò che si può e deve fare in certi momenti». Non sapremo molto di sicuro sulle sue dissolutezze, come non sapremo molto di sicuro sui suoi giochi infantili. Ma una voce ci racconta che, quando aveva sette anni, per divertirlo riempirono una vasta sala con passerotti e d'un tratto vi lanciarono dei falchi, che li mutilavano con il loro becco tagliente. E un'altra voce ci dice che «il re aveva una cerbiatta bianca che aveva nutrita e allevata, che non mangiava se non dalla sua mano e amava molto il re; l'ha fatta portare a La Muette e ha detto che voleva uccidere la sua cerbiatta. L'ha fatta allontanare e le ha sparato e l'ha ferita. La cerbiatta si è trascinata verso di lui e l'ha carezzato; lui l'ha fatta mettere di nuovo lontano e le ha sparato una seconda volta e l'ha uccisa. La cosa è sembrata molto dura. Si raccontano di lui altre storie simili, su certi uccelli che ha a Passy». Luigi Xv ebbe, in politica, un solo e costante obiettivo: quello di cospirare contro il proprio governo. E' il primo re che si sceglie il ruolo di provocatore di se stesso. Il Secret du Roi fu una politica parallela che spesso imbozzolava e strozzava Luigi Xv nel proprio segreto. Il duca di Broglie, che per primo provò a ricostruire questo funambolico e vano romanzo dei multipli inganni, ricorda un momento esemplare: quando, nel 1773, Luigi Xv, intrigando oscuramente con la Svezia, «ebbe piena soddisfazione: dovendo condurre un affare per metà diplomatico e per metà militare, era riuscito a nasconderne una parte al ministro della guerra, l'altra parte al ministro degli affari esteri; il tutto infine al confidente usuale della sua politica segreta. Tre misteri portati avanti insieme, senza rapporto l'uno con l'altro, era il coronamento del sistema e il capolavoro del genere». Allora, quando Luigi Xv riuscì a ingannare anche i suoi confidenti segreti, svelandosi parzialmente ai suoi ministri, che avevano il ruolo perenne di ingannati, una sorta di pace paralizzante lo sfiorò. Ogni obiettivo esterno era dissolto dinanzi all'evidenza del gioco, che lo obbligava a giocare tutto e sempre contro se stesso, a tradire perciò anche i traditori che si era scelti. Le trame, sovrapponendosi, si neutralizzavano e al centro rimaneva, solitario, l'inutile sovrano: si desse all'inazione ipocondriaca o invece alla febbrile escogitazione di mosse occultate, comunque ogni suo gesto era marchiato da una condanna originaria, che lo vanificava. Fra i bastardi di Luigi Xv, il figlio di Mademoiselle de Romans ebbe il privilegio di un nome allusivo. Da Versailles, un giorno di dicembre, il re lasciò partire un suo raro biglietto intimo, passato poi fra molte mani di collezionisti: «Mi sono ben accorto mia grande che avevate qualcosa in testa quando siete andata via, ma non potevo indovinare precisamente che cos'era. Non voglio che nostro figlio sia sotto il mio nome nell'atto di battesimo, ma non voglio nemmeno che non possa riconoscerlo fra qualche anno, se mi va. Voglio dunque che sia messo Louis Aimé o Louise Aimée, figlio o figlia di Louis Le Roy o di Louis Bourbon, come vorrete... Voglio anche che il padrino e la madrina siano dei poveri, o dei domestici, escludendo ogni altro». «Mia grande» la chiamava Luigi Xv, perché in Mademoiselle de Romans secondo l'occhio penetrante di Sophie Arnould «la natura, abbandonando le sue regole del buon gusto, si era divertita a fare una grande esagerazione.
Mademoiselle de Romans era ben fatta, e in lei tutto era in perfetta proporzione, ma quella perfezione era colossale... Il Re stesso, che pure era un bellissimo uomo, accanto a lei aveva l'aria di uno scolaretto o di un mezzo re». Luigi Xv andava troppo spesso a visitarla a Passy e troppo spesso la mandava a prendere con una carrozza a sei cavalli. Choiseul cominciava a preoccuparsi per le eventuali conseguenze politiche, Madame de Pompadour era allarmata. Solo la marescialla di Mirepoix seppe trovare argomenti per tranquillizzarla: «Non vi dirò certo ch'egli vi ama più dell'altra, e se con un colpo di bacchetta magica lei potesse essere trasportata qui e stasera fosse a cena e tutti fossero al corrente dei suoi gusti, forse per voi ci sarebbe ragione di tremare. Ma i principi sono innanzitutto persone abitudinarie; l'amicizia del Re per voi è la stessa che ha per il vostro appartamento, per ciò che vi circonda; voi siete adattata alle sue maniere, alle sue storie; con voi non ha imbarazzi, non teme di annoiarvi; come volete che abbia il coraggio di sradicare tutto questo in un giorno solo, di sistemarsi in tutt'altro modo, e di darsi in spettacolo al pubblico con un così grande cambiamento di decorazione?». Ma la paura si mescolava alla curiosità: dopo la nascita del bastardo, si raccontava che Mademoiselle de Romans andasse al Bois de Boulogne, coperta di pizzi, con l'infante in una cesta di vimini, e lì lo allattasse, in un sentiero appartato. Un giorno Madame de Pompadour, facendosi precedere dalla fedele Madame du Hausset, il viso celato dalle sue cuffie e da un fazzoletto che teneva davanti alla bocca, finse di passare casualmente per quel sentiero del Bois. Mademoiselle de Romans stava allattando, i capelli color giaietto erano ravviati indietro con un pettine incrostato di d iamanti. Madame du Hausset si avvicinò e disse: ««Che bel bambino». «Sì,» ella mi disse «posso dirlo anch'io, che pure sono la madre».
Madame, che mi teneva sotto il braccio, tremava, e io non mi sentivo troppo sicura. Mademoiselle de Romans mi disse: «Abitate nei dintorni?». «Sì, Madame» le dissi. «Abito a Auteuil con questa signora, che in questo momento ha un terribile mal di denti». «Oh, la compiango molto, è un male di cui ho sofferto tanto anch'io»». Il re si stancò presto.
Vennero i suoi arcieri a prelevare il bambino perché fosse allevato lontano dalla madre. Ci furono molte lettere, querule e insinuanti, dell'amante caduta in disgrazia. Ma a Versailles, prima che a Hollywood, valeva la sentenza di Busby Berkeley: «There.s no come back for a has-been». Non rimaneva altro che attendere l'avvenire del figlio: morto Luigi Xv, la madre fece avere al nuovo re l'atto di battesimo del figlio e il quattordicenne abbé de Bourbon fu accolto a Corte. Nella sua figura molti ritrovavano quella svelta e armoniosa di Luigi Xv. In attesa di qualche ricca abbazia, il bastardo fu mandato a Roma dal cardinale di Bernis, ultimo dei quattro grandi cardinali che per qualche tempo avevano retto la Francia e ora, nel suo palazzo sul Corso, accoglieva i nobili francesi di passaggio. Ospitò l'abbé de Bourbon con attenzione, con amorevolezza, con «quella mescolanza di bonomia e di finezza, di nobiltà e di semplicità» per la quale Madame de Genlis lo dichiarò essere «l'uomo più amabile che io abbia mai conosciuto». Ma a Parigi stavano già dimenticando quel giovane abate di stirpe regale. Non si parlava più di abbazie e trascuravano di spedirgli denaro. Girovagò per l'Italia: Bernis, suo ultimo protettore, se ne rammaricava: «E' l'Ebreo errante. Soffro a vedere un uomo che porta un tale nome vagare oziosamente per tutte le locande d'Italia; bisognava o proibirgli di portare un nome augusto o farlo rispettare di più nella sua persona. Confesso che su questo punto, e su qualche altro, penso un po' all'antica, anzi sono antico io stesso». L'abbé de Bourbon morì in quei suoi vagabondaggi senza scopo, di varicella, a Napoli. Qualche tempo dopo Madame Louise, carmelitana e sorellastra dell'abbé de Bourbon, raccontava di aver incontrato l'abbé Turlot, che lo aveva assistito nell'agonia: «L'altro giorno abbiamo parlato ancora del povero abbé de Bourbon... Così è fatto il mondo: è morto da sei mesi e non ci si pensa più, vorrei tanto che gli si facesse un piccolo epitaffio, soltanto perché si sappia che è esistito, ma devo parlarne...». A meno di un anno da allora sarebbe morta la stessa Madame Louise, e del suo progetto nulla avvenne. Le immagini appartennero a lungo a una liturgia cosmica, che seguiva il corso del sole nello Zodiaco. E per breve tempo abitarono le cerimonie che scortavano il sole della sovranità. Scese dal cielo, si adattavano a un mezzanino di Versailles. Lì rimasero spesso abbandonate, come una tediosa parente di provincia, che parla di gente a tutti ignota. Da quella umiliante reclusione furono stanate appena tumultuò la folla rivoluzionaria. Alcune finirono infilzate sulle picche, altre esaltate in riti egizi. Non si sapeva se tutto inclinasse verso il trionfo o la persecuzione. Inclinava verso l'uno e l'altra: ma non c'era più un templum. Ogni immagine, slacciato il cinto zodiacale, vagabondava ora in città sempre più vaste, dimentica della sua tribù, pronta a farsi attirare, depredare ovunque: nei tinelli, nelle abbazie, nelle redazioni, nei mulini satanici, nelle rovine, nelle foreste americane, nelle periferie. Una nuova vita incontrollata, clandestina e contagiosa cominciava per loro: per anni si incontrarono nei crocicchi della mente, e riconoscevano a volte una certa aria di famiglia, l'impronta di un passato comune. Ma non facevano in tempo a fermarsi che una rabbiosa folata le spingeva avanti, per altri vicoli, in una migrazione perenne. Sorridevamo delle siepi tosate, dei curvi tetti cinesi, dei riccioli di porcellana, delle code di seta eppure in momenti di vacua stanchezza, portando una mano alla testa, sentivamo mancarle qualcosa, una polverosa parrucca. (A lungo non era stato chiaro che cosa appartenesse o no al templum. Un borbottio incessante proveniva dagli ultimi secoli, da quell'unica e ormai immensa fin de siècle che comincia con l'aridità libertina e la già criminale sventatezza della Reggenza o se vogliamo un precedente sfondo cosmico con il cielo untuned di Donne e con i degrees fuori posto, lamentati da Ulisse in Troilus and Cressida, e ora forse è sulla soglia della sua ultima fine. Un'esalazione di modernità che si preparava a disperdersi. Era arduo circoscrivere quel borbottio, trovare una cornice sufficientemente ben educata e disegnata, e neppure troppo visibile, come una cornice deve essere, ma fatta di una sostanza che poi si rivelasse, al soffermarsi dell'occhio, un pigmento del quadro stesso. Si presentò, allora, Talleyrand. Non aveva detto Brichot, nelle aule del salotto Verdurin, che era stato lui il primo dei fin de siècle?
Talleyrand offriva poi un altro vantaggio: non avere idee, e tanto meno opinioni, ma un oscuro, torbido residuo di quella sapienza che soltanto «accenna»).