DIETRO IL VETRO



Max Ophuls aveva tentato di farlo capire con molteplici allusioni nei suoi fotogrammi: una grata, un vetro, una persiana socchiusa, un pizzo, un tendaggio che l'obiettivo deve sfiorare. O anche solo un affastellarsi di oggetti che allontanano e accerchiano i personaggi. O anche la vasta frangia di oscurità che li avvolge. Poi, in una improvvisazione alla radio, aveva finalmente rimandato al testo che dice in brevi parole che cos'è l'immagine cinematografica: «Chi guarda dall'esterno attraverso una finestra aperta non vede mai tutte le cose che vede chi guarda una finestra chiusa. Non vi è oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso, più abbagliante di una finestra illuminata da una candela. Ciò che si può vedere al sole è sempre meno interessante di ciò che avviene dietro un vetro». E' il timbro di Baudelaire, ma anche di Ophuls, suo erede cinematografico. L'immagine sullo schermo appare nell'età in cui le immagini mentali tendono a invadere le strade e a trasformarsi in percezioni brute, accettabili da qualsiasi empirista. Nel corso di questa invasione alcune si impigliano nello schermo e lì continuano a condurre una doppia vita.

Il loro esoterismo, quello che è il fondamento del grande cinema, le vuole tenere in contatto sia con la loro origine mentale sia con il loro estremo sfociare sulle strade. Quest'ultimo è rappresentato dalla «finestra aperta» di Baudelaire, dall'illusione di una continuità fra dentro e fuori, di una vita che si ritrova intatta su due dimensioni. Ma l'altro percorso, che si volge all'origine, riconduce l'immagine sullo schermo all'immagine mentale, quindi all'immagine «dietro un vetro», che appare a «chi guarda una finestra chiusa». Il vetro della mente può essere la superficie dello specchio o la trasparenza del merletto o l'incorniciatura offerta dagli oggetti e dall'oscurità: tutti segnali di una distanza, impercettibile e incolmabile, tra il mondo e il suo riflesso, tra le due fonti perenni dell'immagine. «Dietro il vetro», la luce che emana dagli esseri e dalle cose non è più una luce di natura, ma la radianza della superficie stessa: la radianza di Psiche. E intanto «non è stata ancora analizzata la malattia di cui è morto Flaubert». Laforgue a Berlino si aggirava intorno a questo punto, mentre la sua voce scorreva sulle pagine che l'imperatrice Augusta lo pregava di leggere, saltando qua e là i passi impertinenti. Accettava con grazia il suo ruolo di dama di compagnia un po. clorotica, guardiano della noia come «l'orologio di una stazione deserta». Ma nella sua fisiologia i grandi termini filosofici, sempre altisonanti (la Volontà! la Rinuncia! Schopenhauer! Hartmann!), subivano una ricca mutazione, degenerando in figure di un atlante biologico. I concetti stavano acquattati dietro una lastra di vetro, non già volta all'iperuranio, ma sospesa nell'acquario di Berlino. «Davanti allo sguardo atono, sazio, savio, buddhista dei coccodrilli, dei pitoni (gli ofiti) ecc'. Come capisco quelle vecchie razze d'Oriente che avevano esaurito tutti i significati, tutti i temperamenti, tutte le metafisiche». E c'era qualcosa che andava ancora più in là: «l'ideale sono queste spugne, queste asterie, questi plasmi nel silenzio opaco e fresco, tutto per il sogno, dell'acqua». Era il pianoforte di Debussy che copriva un ormai esausto pensiero, corrodendolo sotto la sua fascia sonora.

In quell'«epoca critica in cui gli uni virano all'ironico e all'acido, gli altri all'insipido e al dolciastro, e altri ancora al grossolano», nella prima epoca ufficiale della borghesia, gli anni di Luigi Filippo e delle disillusioni, ecco scendere una cortina orlata di nero, seppure ancora trasparente, a separare il presente dal passato: il presente mette sì una certa soggezione, se non altro perché è grosso, massiccio, ma non ha più il decoro estetico della storia. Nasce una nuova dimensione dello squallore. Per la prima volta gli esseri delicati erano colpiti dal presagio che il mondo circostante potesse anche essere definitivamente brutto. Storia, all'opposto, qualcuno insinua, vuol dire: scene, costumi e rovinose passioni. E ogni storico, ormai, tende senza saperlo a trasformarsi in un incognito Luigi Ii di Baviera, che parla negli archivi ad alta voce con i Nomi. Lo spiritismo, dopo il 1848, diventa il fondamento anche degli studi più severi. Finché uno storico di oggi, Robert Darnton, riconoscerà in quel gesto, quasi fosse cosa ovvia, la vocazione peculiare della sua disciplina: «Lo storico si getta nell'impresa di ricostruire mondi lontani non già per un qualche strano impulso che lo spinga a frugare negli archivi e a setacciare vecchie carte, ma perché vuole parlare con i morti». Dopo la caduta di Napoleone comincia a circolare un sentimento insidioso e imprudente: che le passioni, i grandi gesti e la tensione perenne dell'anima appartengano ormai alla scena o al passato, ma non più agli eventi del giorno. Una inadeguatezza profonda, un colore diffuso di mediocrità sembrano accompagnarsi ora come una tassa a qualsiasi apparizione. Così ogni febbrile Julien Sorel fantastica sulle battaglie di Napoleone in quanto ultimo quadro del passato; e ogni Joseph Delorme nutrirà la sua ipocondria con il rifiuto del presente. Una nuova stirpe di esseri si preoccupa innanzitutto di eliminare ogni propria superficie aderente al mondo. Recidere lacci, allontanare il cuore, sabotare infine. Dal dandy al nichilista cospiratore, al giovane Barrès, all'esoterista candido o nero, a Luigi Ii, al fuggitivo verso Oriente, fra lo spleen e il livore, la silenziosa esaltazione e le percezioni esacerbate, appaiono ovunque punti solitari, tenui luci che formano la costellazione del disprezzo: sono le Pleiadi di Gobineau, i calenders, dervisci erranti che raccontano storie intrecciate, figli di re nati spesso in piccoli appartamenti, storpiati talvolta dalla fortuna. Si incontrano al tavolo di una locanda, nel loro inquieto grand tour, e lo scambio di poche frasi già li avverte: forse quello sconosciuto con cui hanno fatto appena conoscenza, quell'artista che non lascia cadere i capelli sulle spalle, che si veste come tutti, che obbedisce con naturalezza alle buone maniere, che nulla rivendica nel suo modo di apparire forse anche lui è un figlio di re. Così accadde, racconta Gobineau, che Conrad Lanze conobbe Wilfrid Ore sul battello di Arona, dopo aver salito il Gottardo fra la polvere e i rododendri, insieme a Louis de Laudon, da lui incontrato due settimane prima a Zurigo, dove erano stati «presi da un bell'amore l'uno per l'altro». Se dobbiamo davvero trovare una discriminante fra ciò che si può dire del moderno e tutto quello che incontriamo in ogni età precedente non sarà forse una certa capacità di farsi trascinare dalla forma o dal gesto, di ignorare il limite anche quando esplicitamente lo si difende, di invadere comunque ogni area riservata, magari con la scusa di custodirla da ogni oltraggio? Perché Joseph de Maistre ci appare tanto affine al suo odiato Voltaire, perché Pascal conversa da fratello con i più increduli moralisti? E' un certo : non guardare alle conseguenze, muoversi sulla spinta e col piacere del movimento vagante, rapace, sconsiderato: : eris palpans in meridie. Il tono equanime e bilanciato di Sainte-Beuve gli costava un continuo ingorgo degli umori neri nella circolazione: i capillari diventavano coralli velenosi. Recisi, li troviamo nel Cahier vert che Sainte-Beuve voleva cadesse «soltanto in mani amiche», e finora è caduto soprattutto in mani indifferenti. Pochi si sono accorti di quel «fondo di tavolozza molto nero e molto carico», che serviva ugualmente a fissare quei pettegolezzi che non si potevano pubblicare, per bienséance, e ad addensare qualche grumo di una confessione che non avrebbe mai potuto sciogliersi in un discorso, per bienséance. In compenso, quelle parole isolate celano, nel loro laconismo, un pathos che le sospende nel vuoto, o sul fondo del suo «arsenale di vendette», come gli scarni capitoletti dell'unico romanzo scritto da Sainte-Beuve: il Cauto Viaggio di un'Anima Delicata verso la Desolazione:

« Tutti i miei organi sono arrivati a un grado di usura e, per così dire, di assottigliamento tale che non mi permette più di premere su alcuno di essi». «...ultimamente, rileggendo Teocrito, ho sentito risvegliarsi in me : la mia anima pastorale, quell'anima dell'età dell'oro che tanti strati di bronzo, di terra e di piombo ricoprono...». «...il nostro cuore ha tutte le pelli del serpente, le sette pieghe doppie, come gli scudi impenetrabili». «Sono stato un giovane ladruncolo, sarò un vecchio pirata. Oh, quanto avrei preferito essere un buon gentiluomo letterario, che vive nelle sue terre in stato di poesia!». «Non vi è corruzione peggiore di quella dei teneri e dei mistici». «Sono il più vano e il più debole degli esseri; ed è proprio il combinarsi delle mie debolezze a darmi un'aria da saggio; ciascuna disfa l'altra». «Vivendo in una città immensa, in un secolo di ambizione sfrenata e corrotto, in mezzo a una letteratura dalle pretensioni insaziabili, dai vizi infami, oltraggiosa e piena di fango, mi sono applicato sin dall'inizio a spingere il più avanti possibile, dentro di me, la facoltà del disprezzo. «- poi, fatto questo, dopo un certo tempo non c'è più bisogno di occuparsene; si è già passati all'indifferenza». «Perché non amo più la natura, la campagna? Perché non amo più passeggiare per i piccoli sentieri? So bene che sono rimasti uguali, ma ora : non c'è più nulla dietro la siepe». Sainte-Beuve scriveva a Collombet, il 7 settembre 1847: «Chateaubriand è più muto che mai: sta nei sogni. La sua bocca fine sorride ancora, i suoi occhi piangono, la sua larga fronte in riposo ha tutta la sua maestà. Ma che cosa c'è là dentro e là sotto? E c'è davvero qualcosa?». Madame Récamier era ormai quasi cieca, dopo un'operazione fallita di cataratta, e viveva nell'oscurità. Fuori, le barricate del 1848, l'abdicazione di Luigi Filippo, proclamata la Repubblica. Il visitatore entrava a tentoni nel grande salone dell'Abbaye-aux-Bois, dove i mobili avevano composto per anni figurazioni geometriche e gerarchiche. Le persiane e le tende erano chiuse. Dalla porta, una lama di luce si allungava nella penombra, ma non bastava a guidare i passi, se la voce di Madame Récamier non veniva in aiuto, suggerendo di procedere verso il grande paravento che celava la sua poltrona. Chateaubriand sedeva accanto a lei, immutabilmente taciturno.