LAW AND ORDER



E' significativo che si dica law and order e non basti dire law o order soltanto. Di fatto, order non ripete, non ribadisce il senso di law.

Order è ciò che law, da solo, non riesce a compiere. Order è law più il sacrificio, il perpetuo supplemento, il perpetuo sovrappiù che deve essere distrutto perché order esista. Il mondo non riesce a vivere di sola legge, perché ha bisogno di un ordine che la legge, da sola, è impotente a dare. Il mondo ha bisogno di distruggere qualcosa per fare ordine: e deve distruggerlo al di fuori della legge, nel piacere, nell'odio, nell'indifferenza. L'età moderna si fonda sull'improvvido presupposto che law e order siano sinonimi, che si dica law and order per incutere più rispetto con un enfatico pleonasmo. La distruzione, proprio perché non ha più un'esistenza riconosciuta, si raccoglie nell'oscurità, si concentra, si adegua nelle proporzioni alla legge che pretenderebbe di negarla: quanto più vasta e ramificata la legge, tanto più devastante la distruzione che le sfugge. Ogni guerra nasce per fare quell'ordine che la legge non potrà mai fare. L'idea marxiana di rivoluzione riconosce questa impotenza della legge e al tempo stesso confisca l'intero apparato del sacrificio, sfruttandolo per instaurare un ordine che rinnega il fondamento del sacrificio. L'imponenza della legge deriva dalla sua incapacità a trattare il sovrappiù. La legge presuppone un soggetto indiviso, il sacrificio presuppone un soggetto duale: il sacrificante e la vittima. E il sovrappiù è appunto la vittima. Perciò la legge è sempre l'essoterico del sacrificio. Il plusvalore, nome moderno della parte maledetta, da cui muove l'attacco marxiano al capitale, diventa l'oggetto della contesa che può essere risolta soltanto dalla violenza rivoluzionaria, una volta riconosciuta l'impotenza della legge a trattare il sovrappiù. Plusvalore è l'oggetto del sacrificio, che una nuova setta di sacerdoti vuole amministrare diversamente. Ma, come gli aruspici nell'antica Roma, i sacerdoti marxiani concordano con i loro nemici nel negare che la contesa sia intorno all'oggetto del sacrificio. Si parla di proprietà privata e pubblica, di equa distribuzione delle risorse. Si nega che il sovrappiù, prima che alle classi opprimenti e oppresse, appartenga alla natura, nome moderno dell'Altro. Il sovrappiù è l'eccedenza della natura rispetto alla cultura, quella parte di natura che la cultura si trova a dover giocare, consumare, distruggere, dedicare. Nel trattare quell'eccedenza, ogni cultura disegna la propria fisionomia. La legge tende alla monotonia, le sue variazioni sono misere, rispetto alla sontuosa varietà delle forme. E le forme sono il ventaglio dei giochi sacrificali. Il sacrificio è inscritto nella nostra fisiologia: qualsiasi ordine, biologico e sociale, è fondato su un'espulsione, su una quantità di energia bruciata, perché l'ordine deve essere più piccolo della materia che ordina. L'unico ordine senza espulsione visibile sarebbe quello che coincidesse con un metabolismo vegetale: una cultura che riuscisse a sussistere senza fondarsi sulla differenza, quindi senza fondarsi: una cultura indistinguibile dallo stormire di un albero. Ogni sacrificio è riconoscimento di un Altro. Alla fine di tutte le emancipazioni l'Occidente non può riconoscere altro che se stesso. La sua paralisi, che si cela dietro l'esagitarsi della prassi, consegue al non sapere più a chi darsi. Caduti gli dèi, non sono però cadute le ipostasi: allora il mondo finisce per darsi a quel goffo, sinistro corteo che Stirner aveva descritto: alla Ragione, alla Libertà, all'Umanità, alla Causa. Ma il risveglio da quelle ipostasi è amaro, più che da qualsiasi altra superstizione. Le Upanisad esigono che la distruzione si compia nel momento della massima coscienza. Nella Bhagavad Gita, Arjuna ha la rivelazione da Krsna nel momento in cui si appresta a uccidere suoi parenti sul campo di battaglia. Il mondo secolarizzato distoglie lo sguardo dalla distruzione. E distoglie la distruzione dallo sguardo, come la città bombardata dall'occhio del pilota che sgancia la bomba e vola già più lontano. Porfirio è il perfetto sannyasin occidentale. Conosce il sacrificio, i suoi segreti, il suo indicibile. Ma una sorta di nausea lo afferra di fronte «all'impurità che viene dalle carni e dal sangue», di fronte ai vapori delle anime immolate. Il mondo, per lui, è una «fattura» (>goéteuma), una pozione che intorpidisce la mente. Egli ha un solo desiderio: risvegliarsi, e perdurare nella veglia, per sciogliere i lacci della fattucchiera, diventare un apostata dal mondo, quindi distaccarsi da esso, perché «distacco» è >apostasis. «Il distacco può essere operato con la violenza... Ma, per esempio nelle cose sensibili, un oggetto strappato con la violenza porta con sé qualche parte o traccia di ciò da cui è stato distaccato». Il distacco netto, senza residui, si raggiunge invece con un perpetuo distoglimento del pensiero dagli oggetti affatturanti, che ricorda la preghiera ininterrotta. Qui parla l'osservatore della psiche, in termini che comunicano per affinità come nelle corrispondenze seicentesche fra scienziati con i grandi maestri buddhisti e con i solitari della Tebaide. Ma Porfirio sceglie una via mirabilmente urbana del distacco, un piccolo lago di silenzio nella metropoli, un'esistenza non riconoscibile dall'esterno per alcun segno che non sia la sobrietà e la trasparenza. Egli compie soltanto un «sacrificio del pensiero» (>noerà >òusia) presentandosi al dio «con una veste bianca e con una impassibilità pura dell'anima e un corpo leggero, non oppresso da succhi né da passioni dell'anima presi ad altri esseri». Nel crepuscolo pagano, Porfirio è l'uomo stanco dei riti, delle fumigazioni, degli incantamenti, non perché ne metta in dubbio il potere, ma proprio perché quel potere conosce e sa che lo vincolerebbe ancora di più ai demoni del mondo. Come il sannyasin nella foresta, Porfirio si nasconde nella città imperiale. «Noi che ogni giorno ci esercitiamo a morire agli altri» egli scrive, usando il verbo >apoòné*skein con il dativo, in una costruzione ignota ai suoi maestri, ma che ritroviamo in Paolo («morto alla legge», «morti al peccato»), il più filosofo degli Ebrei, nei quali Porfirio riconosceva una «stirpe di filosofi». Gli dèi a cui Porfirio è devoto guardano più al «comportamento dei sacrificanti che all'abbondanza delle cose sacrificate». Quanto all'oggetto del sacrificio, per loro «la migliore consacrazione è un intelletto puro e un'anima impassibile». Qui, come già in India, il sacrificio tende a ritrarsi nell'invisibile. Nulla, dall'esterno, permette di sapere che cosa avviene nel sacrificante, se non un piccolo gesto che Porfirio assimila a quelli dettati dalla buona educazione: «Gli onori che riserviamo agli dèi dovrebbero essere simili a quelli che si rendono agli uomini buoni, quando ci alziamo per farli sedere ai posti migliori, e non al pagamento delle imposte». Questo accenno alla buona educazione verso gli dèi è l'ultimo, sublime messaggio pagano. Il sacrificio opera la più tenace saldatura fra la società e ciò che le è esterno. Ma il margine sacro del contatto con l'esterno il luogo geometrico degli atti del sacrificio permette anche il sussistere di una zona interna, profana in pectore, che ora può crescere senza essere in ogni momento minacciata dal sacro. Nell'atto della distruzione anche solo delle erbe si afferma la colpa che fonda la cultura: il suo distaccarsi, isolarsi da tutto il resto, in quanto isola una cosa-vittima e la espelle. Dedicando la vittima a qualcosa di altro da sé, la società riconosce la propria dipendenza da ciò da cui si è distaccata. E al tempo stesso tiene l'esterno a distanza, offrendogli la vittima invece di se stessa. E' questa la reverenza. E' questa l'astuzia illuministica. All'inizio, inscindibili. L'astuzia avvolta nella reverenza, lento corrosivo, come il veleno nel dono. Gift- gift. Nella formulazione di Guénon, il sacrificio riflette (e quindi inverte) il solve et coagula delle origini: ciò che nella creazione era stato diviso ora torna a riunirsi. «Il sacrificio ha, come funzione essenziale, quella di «unire ciò che è stato separato», dunque per ciò che riguarda l'uomo di riunire il suo «io» al «Sé»». Di qui la coniunctio, la ierogamia, che si intreccia agli atti del sacrificio: fondamento rituale dell'intrecciarsi di Eros e Thanatos. Di qui il sentore di carneficina che è l'aura del sesso. Ma come può un atto di violenta espulsione e distruzione essere un atto di riunione, reintegrazione? Uccidendo la vittima, la cultura si distacca violentemente dalla cosa, recide un legame che la stringe al tutto. Ma, dedicando la vittima alla divinità, la cultura riunisce la cosa distrutta, in rappresentanza di se stessa, al tutto. In questo moto pendolare è la doppiezza del sacrificio. E la differenza è data dal punto in cui il moto viene arrestato: se nel centro interno alla società o nel centro esterno ad essa. Nei testi vedici la risposta è evidente: il centro in cui sfocia il sacrificio sta fuori dalla società. La piroga del sacrificio si avvia dall'esistenza informe e profana del yajamana, il «sacrificante», patrono e beneficiario della cerimonia; traversa negli atti rituali le acque infide e trascinanti del sacro, che lì viene fatto; consegna infine la vittima all'oceano divino, che la riassorbe, come l. atman riassorbe il jivatman, come il Sé riassorbe l'io. Poi il sacrificante torna alla sua vita. Un eros assassino, una amorosa uccisione, l'archetipo di ogni viaggio. In Porfirio, De abstinentia, si discute se il nomos si estenda o no agli animali. Di fatto, il nomos non si estende a tutta la natura, anzi si fonda su una separazione fra un ambito in cui regna (la società) e un ambito abbandonato all'arbitrio (gli animali, e con essi la natura). La legge perciò non può sostenere l'interdipendenza universale: il suo intervento implica la recisione dei legami che la legge stessa non enuncia. Dove la legge non parla, regna il caso, che sta per: qualsiasi cosa. Dove la legge non parla, può regnare qualsiasi cosa. La legge ammutolisce quando giunge al margine sontuoso della società, alla sua sovrabbondanza: è la zona dove gli animali vengono uccisi, silenziosamente, innominati dalla legge. E' la fascia del sacrificio che circonda la società, la sua infula. Dalle leggi di Manu: «Il padrone di casa ha cinque strumenti di assassinio: il focolare, il pestello, la scopa, il mortaio e la brocca dell'acqua. Al fine di riscattare tutte queste colpe, i grandi veggenti hanno stabilito cinque grandi sacrifici che il padrone di casa deve compiere ogni anno. L'insegnamento ?dei Veda* è il sacrificio al brahman, l'oblazione di cibo e acqua è il sacrificio agli antenati, l'oblazione ?di cibo* in aria e sul suolo è il sacrificio ai fantasmi. Quanto al sacrificio agli uomini, esso è l'ospitalità. Colui che non manca mai, nella misura del possibile, di compiere questi cinque grandi sacrifici, anche se rimane nella sua casa, non è contaminato dal peccato di assassinio». Delicatezza dei veggenti vedici: le cinque armi dell'assassinio sono oggetti di uso domestico: la scopa, la brocca dell'acqua. Per mostrare che l'assassinio penetra nel più semplice, nel più quotidiano, nel più inconsapevole degli atti. Si spazza una stanza, si strangola una vittima: la connexio fa risuonare un atto con l'altro. Che noi siamo composti di atman e jivatman, di un «Sé» e di un «io» (come Guénon finiva per tradurre), compresenti e subordinati, fu una verità ancora percepita in Occidente nella tradizione ermetica la implica ogni operari alchemico e infine nella Romantik, nell'intrecciarsi del gioco dei Doppi. Ma il corso ufficiale della filosofia, quella sequenza Locke-Hume-Kant che incontriamo nei manuali, aveva da sempre inteso cancellare ogni dualità dalla mente e tendeva a ridurre il soggetto a centro di comando, del quale rimaneva da saggiare l'attendibilità. Quel lavoro di paziente verifica delle giunture, intrapreso da Kant, portò infine allo sfasciarsi di quelle giunture, con Nietzsche e il suo martello. Al posto del soggetto si spalancava ora una cavità vuota. La traversavano, come dorsi di delfini, esseri oscuri, momentanee pulsioni. Intanto la scienza accettava di trasformarsi definitivamente in protesi, apparato da agganciare durante le ore di laboratorio a un soggetto che per il resto si regolava come buon suddito dell'Opinione. Eppure, proprio all'interno di quel severo progetto epistemologico, devoto a Ockham e persecutore di ogni superfluità, sarebbe ancora una volta affiorata la dualità originaria del soggetto: quando si cominciò a parlare, negli ultimi anni del secolo Xix, dei paradossi della teoria degli insiemi cominciava a disegnarsi un'altra linea, quella che avrebbe condotto a Godel e di lì si sarebbe diramata in ogni direzione: segno di un definitivo corrompimento, di una ormai provata insufficienza di ogni discorso che non includesse un discorso su se stesso. E proprio in questo, nella dualità fra un discorso che ha un referente e quello che ha se stesso come referente, riapparivano i due uccelli delle Upanisad, riapparivano atman e jivatman e al centro della scienza, come al centro del rituale vedico, tornava a porsi lo scambio degli sguardi dei due uccelli, aggrappati allo stesso ramo sull'immenso albero della vita. L'eterno ritorno sposta il ciclo al di là dello Zodiaco; visione attizzata dall'angoscia, nella percezione dei numeri giganteschi che ora invadono gli spazi vuoti fra gli astri. Blanqui a Clairvaux: «Di notte, aggrappato alle sbarre della sua cella, conversava con gli astri». Impossibilità di vivere la pura frammentazione irrelata. Ora l'anello, che era adorno delle bestie zodiacali, si allarga senza misura e si incrosta di polvere cosmica. «Chinare la testa» l'ultimo gesto che rimane dinanzi ai colpi della vita era il gesto che, secondo l'oracolo, doveva compiere la pecora prima di essere sacrificata: «Non ti è permesso uccidere la vigorosa razza delle pecore, o Teopropide. Ma se un animale consente chinando la testa verso l'acqua lustrale, io dico, o Euscopo, che sacrificarlo è giusto». Ahnungslos, «privo di presagi»: questa mirabile parola tedesca indica la condizione a cui la storia tortuosamente ha condotto l'Occidente.

Nascere «privi di presagi», senza ombre di colpa e di grazia, è l'originario201-202 status moderno, quell'inopinata pretesa di scaricarsi del mondo nascosta dietro il banco di una bottega, dietro il tavolo di un laboratorio, dietro una cattedra, dietro la cassa.

All'origine, come sempre, c'è un dettaglio dell'azione sacrificale. «Se si consacra, è per dissacrare meglio» dissero gli Antenati. Il mondo gravava orribilmente su tutti, ogni cosa aveva troppo senso, ogni fuscello era il tramite di troppa potenza. Un sogno non dicibile cominciò a formarsi: che la cosa più bella fosse alleggerirsi, scaricarsi del mondo. Per farlo, bisognava concentrare il sacro in una vittima e ucciderla. Dopo, non rimaneva che tornare all'inebriante banalità, finalmente profana. La possibilità di rendere vacuo, arbitrario e vagante il proprio pensiero fu la sola Sirena a cui il puro Occidentale abbia obbedito. Tutte le altre le ha ingannate e neppure con troppo sforzo. Nel groviglio del sacrificio l'Occidentale scelse un solo filo e volle sceverarlo da tutti gli altri: l'espulsione del sacro mediante uccisione della vittima sacrificale. A mangiare il sacro, assorbendo una parte tollerabile della fonte di ogni potere, dell'inesauribile soma, rinunciò senza grande rammarico. La cucina domestica gli bastava o al più il banchetto fra amici, con qualche cortigiana ricca di pettegolezzi. Ma rimaneva qualcosa di torbido e urtante in quelle pratiche del sacrificio: l'impurità, prima di addensarsi tutta nella vittima, era nel soggetto stesso, nel sacrificante e opprimeva la sua vita, che ora voleva essere soltanto trasparente e crudele. Al termine di un lungo, oscuro slittamento, il sacrificio divenne il processo giudiziario. Con l'avvento della legge, la colpa, che appartiene al sacrificio, e in primo luogo al sacrificante, si sposta fin dall'inizio soltanto sulla vittima: non la si chiamerà più vittima, ma colpevole. La legge recide la connessione fra il processo della vita («la vie étant coupable» ricorderà un giorno Joseph de Maistre) e la colpa: nel processo giudiziario la colpa è estranea alla legge, dalla legge aspetta soltanto di essere trafitta.

Fra l. Edipo re e i Vangeli il sacrificio ha compiuto la sua trasformazione in processo. Ormai è la legge a stabilire la scelta della vittima. Ma il processo pienamente efficace, in quanto liberatorio dal sacro, è soltanto quello in cui si condanna l'innocente. In ciò si rivela che la legge, da sempre e per sempre, è travolta da qualcosa di precedente e più forte. Pilato si lava le mani, perché sente che la legge è impotente ad assolvere. Cristo non è condannato dalla legge, ma dall'impotenza della legge. Chi lo condanna è la folla, con i suoi sacerdoti. Il sacro si concentra nella vittima, viene soppresso in essa e da essa emana. Comunque il sacro va ucciso, perché terrorizza: il suo perenne contagio rende impossibile la vita. L'unica altra possibilità, l'invenzione moderna: il sacro non viene visto. O terrorizzante o inavvertito. Ma lo stato in cui il sacro non viene percepito in quanto tale riproduce, all'inverso, la situazione del terrore originario.

Qualcosa di diffuso, di onnipresente, che spinge a uccidere quasi senza ragione, a inseguire torture feroci, su di sé, su chiunque. Il sacrificio peculiarmente moderno è un'immane impresa industriale, che rifiuta nome e ricordo del sacrificio. Si parla di classi intere da eliminare o altrimenti di inevitabili drop- outs che ogni giorno vengono proiettati fuori dalla macchina sociale. Ma sono sempre eventi che la società deve a se stessa. Così pure si ungono ancora esseri divini, si adagiano su pellicce, si cingono di fiori e di candide bende, prima che un invisibile coltello si abbatta su di loro. Arcontesse astrali arrestate mentre rubano ai grandi magazzini o soffocate dal veronal. Per l'India vedica, io e Sé, jivatman e atman, erano come il palo sacrificale ( yupa) e la vittima che vi era legata. «Più vicino a te della tua vena giugulare» dice il dio al mistico, perché è il coltello che ha reciso quella vena. «: Nature is a haunted house but Art a House that tries to be haunted». Emily. «Arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità». Dell'arte, inafferrabile per costituzione, si può dare solo una definizione genetica e quella di Adorno è forse la più bella. Sfuggire alla coazione magica, quale esige il sacrificio, non è soltanto un'astuzia della ragione, che si scarica delle potenze. E' anche un gesto che apre una dimensione inaudita: il gioco con gli oggetti sacrificali, con reliquie e relitti che il naufragio del mondo magico abbandona sulle rive della psiche. Tutti i caratteri dell'arte, dalla pervadente ambiguità alla funzione catartica, svelata dal naturalista Aristotele, fino al suo essere «disinteressata», nella formulazione di Kant, sono vestigia sacrificali. Nel «faire cela, sans savoir quoi» di Beckett risuona l. operari delle origini, che era il sacrificio stesso. Mentre il «sans savoir quoi» evoca le potenze cancellate, che agiscono senza nome, nell'oscuro. Questa è la peculiarità occidentale: non già nell'aver scoperto il Bello, ma nell'averlo lasciato planare in una condizione sospesa, nell'aver allentato il cappio della vittima. Sfuggire alla «menzogna di essere verità» è anche uno sfuggire alla verità stessa, alla soffocazione. Da questo l'ostilità irriducibile dell'arte verso ogni ordine sociale, che incorpora ogni volta una pretesa di verità. Nell'arte parla la voce della vittima sfuggita in extremis, e per sempre, all'uccisione, quando già il rito aveva fatto rifluire in essa tutto il sacro. L'arte è leggera perché vaga nella foresta. Ora l'altare è vuoto. In una società totalmente secolare come la Francia fine Ottocento, fra i suoi instituteurs gonfi di libero pensiero, avidi di abbattere le cappelle gotiche e di fondare la morale laica, doveva apparire l'illuminazione di Durkheim: il religioso è il sociale. Non prima, non altrove avrebbe potuto essere formulata, con quella sobrietà ultimativa, con quel sapore di Ècole Normale, un assioma che implica il totale riassorbimento della nube divina nel Grande Animale di Platone e di Simone Weil. Durkheim, discendente da una famiglia di rabbini, è l'Ebreo asciutto, che non è più entrato in mare dopo la traversata del Mar Rosso. Per lui il mare non c'è, la società lo ha assorbito. I più geniali antropologi della sua scuola, Mauss e Granet, erano invece mirabilmente umidi. I «fatti sociali totali» che descrissero, talvolta con precisione visionaria, furono le prime raffigurazioni adeguate delle società arcaiche in quanto luoghi dove si aprivano partite di scambi cosmici. «Alors que tout est en nuances...» era il motto segreto di Mauss e di Granet. Mentre in un altro cabinet, di là dalla Manica, Frazer vestiva le origini in una serie grandiosa di «abiti di confezione» (Dumézil), Mauss soppesava ogni dettaglio dell'etichetta di genti che non avrebbe mai visto con lo stesso sguardo maniacale e implacato che aveva avuto Saint-Simon per l'etichetta di Corte. Il punto d'arrivo di Mauss e Granet è alla fine opposto a quello prospettato da Durkheim. Ma l'assioma di Durkheim «il religioso è il sociale» è uno di quei falsi princìpi che svelano una incombente verità. Solo un'altra sorta di genialità, quella di René Girard, sarebbe riuscita a spingere l'analisi sino al fondo feroce che Durkheim non aveva presagito nel suo assioma. Girard è uno degli ultimi «porcospini» oggi sopravviventi, secondo la tipologia che Isaiah Berlin ha sottilmente derivato dal verso di Archiloco: «La volpe sa molte cose, ma il porcospino sa una sola grande cosa». La «sola grande cosa» che Girard sa ha un nome: capro espiatorio. Per Girard, tutte le speculazioni teologiche sul sacrificio, tutta quella parte del groviglio sacrificale che non conduce soltanto al capro espiatorio sono tentativi sacerdotali di occultare l'orribile verità. Così, pur con eroica intelligenza, egli accetta il gioco più squallido dell'Occidente: «demistificare», «demitizzare», «smascherare» prima di essere stati iniziati al mistero della maschera. Ma se il suo sarcasmo e la sua furia non ledono i veggenti vedici, raggiungono invece con felice irruenza gli antropologi moderni. Smascherati, qui, non sono i Veda, ma le eufemistiche, aziendali circonlocuzioni con cui la scienza ha coperto l'ininterrotto assassinio, la perenne effusione di sangue. Devoti alla funzionalità sociale, gli antropologi mostrano una somiglianza sempre più evidente con quelle prudes vittoriane che evitavano in ogni modo di nominare i piedi e le gambe. Dinanzi a loro Girard ripete senza requie «la frase inesauribile di Molière: «Ah! qu.en termes galants ces choses-là sont mises!»». Non già al rigore del laboratorio sociologico ma al testo evangelico si volge invece l'aspirazione di Girard. Tutta la sua opera può essere letta come un abbagliante commento alle parole di Caifa: «Expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo, et non tota gens pereat». Caifa sta qui per il politico: «nessuno ha fatto meglio di lui in politica». E la sua lucidità accenna al taciuto fondamento che ritroviamo in ogni società: «E' questo il paradosso terribile dei desideri negli uomini. Essi non possono mai intendersi sulla preservazione del loro oggetto; ma possono sempre intendersi sulla sua distruzione; non si accordano se non a spese di una vittima». Questo meccanismo è, per Girard, il meccanismo del sacrificio: ma, stranamente, esso non appare mai tanto palese come nella società moderna, che dal sacrificio si è fieramente discostata. Per trovare un perfetto «testo di persecuzione», Girard deve ricorrere a un brano contro gli Ebrei del : Jugement du Roi de Navarre di Guillaume de Machaut. Questo si spiegherebbe, secondo Girard, con la progressiva azione anti-sacrificale della verità evangelica, che prima lascia affiorare l'orribile realtà del capro espiatorio e infine fa sì che, nel corso del tempo, venga generalmente condannata, come oggi l'antisemitismo. In questa visione tortuosamente illuministica affiorano invece le maggiori debolezze di Girard: la persecuzione, di fatto, non ha mai avuto una così doviziosa espansione come nell'Occidente moderno, che ignora il sacrificio e lo giudica una superstizione. L'espulsione del sacro, che appartiene al sacrificio, diventa ora pulizia di casa, evacuazione fisiologica. Gli Ebrei sono insetti immondi che devono essere spazzati via dai sani tinelli germanici. Si parla delle «purghe» staliniane: milioni di presunti oppositori vengono evacuati nei campi. Che la communis opinio condanni l'antisemitismo e la persecuzione in genere è un beffardo corollario del fatto che la persecuzione stessa per ogni sorta di motivi: razziali, polizieschi, religiosi, terroristici è diventata la lingua franca della politica planetaria. Se la verità sul sacrificio si afferma nel chiamare «olocausto» lo sterminio degli Ebrei, senza neppure riconoscere nella parola un termine tecnico del sacrificio, quella verità somiglia alla parodia anticristica piuttosto che alla parola del Cristo. Eppure, l'ipotesi di Girard tocca una verità a cui nessun antropologo si era mai avvicinato, sfiora la ferita aperta del sacrificio, impone la domanda più grave e sempre elusa: «Chi immolerà chi?». Sappiamo da Sahagùn, dall'oracolo di Delfi e da Baudelaire che, nel sacrificio giusto, «occorre che vi sia assenso e gioia da parte della vittima». Ma il nostro sguardo non abbandona l'anfora tirrenica dove è raffigurato il sacrificio di Polissena: la fanciulla è stretta sotto le braccia, come un tappeto arrotolato, da tre guerrieri, che la tengono rispettivamente all'altezza delle caviglie, delle ginocchia e del petto. Adorni di elmi e schinieri, tutti e tre mostrano taglienti profili. Elmo e schinieri ha anche Neottolemo, che affonda con la destra una grossa lama nella gola di Polissena, mentre con la sinistra le stringe i capelli, per rialzarle la testa e scoprirle meglio la gola. Il sangue sgorga a fiotti sull'ara. Diomede osserva dietro Neottolemo, con una lancia in mano. E un altro personaggio distoglie lo sguardo. Nessuna speculazione teologica può cancellare questa visione. E questa visione non vale a cancellare le speculazioni teologiche, come vorrebbe Girard. Su questo, come spesso avviene per le cose ultime, il più è detto in una storia di Chuang-tzu: «L'officiante dei sacrifici si avvicinò con la sua veste da cerimonia al recinto dei porci e parlò loro così: «Perché vi ripugna essere condotti a morte? Vi ingrasserò per tre mesi; quanto a me, per dieci giorni mi macererò e per tre giorni digiunerò. Poi per voi saranno stese le stuoie con la paglia bianca e le vostre membra saranno adagiate su vassoi cesellati. Che volete208 di più?». Poi egli pensò a che cosa avrebbero preferito i porci e disse: «Preferiscono essere nutriti di lolla e crusca e restare nel loro recinto»». Girard proietta all'indietro, sino alle origini, quel delirio che l'Occidentale prima sprigiona e poi prende per vero, con un brivido credulo: l'autonomia della società, la sua pretesa di riferirsi soltanto a se stessa, di spiegare tutto in rapporto a se stessa; perciò anche di considerare le vittime immolate agli astri come altrettante offe per l'equilibrio del gruppo. Per Girard, è come se il sole, la luna, il fuoco, la peste e il vento esistessero soltanto in quanto copertura di una qualche tensione sociale. Questa incongrua pretesa è la stessa di Marx, secondo il quale «non ha alcun valore» l'acqua della cascata perché non è prodotta dal lavoro. E' il goffo, imperioso Setzen della mente, quel «porre» che presuppone nulla esista prima di essere posto dall'arbitrio del pensiero. Così il mondo, per fortuna, non è. E Girard compie un'estrapolazione violenta per giungere al cuore della violenza: la sua vittima è la silenziosa realtà non umana. Ma vi è un senso in cui, comunque, il mondo così era: il senso per cui, fin dall'origine, appare latente quella pretesa di sovrano isolamento della società che si dichiarerà poi soltanto qualche millennio più tardi. Girard presuppone che all'origine non vi sia morte, ma un assassinio e precisamente un linciaggio. Ma, prima del linciaggio, c'è la fame: «la fame è la morte».

In essa si congiungono morte e assassinio. L'impossibilità di sopravvivere se non si mangia, quindi se non si uccide, perché anche la recisione di una pianta significa uccisione, è la condanna con cui Zeus risponde all'inganno sacrificale di Prometeo: gli dèi, ingannati, avranno solo le «bianche ossa» e il fumo delle carni, ma gli uomini, che scelgono le grasse carni, avranno in eredità anche la fame, quindi la morte. Questo evento primordiale è il fondamento del sacrificio, il rta indissolubile. Offrendo il sacrificio, noi accettiamo pur dietro il sotterfugio della sostituzione, che provvisoriamente ci mantiene in vita di essere un giorno noi stessi divorati, se non dagli uomini, da quegli dèi che sono gli ospiti invisibili al banchetto: «uccidere è sempre uccidersi». Questo perfetto sovrapporsi del sacrificio a una fisiologia cosmica è visto da Girard come mero inganno: perché il suo sguardo non accetta di distogliersi un solo attimo dalla fisiologia sociale quindi non coglie che il potere di quest'ultima è così soverchiante innanzitutto perché essa si appropria progressivamente della fisiologia cosmica, sino ad assorbirla del tutto in se stessa. Ma l'appassionata faziosità di Girard è preziosa: essa ci ricorda che, fin dall'origine, il sacrificio serve anche, alla società, per scaricare fuori di sé il sacro, che altrimenti la paralizza. Seguendo quell'unico filo si giunge agevolmente dalla preistoria a oggi e questo può dare l'impressione illusoria di avere trovato la chiave dell'enigma, la pietra scartata dai costruttori. Mentre si è spiegata così soltanto l'astuzia sacrificale, piccola pietra lucente incastonata nella gola del tao tieh, la composita belva delle origini. Da lì, in una sequenza coerente, si precipita verso quel giorno in cui si credette che il pericolo del sacro non fosse poi tanto grave. Allora il console Paolo Emilio, con limpido cinismo romano, disse che il sacrificio non doveva più servire ad accrescere le fortune della Repubblica. Bastava ormai che le lasciasse tranquille, quali già erano. Ad accrescerle avrebbero pensato i romani stessi. Dopo questo passo, rimaneva soltanto da dimenticare il sacrificio. Tutto diventa, col tempo, superstizione. E, in quanto tale, scrisse Baudelaire, «il deposito di tutte le verità». Girard applica con rigore (forse per primo) l'assioma di Durkheim, che egli definisce «la più grande intuizione antropologica del nostro tempo». Di fatto, la nube del religioso avvolge nei singoli punti il nesso sociale: ma per Girard è come se da quei punti venisse sprigionata. Così alcuni dati elementari rimangono però intoccati da quella violenta compenetrazione fra il sociale e il religioso: l'irreversibilità del tempo, la morte, la fame, la desiderabilità. Sono le cose ultime: Girard vuole solo trasformarle in prodotti del conflitto mimetico che sfocia nella violenza del210 sacrificio. Eppure, anche in una società sottratta all'inganno del sacrificio, esse rimarrebbero intatte. Con la sua ipotesi, Girard può spiegare la ciclicità del tempo, non la sua irreversibilità; può spiegare l'assassinio, non la morte; può spiegare il conflitto dei desideri mimetici, non l'esistenza del desiderio. Rovesciamo allora l'assioma, diciamo: il sociale è il religioso. Ogni punto del nesso sociale può allora essere ricondotto a una zona nella nube del religioso, là dove abitano potenze con le quali il nesso sociale si proponeva in qualche modo di trattare: arte del compromesso, del dare e del prendere, del sacrificio. Anche qui, come sempre, la questione è se riconoscere o no quelle potenze: lì dove abitano i mille e mille dèi vedici il rasoio di Ockham ha reciso ogni nome. Ma, se gli dèi e i loro nomi sono scomparsi, la nube rimane. E' la nube il dio ignoto. Il trascurabile di Descartes è il sacro: quella parte maledetta, accantonata, incontrollabile. Ormai una zona di sicurezza dove agire indisturbati è stata conquistata: al posto delle210-211 101 procedure sacrificali agiscono le condizioni di laboratorio. Ma il significato del comportamento rituale è capovolto: i gesti sacrificali miravano a trattare, maneggiare, con cautela, il sacro; le procedure di laboratorio tendono a espungerlo. Nella gabbia di vetro si muovono mani artificiali e sterili: raccolgono il corpo irrigidito dell'animale, sotto la luce clinica, e lo avviano alla pattumiera. Nell'esplosione del laboratorio si ravviva la memoria del sacrificio. L'attesa dell'incidente nella centrale nucleare è oggi l'attesa rituale pura: l'occhio si fissa sul momento in cui il contagio riprenderà a dilagare. Grazie al sacrificio si disegnava, fuori del cerchio sacrificale, una zona in cui si poteva vivere, si poteva agire, senza essere colpiti, distrutti: perché si colpisce, si distrugge soltanto nell'altra zona, quella del sacro, chiuso nel cerchio. Ciò che si usa chiamare magia è quel poco che rimane della magia una volta che le sia stato sottratto il suo fondamento nell'azione: il sacrifi211cio. Magia è pensiero risonante. Il sacrificio presuppone questa risonanza universale. Perciò l'esito del sacrificio è sempre incerto: una perpetua ordalia, dove le forze si scontrano come suoni. E nessuno è in grado di delimitare una forza, perché le sue ramificazioni non hanno fine. Nessuno sa dove una forza finisce, come nessuno può seguire tutti gli armonici di un suono. La legge presuppone se stessa. Perciò la legge aspira alla condizione, mai raggiunta, dell'univocità. In mancanza di una tale definitiva chiarezza, la legge chiede, più modestamente, di non essere messa in dubbio troppo spesso. E' giusto allora che la stessa parola «legge» designi la regola sociale e la regola naturale. Non fa differenza se quelle regole si richiamano a un comandamento divino o a una frequenza statistica: comunque sono regole a cui il mondo, nel suo complesso, si attiene. Con quelle regole, quasi sempre, si può convivere: nulla di più pretende di offrirci, oggi, la legge. L. isolamento operato dalla conoscenza sul dato ripete il prelievo operato dalla società sulla natura, per costituirsi: passaggio dal continuo al discontinuo, necessario per istituire le differenze e soprattutto la differenza dalla natura stessa. L'offerta sacrificale è quel sovrappiù che va reciso, espulso, celebrato, bruciato, perché altrimenti la società tornerebbe a coincidere con la natura. Quel sovrappiù è il disordine e la catena degli assassinii, precedenti alla legge, ma è anche tutto ciò che preesiste alla società e occultamente la nutre: l'«oceano nascosto» di Varuna, senza il quale l'ordine sociale si disseccherebbe e cadrebbe in polvere. Si tratta sempre di questo: come usare la parte eccedente, quella parte che, sommata alla società, darebbe la natura ma una natura moltiplicata, infernale o edenica. Il sacrificio è anche una lunga astuzia per giungere a espellere il sacro. Vivere senza il sacro apparve un giorno come una condizione perfetta, leggera, desiderata. Diventare divini o espellere il sacro: questo è l'oscillare, questo è l'intreccio del sacrificio: comunione, espulsione. Nostra posizione di invertita divinità rispetto all'esperimento: come gli dèi con i sacrifici, ne aspiriamo i fumi, lasciando che i corpi vengano distrutti. Il fumo del sacrificio sono oggi i numeri, i protocolli sperimentali. Vi sono due modi della sostituzione: per convenzione (assassinio); per corrispondenza sostanziale (sacrificio). La corrispondenza uccide il sostituente; la convenzione uccide il sostituito. La corrispondenza presuppone che il sostituente continui a vivere nel sostituito, in quanto entrambi sono frammenti della «sostanza sonora» da cui il mondo è nato, di cui è fatto e le loro posizioni sono reversibili: chiunque un giorno, sostituirà un altro come vittima del sacrificio, poiché non esiste morte naturale: ogni morte è un sacrificio. La convenzione annulla il dato, in quanto traspone nei segni quelle proprietà, e quelle soltanto, che del dato vuole rappresentare. Nascita del sistema formale. Il sacrificio implica talvolta che un singolo essere venga ucciso; la convenzione lascia apparentemente intatto il dato che rappresenta. Ma l'uccisione è implicita nella sua regola: verrà il momento in cui della realtà scartata, uccisa dalla convenzione faranno parte intere comunità. Sacra è la zona intermedia fra la sorda tranquillità del profano e la limpida calma del divino. E' la zona del sangue, del pericolo, magnete della violenza. Quando Diomede scaglia il giavellotto su Afrodite dalla ferita sopra il polso della dea non sgorga il sangue, ma il misterioso >i&jr, etimologia ignota, linfa: gli dèi, dice Omero, «non mangiano pane, non bevono il nero vino, perché non hanno sangue e sono chiamati immortali». Plutarco chiosa: «Con ciò egli significa che il cibo non è soltanto un mezzo per vivere, ma per morire». Cibo, sangue e morte sono stretti nello stesso cerchio. Le Upanisad sono insaziabili nell'attribuire il sacrificio a tutto: al respiro e all'alimentazione, all'eros, alla parola, al gesto, perché il sacrificio è la sola forma che risponda, nelle vene, alla vita: che la insegua nei suoi movimenti, siano involontari o arbitrari, senza requie.

La forma del sacrificio è latente nell'esistenza del sangue: vita che si rinnova, ma : per un certo tempo, costruzione ininterrotta e caduca. E' vita, ma non potrà mai raggiungere la durata senza termine della trasparente linfa che circola negli dèi. Come il sangue viene ogni giorno nutrito da oscure vittime, così la vita in genere esige quella costruzione assassina che ogni giorno si rinnova dinanzi al palo dei sacrifici. La fanciulla dalle tumide labbra sporgenti affondò in una torbiera dello Schleswig-Holstein. Lì fu dissepolta, intera. La pelle tirata come antico cuoio la rendeva camita. La testa rasata poggiava di profilo, gli occhi coperti da una benda, fra l'indice e il medio della mano destra stringeva un ramo di betulla. Così fu avviata ad annegare nella palude, circa duemila anni fa. Era bendata come Eros perché l'amore è superiore all'intelletto?

Due interrogazioni irriducibili si rivolgono alla divinità: quella di Giobbe e quella di Arjuna: la prima interroga sull'essere uccisi, la seconda sull'uccidere. La risposta divina, in tutti e due i casi, è insieme soverchiante ed evasiva. In tutti e due i casi non è una spiegazione, ma una maestosa epifania cosmica. Una risposta puntuale al quesito manca. Sono due domande ultime, che non ammettono una risposta minore del tutto. Il Leviatano, che «fa ribollire come una caldaia Il fondo degli abissi»; e Krsna, «come una massa di fuoco che proietta fiamme da ogni parte». Il sacrificio dà una forma canonica, ripetibile a una coppia di gesti: il dare e il prendere. Tutti i significati di quei gesti, senza i quali non esiste comunicazione, quindi società, sono racchiusi nel sacrificio. E che cosa potrebbe esistere senza la simultaneità di quei gesti? La sopravvivenza se potesse essere soltanto un prendere. Ma qui appare la connessione primordiale: non è ammesso che vi sia un prendere senza un dare, perché è promesso che ogni dare porterà anche a un prendere. Il lontano che impera sul vicino, il mediato sull'immediato sono il presupposto di ogni cultura. Chi prende e non dà distrugge qualcosa che forse non tornerà mai più. Chi uccide il cervo nella caccia forse non vedrà mai più apparire il cervo. Chi coglie i frutti della terra forse non li vedrà più ricrescere. Il primo patto, il primo dare-prendere, è con la natura, con l'animale, con la pianta e, dietro di essi, con le potenze che manifestano. Ciò che a noi si offre per essere preso esige di essere dato a ciò che a noi lo ha offerto: l'accettazione di questo nesso fonda la vita sacrificale, l'attitudine cerimoniale verso l'esistenza. Il pathos di questo gesto è nel riconoscimento che al centro di ogni dare-prendere c'è un'uccisione. Ciò che noi prendiamo da noi viene ucciso, sradicato. Ciò che noi diamo non può essere minore, implicherebbe dunque che noi stessi ci uccidessimo. Ma questo interromperebbe la circolazione degli scambi. E qui appare l'immensa astuzia sacrificale: la sostituzione. Sacrificando qualcosa che sta per un'altra si avvia la macchina stessa del linguaggio e dell'algebra, la digitalità conquistatrice. L'inganno per cui a essere sgozzato sull'altare può essere un sostituto e non la cosa stessa provoca uno smisurato aumento di potenza, tale che nel suo espandersi cancellerà del tutto dalla consapevolezza la necessità del dare sacrificale. Il puro scambio, che sistematizza la sostituzione, espunge a poco a poco l'unicità, ricordo della vittima primordiale. Il mondo, alla fine, sarà abitato solo da sostituti, quindi da vittime che non sanno di esserlo perché non ha nome e forma l'insostituibile sacerdote che alza la lama su di loro. A parte i lucidi credenti, minoranza agguerrita, nel mondo si trovano ad abitare o credenti per abitudine di famiglia o non credenti affatto: i moderni, coloro che per qualche ragione si ritengono tenuti a non riconoscere216 alcunché di sovrannaturale. Fra questi si incontrano i più aspri bigotti. Ma qui incontriamo anche l'essere più peculiare del momento: chi non appartiene a una confessione, ma neppure alla bigotteria laica (credere nella scienza, credere nel socialismo, credere nell'individuo, credere nel libero mercato, credere nel proletariato, credere nel progresso). Che cosa penserà allora? Riappare qui l'intatta discriminazione: fra chi usa categorie sacrificali e chi le rifiuta. Nietzsche parla sin dall'inizio in termini sacrificali, come vuole Dioniso, il suo dio; Carnap parla come i molti che considerano il sacrificio una superstizione, in quanto eminentemente inverificabile; Freud vuole svelare il sacrificio originario; Jung vuole che il sacrificio si compia. La letteratura non ha neppure bisogno di parlare del sacrificio: in una certa sua forma la letteratura assoluta (genealogia della décadence: Baudelaire, Mallarmé, Benn; o Flaubert, Proust) la scrittura assume i tratti dell'offerta sacrificale, che implica una qualche distruzione dell'autore. La Romantik è il grande risveglio del sacrificio. L'oscuro, l'impuro, l'incontrollato, il paesaggio, l'incongruo, il sonnambolico, il sentimentale, il presago, il passionale: tutto ciò che, con qualche goffaggine, la speculazione poté definire il Negativo, era la sua terra: nuova terra sacrificale, dove di nuovo si incontra l'ebbrezza delle cose doppie, ogni volta vivificanti e distruttive, come un tempo era stato soltanto attorno al palo del sacrificio. Ma nessuno ora potrà assumere il ruolo di officiante, né di sacrificante: in mancanza di un rito, di un ordine, sussiste solo il ruolo della vittima, che vaga nella foresta, selvaggina di Rudra, in attesa delle sue frecce mortali. E' la consunzione di Novalis, di Keats. Per Holderlin, Rudra è Apollo, che lo colpisce a Bordeaux. Quando lo scrittore diventa ufficialmente maudit, con Rimbaud è già tempo di cambiare: è ora di vendere armi a Harar. La vittima scopre con tristezza che il mondo le ha già preparato una arcaica nicchia. Occorre tornare nella foresta. Nella città si sarà anonimi, poco visibili, si scriveranno lettere commerciali in inglese, si siederà al caffè dopo le ore di ufficio: la foresta è il baule di Pessoa, folto di nomi. Perché la società sperimentale prendesse la parola non occorreva certo aspettare Lenin, e tanto meno Hitler, epigoni che si trovarono soltanto ad avere i mezzi adeguati per attuare le visioni bonificatrici di tanti loro predecessori. Nella sua faccia fredda e inventiva, che è la faccia tecnica, la società sperimentale è beffardamente silenziosa, anonima, si preoccupa soprattutto di stabilire nuove procedure nelle fabbriche, negli uffici, nelle banche, nelle campagne. Nell'altra faccia, quella verbosa e progettante, la società sperimentale trova il suo timbro originario nelle voci dei Giacobini provinciali. Parla Leclerc, deputato del comitato lionese ai Giacobini di Parigi, il 12 maggio 1793: «Occorre costituire il machiavellismo popolare; occorre far sparire dalla superficie della Francia tutto quel che c'è di impuro». Davanti ai Giacobini di Strasburgo parla Baudot, il 19 frimaio dell'anno Ii: «Gli egoisti, gli imprevidenti, i nemici della libertà, nemici della natura intera, non devono essere annoverati tra i suoi figli. Non sono forse nella stessa situazione di tutti coloro che si oppongono al bene pubblico o anche soltanto non partecipano a crearlo? Distruggiamoli interamente... Fossero pure un milione, non si sacrificherebbe forse la ventiquattresima parte di se stessi per distruggere una cancrena che potrebbe infettare il resto del corpo?». Ma queste voci tremano ancora di qualche indignazione. Non hanno la purezza di chi è assorto soltanto nel bene futuro, come M. d'Antonelle, il quale riteneva che «per costituire la repubblica occorreva stabilire l'uguaglianza approssimativa della proprietà e, a questo fine, sopprimere un terzo della popolazione». Con questa sobria soppressione di «un terzo della popolazione», perché finalmente il denaro, la proprietà non fossero così disparati, ma giudiziosamente conformi, si intendeva sradicare ogni possibilità di insolenze sontuose, di cocottes, di giochi d'azzardo, di vasti spazi vuoti, come an-218 che si condannava ogni dissipazione di esprit, contraria per essenza alla virtù repubblicana. Quella oscura proposta dà voce, nella sua netta scansione, nella sua ansia di mediocrità, a quel pensiero che in seguito avrebbe solo aggiunto, quale variante e pimento, la specificazione degli Ebrei o dei kulaki o dei nemici di classe in genere come primi candidati a far parte di quel «terzo della popolazione». Burckhardt riconobbe nelle proposte dei Giacobini provinciali «il nucleo più intimo della Rivoluzione» e annotava: «Qui trapela chiaramente la nuova Francia; non si mira al socialismo o al comunismo, con i quali si arriverebbe soltanto a una media miseria universale e all'uguaglianza dei godimenti (mentre si vuole l'uguaglianza dei diritti, con la segreta riserva di sopraffare poi gli altri), bensì si vuole nuova proprietà privata, distribuita in modo più o meno uniforme, ma in misura abbondante; e perché questi eletti stiano bene, una grande massa deve morire. Il fine è il benessere francese moderno». Dalla sua specola di Basilea, illuminato dall'odio, Burckhardt aveva riconosciuto come astri della stessa costellazione l'ottundente benessere del capitale e la miseria punitiva del socialismo. La fede primordiale, quella a cui tutte le altre riconducono, è l'affermazione della «nusquam interrupta connexio», dell'interdipendenza universale. La scelta di riconoscerla, anche se non necessariamente la pretesa di conoscerla. L'altra possibilità, quella di negarla, permette di credere soltanto a ciò che si sceglie, che si conviene di scegliere. Qui il senso non c'è, il senso viene dato ogni volta. E, come viene dato, così viene tolto. Le potenze trovano molte immagini l'albero, la rosa, il loto, il melograno, tutte le forme della natura dove manifestarsi. La connexio ha invece bisogno, per manifestarsi, di un atto, di un processo: il sacrificio. Ed è questo l'unico atto che sia adeguato a tanto: perché contiene in sé la morte, e nella morte l'uccisione, la violenza e la vita che circola. Sacrificio è l'atto in cui si compendia il processo del tutto. «Orate sine intermissione»: questa parola paolina sta sulla soglia del tempo lineare: una linea dove si aprono voragini, quelle a cui accennano i numeri reali nel disporsi sulla retta. Nulla è meno omogeneo del tempo lineare: scansione di vuoti e di pieni, accensione momentanea, irrelata, urto di incompatibili, la doppia vita del discreto e del continuo. Ma non questo, ora, lo definisce, bensì il suo non poter tornare su se stesso, il suo non essere periodico. Questo permette di pensare a un atto che avvenga «sine intermissione»: la preghiera ininterrotta. Prima, la preghiera aveva ogni volta un suo momento. Ora la scrittura del cielo non dice più il momento giusto, prima del quale l'azione sarebbe sacrilega. Il momento, ora, è sempre giusto e sempre sbagliato. L'unica via d'uscita è un atto perpetuo: «Orate sine intermissione». La cerimonia del sacrificio è introdotta e accompagnata da canti, formule, gesti minuziosamente stabiliti. Ma procede tutta verso un centro che è prossimo al silenzio, un mormorio inarticolato ( anirukta), grani di sabbia della vita inesauribile, attorno al momento dell'immolazione.

Allora i presenti distolgono lo sguardo e bisbigliano le ultime formule. Spicca soltanto la voce neutra, sobria, del sacerdote che indica al sacrificante i gesti dell'uccisione. «Agone?» chiede il victimarius o popa (il boia). In quella domanda, nella cruda dizione romana, il ricordo dell'antica percezione: che ogni azione è uccisione. Al cenno di assenso del sacerdote, il victimarius immergeva il coltello. L'India preferiva non vedere il sangue: un laccio strangolava la vittima. L'estinguersi del sacrificio. La vittima perde gradualmente il suo potere: distacco dall'animale, non lo si riconosce più tanto vicino da poterci sostituire; rifiuto della vittima umana, ormai protetta dalla legge. L'ultima vittima sarà allora un dio condannato dalla legge. Il passato pre-cristiano è tutto un lungo processo di eufemizzazione, edulcorazione del sacrificio. Con Cristo, il sacrificio ritrova improvvisa-220-221 mente la sua crudezza, torna a svelarsi linciaggio e al tempo stesso il ciclo del sacrificio viene sigillato, perché nessun sacrificio potrà far seguito a quello di Cristo, se non una continua commemorazione del sacrificio: la Messa, che pretende di sfuggire all'effusione di sangue («incruente immolatur»). Più che l'atto di assimilare un pezzo di pane e qualche sorso di vino al corpo e al sangue del dio-vittima, ciò che segna una cesura invalicabile rispetto al precedente è che d'ora in poi non si uccidono più animali sugli altari, non si cercherà più di espellere il male «sanguine taurorum et hircorum». Con l'èra cristiana scompare dal rito l'effusione di sangue: premessa per il dissolversi del rito stesso. Il passo successivo esige una versione secolare del sacrificio, col regicidio: Carlo I, quindi Luigi Xvi, doppio sigillo: e, anche qui, un singolo, irreversibile fatto, l'uccisione di quella vittima, vale a introdurre un'età in cui non solo non si dovranno sgozzare i capri sugli altari, ma neppure commemorare i re decapitati. Poi la parola «sacrificio» torna a trionfare nell'agosto 1914. Non si tratta ora di un meschino essere singolo: una intera generazione di anonimi viene innalzata alla nobiltà della vittima e calata nelle fosse, che ora sono trincee.