L'UOMO DEI LUPI RICORDA



Ero nato dove la terra di Odessa è più nera. Governante francese, precettore austriaco. Solcavo l'Europa con il mio medico e un assistente per giocare a carte. Dopo molti anni mi trovai off limits col mio cavalletto nella zona morta. Comando alleato, comando russo. Volevano tutti arrestarmi.  Volete vedere l'Europa? Andate a Spa: «Non c'è osservatorio migliore dei luoghi dove si passano le acque». Il principe di Ligne aveva una ferita da sciabola e volle vedere, sempre curioso, svagato, indifferente ai fatti suoi, cedevole al primo impulso, perché sapeva che la sua sorte era buona. Quello che vide era la mobile allegoria d'Europa, siglata da un Hogarth continentale, il mondo improbabile e precario che la storia aveva allevato e abbandonato alla corrente: «Arrivo in una grande sala dove vedo certi monchi che si facevano belle le braccia, certi zoppi che si facevano belle le gambe; nomi, titoli e facce ridicoli; animali anfibi della Chiesa e della società che saltavano o correvano dietro a una colonna inglese; lord ipocondriaci che passeggiavano tristemente; ragazze leggere di Parigi che entravano con grandi schiamazzi di risa, credendo di farsi passare per amabili e disinvolte, e sperando di diventarlo in quel modo; giovani di tutti i paesi, che facevano gli Inglesi e si credevano tali, parlando a denti stretti e vestiti da palafrenieri, con i capelli arrotondati, neri e grassi, e due barbe da ebreo fin sopra le orecchie sporche; vescovi francesi con le nipoti; un ostetrico con l'ordine di san Michele; un dentista con quello dello Sperone; maestri di danza e di canto, in uniforme da maggiore russo; Italiani, con i gradi di colonnello al servizio della Polonia, che si portavano dietro certi giovani orsi di quel paese; Olandesi che cercavano nelle gazzette i corsi delle valute; trenta sedicenti cavalieri di Malta; cordoni di ogni colore, a destra e a sinistra e alla bottoniera; placche di ogni forma e grandezza, disposte da entrambe le parti; cinquanta cavalieri di san Luigi; vecchie duchesse che tornavano dalla passeggiata, con grossi bastoni alla Vendòme e tre dita di cipria e rossetto; qualche marchesa di ritorno da partite a carte in campagna; volti atroci e sospettosi, in mezzo a una montagna di ducati, divoravano tutti quelli che venivano deposti, tremando, sul tappeto verde; uno o due elettori in costume da caccia, col gallone d'oro e il coltello; qualche principe in incognito, che non avrebbe fatto maggiore effetto sotto il suo vero nome; alcuni vecchi generali e ufficiali a riposo per ferite che non avevano mai avute; alcune principesse russe con i loro medici; e palatine o castellane, con il loro giovane elemosiniere; un po' di Americani; qualche borgomastro dei dintorni; evasi da tutte le prigioni d'Europa; ciarlatani di tutti i generi; avventurieri di tutte le specie; abati di tutti i paesi; alcuni poveri sacerdoti, precettori di giovanotti di Liegi; alcuni arcivescovi inglesi con le mogli; venti malati che ballano come pazzi per tornare in salute; quaranta amanti, o pretesi tali, che sudano e si agitano; e sessanta donne che ballano il valzer, in gradazioni varie di bellezza o innocenza, abilità e civetteria, modestia e voluttà». Chevalier de B***: Della storia stupisce innanzitutto osservare come facilmente scompaia. I morti sono davvero abrasi, i loro monumenti spartiscono il traffico, i loro libri sono erbose tombe di campagna. Ogni volta, chi vive è il barbaro di ciò che è appena vissuto. Se fissiamo il passato, non incontriamo più che un riverbero testardo di immagini, un raspare di voci. E in mezzo vaste zone opache, senza suono. Gli invisibili ci sono grati se avvertiamo questa grave distanza, questa maestosa mutezza. Nulla disprezzano come coloro che trattano il passato con familiare cordialità. «Che cosa può fare ora il pensiero?» disse il Maestro. «Nascondersi» rispose, e scomparve. La conversazione è un'arte che i suoi grandi maestri, che le sue grandi maestre consideravano già perduta mentre parlavano. Il lamento di Madame de Stael su un certo tono ormai irrecuperabile prosegue, a distanza di decenni, quello di Madame du Deffand. Sarebbe dunque vano cercare un momento in cui quella labile essenza non si fosse già in qualche modo dissipata. Ma si può stabilire che cosa la dissipò per sempre. Furono i mariti come affermò Stendhal, con slancio commovente. Se si dovesse fissare in un tratto l'incommensurabile differenza di maniere fra l'età di Luigi Xvi e quella di Luigi Xviii si dovrebbe dire questo: che prima della ghigliottina le dame apparivano da sole in società, mentre già pochi anni dopo e l'avvio era stato dato da Napoleone, che «nel 1804 fece diventare di moda la pruderie» non era possibile vedere una giovane donna in un salotto senza essere «certi di scoprirne il marito che giocava a écarté in un qualche angolo. Questa presenza eterna e costante del marito, senz'altro lodevolissima e assai morale, diede un colpo mortale all'arte della conversazione...

Il marito reprime quell'abbandono dello spirito dal quale sgorgano le malizie, le allusioni delicate, i giochi di spirito, i quali, benché innocenti in sé, non possono fiorire in presenza dell': autorità stabilita dalla legge. Nello spirito, nella satira, nell'allegria, in breve nella commedia della società si manifesta invariabilmente qualcosa dello spirito di opposizione. Molti si prendono gioco dell'autorità stabilita: per loro natura, sono dei ribelli. Senza parlare del fastidio che dà all'estro l'eterna presenza della stessa persona. Come potreste raccontare una storia o narrare un aneddoto se siete a portata di voce di un testimone, il quale e voi lo sapete benissimo sta lì a spiare le fiorettature che voi aggiungerete per fare un certo effetto o per animare il vostro racconto? Come potreste inserire nel corso di una conversazione, con quell'aria di improvvisazione che ci vuole, le cose piccanti che avete raccolto durante il giorno, se siete sotto lo sguardo di colui che magari vi accompagnava? E' impossibile. Quando il marito apre la porta, l'arte della conversazione deve fuggire per forza dalla finestra». Talleyrand fu sempre circondato da donne che ignoravano i mariti, nel senso stendhaliano e spesso in ogni altro. Cominciò tutto a Reims, il giorno della sua prima grande uscita mondana: «Al sacre di Luigi Xvi risalgono i miei legami con varie donne notevoli per le loro doti di diverso genere, donne la cui amicizia non ha cessato per un solo momento di gettare il suo incanto sulla mia vita. Mi riferisco qui alla duchessa di Luynes, alla duchessa di Fitz-James e alla viscontessa di Laval». Alcune furono sue amanti, altre scomparvero negli anni, altre si aggiunsero, come se però fossero sempre state intorno a lui. Erano insolenti e avventurose, all'inizio; furono decrepite e leggere, alla fine. Ma sempre vegliarono come il corpo di guardia che tracciava intorno al Principe un cerchio magico di morbide stoffe. Fénelon si accorse presto di quanto fosse difficile essere un taoista alla Corte di Francia. L. esprit aveva appena rinnegato in sé quella potenza incontrollabile che ubi vult spirat e si presentava ora come un ibrido fra accanita studiosità e frusciante libertinaggio. Si trattasse di un'etimologia o di un pettegolezzo, tutto doveva essere assoggettato al suo rabbioso scrutinio. Era l'osservatorio invisibile, ma dal quale tutto si pretendeva di vedere. Immenso psicologo, che disprezzava la psicologia, Fénelon colse subito quale era il processo senza fine a cui i nuovi devoti dell'« io, che è il dio delle persone profane», si sottomettevano: un ingranaggio che li avrebbe fatti rotolare sino a Nietzsche e a Freud, sino a quegli inesausti genealogisti, in agguato sulla soglia di ogni nascita, di ogni storia, per svelare tutto (ma Nietzsche finì per vedere che tutto era velo). E dell'io, a quel punto, sarebbero rimasti soltanto i brandelli. Nessuno che seguisse quella via poteva mai acquietarsi, perché «il Signore non è nell'agitazione». Tutta la vicenda dei Lumi è anticipata da Fénelon in poche righe: «Chi volesse assicurarsi in ogni momento di agire secondo ragione, e non per passione o per umore, perderebbe il tempo in cui agire, passerebbe la vita ad anatomizzare il proprio cuore e non raggiungerebbe mai ciò che cerca: poiché non potrebbe mai essere sicuro che l'umore o la passione, camuffati sotto speciosi pretesti, non gli facciano fare ciò che egli sembrerebbe fare per pura ragione». Ai destinatari delle sue lettere Fénelon spiegava che non era tanto necessario mortificarsi e castigarsi (e soprattutto cedere agli «scrupoli») quanto compiere un atto ben più arduo: perdere ogni stima dell. esprit. Dove c'è l. esprit c'è l'io e «l'io, al quale occorre rinunciare, non è un non so che o un fantasma nell'aria; è il nostro intelletto che pensa, è la nostra volontà che vuole a modo suo per amor proprio». L' esprit si biforca in due soffi e due luci rivali: l'uno spegne subito la candela dell'altro. «I ragionatori, gli studiosi senza orazione spengono lo spirito interiore come il vento spegne la candela». «Ho sempre notato che la stima dello spirito è radicata nel vostro cuore e non la lasciate cadere. Eppure essa è proprio ciò che lo spirito di grazia spegne di più quando lo si lascia agire liberamente». Una sola immagine dominava il comportamento di Fénelon: l'acqua, un'acqua femminile, che non ha forma propria ma prende ogni forma sempre trasparente, priva di sapore. L'arcivescovo era l'acqua che scorreva negli interstizi di Versailles. Saint-Simon, che sapeva scrutare le fisionomie come Fénelon discerneva gli spiriti, vide il volto di lui come una superficie mobile e liquida: «Questo prelato era un uomo grande e magro, ben fatto, pallido, con un grande naso, e occhi dai quali il fuoco e lo spirito uscivano come un torrente, e una fisionomia tale che non ne ho mai vista altra ad essa somigliante, e che non si poteva dimenticare, la si fosse vista anche una volta sola. Essa raccoglieva in sé tutto, e i contrari non vi si combattevano. Aveva gravità e galanteria, serietà e allegrezza; vi si avvertiva il dottore, il vescovo e il gran signore; ciò che vi galleggiava, come anche in tutta la persona di lui, era la finezza, lo spirito, le grazie, il decoro e soprattutto la nobiltà». Non meravigli che questo sterminatore dell. esprit ne avesse tale dovizia, anche se era «un uomo che non voleva mai avere più spirito di coloro a cui parlava». Era questa infatti la sua arte della dissimulazione: nemico di «tutti gli estremi, anche nel bene», poiché essi «portano in sé la loro affettazione raffinata», ostentava tanto esprit per apparire più mediocre, più vicino al comune cortigiano, che per l. esprit in ogni attimo smaniava. Nella sua perfezione mondana, dinanzi alla quale Saint-Simon si inchinava, Fénelon aveva scoperto un veicolo che permetteva di trasmettere, intatto e in incognito, quel «fondo» di tutto, senza nome e senza forma, che l'intelligenza e la delicatezza continuamente dissipavano. «Nulla può eguagliare la cortesia, il discernimento, la piacevolezza con le quali riceveva tutti». Ma quella ospitalità senza macchia era il palcoscenico per un'opera di vasta distruzione: «Siate un vero nulla in tutto e ovunque; ma non bisogna aggiungere nulla a questo puro nulla. Sul nulla non si fa presa. E non può perdere nulla. Il vero nulla non resiste mai, perché non ha un io di cui si occupi». Osserva Saint-Simon che è «incredibile sino a qual punto ?Fénelon* divenne l'idolo degli uomini d'armi». I Lumpen, evocati da Stirner con stridore, si annidarono in ogni anfratto della società. Erano l'ombra della storia, l'innumerevole esistenza conculcata e muta, «l'immenso rinnegato di Ieri», che si intravedeva dietro l'incombere del «passato, che non vuole andarsene», che strappa lembi del presente «con le sue unghie nere» e «vomita la sua vecchia notte». Ma questo era solo l'inizio. Stirner non conosceva bene la natura, al di là di Charlottenburg. Quando i Lumpen vi si insinuarono, passando dal sottosuolo a intridere la terra molle, non riuscì più a seguirli. Tacque. Victor Hugo, il poeta della materia, che tale era diventato praticando lo spiritismo, prese il suo posto. L'epos degli straccioni fluttuava dalla sua bocca d'ombra. I tavolini che ballano avevano donato a Hugo una metafisica meschina, ma anche una piena di immagini che allagava tutto e mescolava le sue buone intenzioni alle intenzioni maligne di Maldoror, fino a raggiungere una corrusca neutralità. Nel vorticare delle metamorfosi ogni oggetto, ogni pianta, ogni ciottolo rivelava di essere un luogo di espiazione, ogni paesaggio un reclusorio, un reliquiario. Rispondendo al marchese Coriolis d'Espinouse, che deprecava di vederlo caduto «in pieno giacobinismo», Hugo insolentiva «le rhumatisme antique appelé royauté». Ma la sua era l'ilarità delle tenebre, squassante, e presupponeva un'apparizione:

«Tout le bagne effrayant des parias se lève». Nelle passeggiate di Jersey, fra le rocce e l'erica, avrebbe visto che quella galera dei paria era il cosmo stesso. «Oui, ton fauve univers est le for&at de Dieu. Les constellations, sombres lettres de feu, Sont les marques du bagne à l'épaule du monde». Il cosmo prosciugato dai rudi meccanicisti tornava ad animarsi, a inumidirsi di anime. Viveva in ogni festuca, ma come una sterminata prigione di larve. «L'archipel ténébreux des bagnes s'illumine». Gli esseri espulsi dalla convivenza, i Lumpen, i gueux, gli straccioni accoglievano ora come ospiti, in una più vasta dimora, i grandi e i re della terra. Caifa è un rovo, Pilato una canna, Alarico un vulcano «dalla gola scarlatta». «Les grains de sable rois, les brins d.herbe empereurs», tutti inchiodati in una forma palpabile, che geme e può essere anche una sedia o il bordo di una finestra. Hugo annuncia «l'universo paria». L'orecchio perfetto di Hofmannsthal avrebbe isolato, nei più che centocinquantamila versi del poeta, alcune parole da lui marchiate: fauve, hagard. Fauve è l'universo come «forzato di Dio». E, dopo una breve cateratta di altri versi, Hugo scrive: «L'univers est hagard». Parola della falconeria, hagard deriva da Hagerfalk, il falcone selvaggio, troppo feroce per farsi addomesticare. La mano del tempo ha guidato la parola a nuovi significati: «smarrito», «angustiato da una presenza sinistra», come i Lumpen, questi falchi selvatici che si aggirano per le strade della città. Ma ora quelle strade sono disegnate sulla volta celeste. Il Liber Mundi che il monaco contemplava aveva lettere luminose, nitidamente impresse. Ogni creatura era una copia trascritta dal grande Corano: il cosmo. Ogni erba del chiostro trovava il suo luogo in una pagina scritta, perché «la natura ha soltanto una scrittura» e a quella scrittura tutto si riconduceva docilmente. Ogni libro che si apriva sul leggio era in certo modo lo stesso libro, ogni lettera riempiva la cella di san Girolamo con un ronzio di corrispondenze, mentre il mite leone giaceva ai suoi piedi, custode di un'aspra savana di pergamene. Leggere era l'atto che assorbiva ogni altro, anche i gesti liturgici: nelle sillabe degli inni si riconoscevano stralci da una lettura delle stagioni, ricordi sfogliati delle rotazioni celesti. Sainte-Beuve era un giovane provinciale, spesso di umore lugubre, che aveva abbandonato gli studi di medicina perché gli si apriva una carriera letteraria. Dall'inizio aveva dato ascolto a ogni voce, ma non riusciva bene a capire che cosa significasse il verbo «credere». Eppure si accorse di essere abitato, come da un estraneo infido, da una «religiosità parassita». Impedito a qualsiasi fede, osservava in sé, con un certo stupore da naturalista, le vibrazioni della « sensibilità cristiana». Anche lui apparteneva a quella specie di uomini di cui scrisse: «Una vita sobria, un cielo velato, una qualche mortificazione nei desideri, un'abitudine raccolta e solitaria, tutto questo li penetra, li intenerisce e li inclina impercettibilmente a credere». Ma qualcosa che inclina a credere è ben diverso, è ben remoto da qualcosa che impone di credere. Nel suo caso, anzi, lo escludeva. Il Sainte-Beuve elegiaco, che fissava lo sguardo sullo spoglio cortile dietro il suo studio, diventava poco dopo il ròdeur che batteva le strade della grande città, divorato dal presagio di qualche morbidezza femminile; il railleur che traversava accortamente i cunicoli delle redazioni; il causeur che sapeva lasciar cadere la piccola goccia di compiacenza o di veleno. E qualcosa in lui dicev a che quella compagine di vizi formava lo zoccolo della civiltà letteraria, ammetteva soltanto la religione di se stessa. Con lo spontaneo cinismo dell'inventore di forme, Sainte-Beuve si servì a lungo di quella sua «sensibilità cristiana» per intonarsi a Port-Royal. Ma si trattava di una questione di orecchio, non certo di dottrina. Si era scoperto ad ammirare Bayle per una sua certa «indifferenza di fondo», per la sua capacità di muoversi su qualsiasi terreno, purché fosse tipografico. «Non ha paura delle mésalliances; va dappertutto, lungo le strade, informandosi, accostando la gente; la curiosità lo alletta e non si nega le delizie che si presentano». Una curiosità tanto più avida in quanto fondata su un'ultima indifferenza, un caso di fedeltà a un'insopprimibile infedeltà. Era uno scettico? O un mistico? Qualcosa, comunque, di quei tratti rimandava Sainte-Beuve a se stesso. Alla fine tutto dipendeva, in entrambi, da una sola esperienza: la lettura, quella smania insinuante che non mirava neppure più a ritrovare, nella trasparenza della pagina, i caratteri del Liber Mundi, ma si aspettava soltanto, da futili libri di ignoti, qualche futile risposta: «...Sauriez-vous pas, de grace, En quel recoin et parmi quel fatras Il me serait possible d'avoir trace Du long séjour que fit à Carpentras Monsieur Malherbe, ou de quel air Ménage Chez Sévigné jouait son personnage? Monsieur Conrart savait-il le latin Mieux que Jouy? Consommait-il en plumes Moins que Suard? Le docteur Guy Patin avait-il plus de dix mille volumes?». Ma un giorno Sainte-Beuve sentì che si stava avvicinando a qualcosa che sembrava essere il proprio punto di equilibrio. Una visione che non voleva avere e a cui si abbandonò per eccesso di stanchezza. Anche per lui, come per quei monaci che curavano erbari e in fondo non lo attiravano affatto, tutto era libro. Ma in lui la devozione liturgica si presentava come «indifferenza di fondo», disponibilità a leggere ovunque, senza scelta, senza disegno, senza riguardi, quei caratteri innumerev oli e ormai un po' sporchi, senza la speranza di incontrare in qualche luogo l'inizio o la fine del libro, che di fatto non sussistevano più: «Forse come dissimulata scusa per la mia indolenza, forse perché ora ho una percezione più profonda del principio che : tutto alla fine è lo stesso, sono arrivato al punto di considerare che, qualsiasi cosa io faccia o non faccia, che lavori nel mio studio a un'opera articolata o mi sparpagli in tanti articoli o mi disperda in società, che lasci divorare le mie ore dagli importuni, dai bisognosi, dagli appuntamenti, dalla strada, da chiunque e da qualsiasi cosa, comunque io non smetto mai di fare una sola e unica cosa, di leggere un solo e unico libro, libro infinito, perpetuo, del mondo e della vita, che nessuno legge sino in fondo, che i più saggi decifrano in numerose pagine; io lo leggo dunque in tutte le pagine che mi si presentano, a briglia sciolta, a ritroso, che importa! Ma non mi arresto mai. Quanto più ricco è l'impasto dei colori, quanto più frequenti sono le interruzioni, tanto più io m'inoltro in questo libro dove ci si trova sempre al centro; ma il profitto è di averlo letto aprendolo in ogni sorta di luoghi diversi».

Che cosa sono, per noi, i morti se non innanzitutto i libri? Fra tutte le forme della religione preistorica la più lontana, la più difficile da capire sembra oggi il culto dei morti, la loro presenza perenne in ogni evento della vita. Ma per un uomo arcaico la forma più lontana, la più difficile del nostro culto sarebbe l'uso dei libri. E l'una e l'altra forma, invece, convergono. Solidificati in mobili oggetti che ci accompagnano, ci parassitano, ci perseguitano, ci leniscono, i morti si sono stabiliti nella pagina scritta: il loro potere non si è mai attenuato, anche se ha subìto un mirabile mutamento.