IL GRANDE BALLO
Con il Congresso di Vienna una nuova dimensione dello spettacolo appare nella politica. In quel prolungato convegno mondano nessuno poteva credere che l'oggetto delle trattative fosse quello che tutti dichiaravano: il restauro della sovranità monarchica. Era invece urgente mettere alla prova per la prima volta in un ricco concertato quel linguaggio di copertura che avrebbe tanto contribuito a far procedere la politica nei decenni successivi. «Le grandi frasi sulla «ricostruzione dell'ordine sociale», sulla «rigenerazione dell'ordine politico dell'Europa», sulla «pace durevole fondata su una ripartizione delle forze», ecc., ecc., venivano recitate per tranquillizzare i popoli, e per dare a quella riunione solenne un'aria di dignità e di grandezza; ma il vero scopo del Congresso : era la spartizione fra i vincitori delle spoglie sottratte al vinto». Questo annotava Gentz nel suo memoriale del 12 febbraio per il principe di Caradja, ospodaro di Valacchia. Ma la spartizione delle spoglie fra i vincitori è ciò che segue a qualsiasi guerra: se un osservatore penetrante come Gentz sentiva il bisogno di precisarlo, era appunto perché egli aveva una oscura percezione che l'apparato del Congresso fosse la sua vera novità, ben più delle sue decisioni finali. Una nuova estetica della politica si stava lì dispiegando. E Gentz la avvertiva a tal punto che voleva ricordare, in limine, la persistenza, sotto la maschera delle grandi frasi e dei grandi balli, dell'antico, irriducibile oggetto della politica: la «spartizione delle spoglie». Metternich annotò in margine al memoriale di Gentz che quel testo risentiva della «peculiare leggerezza» dell'autore, al quale per altro riconosceva «le più rare doti intellettuali e un vero tesoro di conoscenze positive». Secondo Metternich, Gentz aveva il vizio di affidarsi troppo alle sue impressioni, «che spesso erano il risultato di conversazioni di società». Ma che cos'era il Congresso se non una continua e debordante conversazione di società, dove le spie e le dame avevano un ruolo funzionale non meno dei ministri e dei sovrani? Metternich lo sapeva come pochi altri, e lo conferma il suo giudizio ultimo su quel memoriale: « Tutto sommato, questo resoconto è esatto». Al Congresso di Vienna, per la prima volta in un incontro di potenti occidentali, ci si preoccupa del consenso dei popoli. La paura ha reso necessaria questa nuovissima cautela, che esige innovazioni di linguaggio e di maniere. Talleyrand, come sempre il più rapido nel percepire, potrà dire tranquillamente che al Congresso egli difendeva «la causa dei popoli». Come è potuto avvenire un tale rivolgimento? La storia, con estro, ha fatto precipitare il tempo all'indietro. Questi regnanti di antiche dinastie si presentano a Vienna come altrettanti parvenus del potere, usurpatori primordiali. Il morbo napoleonico li ha contagiati tutti. La sua opera più perversa è stata quella di annullare il lungo tempo attraverso il quale i monarchi avevano conferito douceur al loro potere. Ora appaiono tutti come sediziosi fortunati, che devono però sovrapporre un'artificiosa patina di storia alla crudezza del loro dominio. Perciò cadono tutti nella pania della legittimità, che Talleyrand ha predisposto. Perciò si lanciano nelle «grandi frasi» che dovrebbero tranquillizzare i popoli. Nella loro miopia, pensano che quelle frasi saranno sufficienti per andare avanti a lungo. Non calcolano che si tratta di parole drogate: chi le ha usate una volta dovrà usarle sempre di più, sempre più spesso, finché si imbozzolerà in quelle parole, finché dovrà esigere che quelle stesse parole siano usate dai sudditi, poiché nel frattempo esse sono diventate strumento obbligatorio del potere. Eppure qualcuno, pochi mesi prima dell'apertura del Congresso di Vienna, aveva descritto quella nuova traiettoria della parola, sino a dare ragguagli sui processi staliniani. : De l'esprit de conquete et de l' usurpation di Benjamin Constant era uscito dalla tipografia il 30 gennaio 1814:
«Il dispotismo mette al bando tutte le forme della libertà; l'usurpazione, per giustificare il rovesciamento di ciò di cui ha preso il posto, ha bisogno di quelle forme; ma nell'impadronirsene, le profana»..........«Il despota proibisce la discussione, ed esige soltanto l'obbedienza; l'usurpatore prescrive un esame derisorio, come preludio all'approvazione»..........«Non vi è limite alla tirannia che vuole strappare i sintomi del consenso»..........«E' l'usurpazione che ha inventato quelle pretese sanzioni popolari, quelle allocuzioni, quelle felicitazioni monotone, tributo abituale che in tutte le epoche gli stessi uomini prodigano, pressoché con le stesse parole, alle misure più opposte: in esse la paura scimmiotta tutte le apparenze del coraggio per felicitarsi della propria vergogna e ringraziare per le proprie disgrazie. Singolare artificio da cui nessuno si lascia imbrogliare! Gioco delle parti che non fa impressione a nessuno e che, da lungo tempo, avrebbe dovuto soccombere sotto le frecce del ridicolo! Ma il ridicolo attacca tutto e non distrugge niente»..........«Il dispotismo, in breve, regna col silenzio, e lascia all'uomo il diritto di tacere; l'usurpazione lo condanna a parlare, lo insegue nel santuario intimo del suo pensiero e, obbligandolo a mentire alla sua coscienza, gli rapina l'ultima consolazione che ancora rimane all'oppresso»..........«L'usurpazione avvilisce un popolo mentre lo opprime; lo abitua a calpestare ciò che rispettava, a corteggiare ciò che disprezza, a disprezzare se stesso e, se appena riesce a durare nel tempo, rende persino impossibile, dopo la sua caduta, qualsiasi libertà, qualsiasi miglioramento». Certo, queste parole descrivono innanzitutto il passaggio da Stalin a Bre"znev, ben più che la caduta di Commodo e gli effetti dell'Impero napoleonico, come Constant necessariamente credeva. Ma preannunciano anche il regno di quei paradossali usurpatori legittimisti che di lì a poco avrebbero intrecciato i loro sussurri al Congresso di Vienna.
Una delle verità più amare e incomprensibili per quei contemporanei, come Talleyrand, che erano nati ancora nell'epoca della douceur, quando il ridicolo uccideva, è quella che Constant annuncia quasi di sfuggita: «Ma il ridicolo attacca tutto e non distrugge niente». Qui egli nominava uno degli arcana imperii del sovietismo. E uno dei principali elementi di forza politica dei capi sovietici è stato appunto quello di averlo capito. L'eccesso del ridicolo, la sua quotidiana, indefessa produzione può condurre a neutralizzarne totalmente il potere distruttivo. E la perfezione si raggiunge quando le storielle antisovietiche diventano parte del regime. Quanto ai risultati, essi saranno tanto più fecondi e stabili se tutto questo si applica su una psiche come quella russa, la più virtuosistica Gogol e Dostoevskij lo hanno dimostrato nel «disprezzare se stessa». La teoria della legittimità, quale attraverso Talleyrand trionfa al Congresso di Vienna, poggia su due assiomi del diritto pubblico: «Che la sovranità non può essere acquisita per il semplice fatto della conquista, né passare al conquistatore se il sovrano non gliela cede». Il primo punto impediva però di risalire all'origine, perché la conquista getta fin laggiù la sua ombra: c'è sempre un autoctono conculcato. Il secondo punto non offriva una soluzione nei casi in cui la sovranità viene abbandonata senza essere ceduta: lì si apre una lacuna, una mancanza, come nella muta legge di natura rispetto alle convenzioni scritte che la sanzionano. Anche nella realtà politica c'è dunque bisogno di una sanzione e sarà «la sanzione dell'Europa». L'Europa si pone qui per la prima volta come una seconda natura, un corpo mistico («una comunità quasi mistica di Stati» scriveva Ferrero) che ha il potere di conferire la sovranità. In conclusione: si riconosceva che la natura non si estendeva nelle sue prescrizioni a tutti i casi della vita, ma doveva essere supplita e vicariata, talvolta, da una seconda natura, identificata nell'Europa. L'aporia a cui il Congresso di Vienna tentava di trovare rimedio era, prima che politica, epistemologica. Il rimedio politico fu un'accorta finzione; quanto all'epistemologia, poteva aspettare. Ma la scarsa plausibilità del tutto traspariva: anche perché il corpo dell'Europa non era «mistico» o non lo era più di quanto lo fosse Madame de Krudener, avventuriera della rigenerazione, che viaggiava con il vessillo della Santa Alleanza. Per coprire questo difetto cominciò presto a gonfiarsi, dopo il Congresso di Vienna, l'onda della declamazione in favore dell'Ordine, che è continuata, incessante, sino a oggi. A quelle acque mugghianti si mescolava poi, sempre più rabbiosa, la declamazione nemica, quella democratica e rivoluzionaria. Distogliendosi dalla contemplazione di quei flutti insipidi, Baudelaire raccoglieva sulle scogliere le fleurs du mal. Il diritto di conquista, che stabilisce la propria legge, rinvia all'arbitrarietà del segno linguistico. La sovranità legittima rinvia alla lingua adamica, al suono che dice il nome segreto delle cose. Ora, della lingua adamica non è stata mai ricostruita la grammatica. E la grammatica è l'azione del linguaggio. Il primato della praxis voleva cancellare persino il ricordo della lingua adamica. Ma il ricordo perdura più dell'azione.