VEGLIA FUNEBRE PER MONTAIGNE
A Mademoiselle de Gournay spettava di piangere, per ragioni di cerimonia. Tutti gli altri conversavano, un tono appena più basso del consueto, ricapitolando e divagando: ah, le matrone romane, i medici assassini, i cavalli postali, le posizioni dei pollici, la nihilité della umana condizione, i cannibali, il retrobottega delle solitudini... E Montaigne, che i presenti consideravano assente né si erano preoccupati di rendere un superstizioso omaggio al suo volto, degnamente adagiato su un collaretto di Fiandra, accanto al suo libro, nella cassa di odoroso ciliegio, cominciò d'improvviso a interloquire, esigendo che gli si rispondesse, come vuole l'uso della conversazione nella onesta società. «E ora non diviene tutto immenso?» infine disse Sainte-Beuve, mostrando nello sguardo un bagliore di fanatismo che gli era affatto alieno e allarmò alcune dame che lo attorniavano. «Questa conversazione che noi ora conduciamo fra gli intervalli del silenzio non si arresterà mai. La presenza parlante fra noi del morto che stavamo seppellendo con onore ci addita che saremo costretti ancora per un tempo senza termine a commentare e ascoltare ogni nostro soprassalto d'umore. E l'eterno chiacchiericcio del particolare mi sbigottisce». «Proprio voi,» parlava ora dietro le sue spalle il vaneggiatore delle Soirées di San Pietroburgo «mio caro, che piangevate così bene in questa valle di lagrime, che accoglievate il Venerdì Santo con un doppio dìner chez Magny, che avete ascoltato con larghezza d'animo tutto ciò che fosse peculiare e concreto, legato al momento e alla discrezione... Proprio voi sentite ora per primo posarsi un velo maledetto su questi minuti piaceri, su queste vagabonde distrazioni dell'intelletto, ben più e ben prima che sui vasti fortunali della passione». Sainte-Beuve si volse e rispose: «Nulla è innocente, lo so bene e meno di tutto quel senso e piacere delle nuances che ci ha sempre mossi, dentro il quale ci siamo sempre mossi... Ma in fondo, anche quando stavate con il Cavaliere e il Senatore sulla vostra terrazza, davanti alla Neva, le vostre parole proseguivano i nostri sussurri da cabinet de lecture e solo cambiava lo sfondo, che voi volevate oscuro e barbarico, nell'attesa di una folgore dal cielo... Mentre noi, per delicatezza, per incertezza, ci avevamo dall'inizio rinunciato. E oso insinuare, ora, che la folgore e i sussurri si intrecceranno a lungo... Nulla di netto ci attende». Nel rispondere, il tono di Sainte-Beuve era lentamente declinato verso quello più noto alle sue amiche, e anche era ricomparsa la sua espressione di vecchio, soffice gatto. Solo intorno alle orecchie un rossore lo tradiva. Ma presto la conversazione riprese da più parti, e divenne indistinta.
Molto più tardi si alzò una figura magra e severa, vestita con incuria, e disse come per concludere: «Confessioni senza rimorso, a nessuno rivolte, per svago, per gusto, per noia: da quando avete cominciato a uscire dalla torretta di Montaigne, bistrata di epigrafi, da quando vi siete dissipate nel mondo, per caffè, salotti, mansarde e sottoscala, la vegetazione ha coperto ogni retto sentiero: ibidem è cresciuta una foresta spessa, cupa, venefica mortale per tutti i sognatori che si sono assopiti entro la sua vasta ombra. Bosco di morte, simile a quel lugubre recinto di mirti e cipressi nominato da Virgilio ( Secreti celant calles...), tortuoso soggiorno dei suicidi, dove in silenzio, con occhio silvestre, molti nostri cari sprofondarono, fissando con disprezzo, come Didone, il prudente Enea, che non citava l'Io, ma lo aveva fasciato in un sicuro fagotto (: atque inimica refugit in nemus umbriferum). Chi poteva avervi chiamato a quell'oscurità, se non l'attrazione di un particolare, di una singolarità irriducibile, e anche indicibile, intorno a cui amavate vagare, dove vi inoltravate, testardi guardiani, come marmotte fra i loro sassi spigolosi? Chi era portato a quella vita fu dedito sin dall'inizio al discontinuo, nemico di ogni aequalitas, osservatore (adoratore?) di forze abrupte, incapaci di un lungo respiro che involge ogni parte. Soffi, nastri, piccoli punti, sporadi, crepe, tremori dell'udito, esasperate nostalgie; a poco a poco avete trasformato voi stessi nel fondo di un cassetto...».
Disse Jafar Sadiq (ob. «La nostra causa è un segreto velato in un segreto, il segreto di qualcosa che rimane velato, un segreto che solo un altro segreto può insegnare: è un segreto su un segreto che si appaga di un segreto». o***: Eravamo nella sfera di vetro della stazione. Pietroburgo, ho ancora gli indirizzi, lì troverò le voci dei morti. Aria umidiccia dai parchi ammuffiti, odore di serre abbandonate e rose rampanti nelle aranciere. E incontro avanzano le grevi esalazioni del buffet, il sigaro acre, le guarnizioni bruciate dei vagoni e il maquillage della folla. Il pensiero: disperdetelo, fatene scempio, perché torni a ricordare la sua esistenza furtiva e letale. Letteratura, quante incresciose funzioni ti furono attribuite, come a donna inattendibile, avida di vestiti, lo potrai ospitare, ogni tanto, quell'essere che non frequenta più i testi di filosofia e ancora è muto negli algoritmi? Allora forse si potrà dire di nuovo: «Ho gettato la mia vita a tutti i venti del cielo, ma ho mantenuto il mio pensiero. E' poco, è tutto, è nulla, è la vita stessa». Quando era studente a Konigsberg, lo avevano condannato due volte per furto. Fu poi «domestico» e segretario, poi amante della duchessa Anna, poi autocrate, appena Anna divenne imperatrice. Trattava i russi come schiavi delle piantagioni. Il suo nome era Ernst Johann von Buhren, piccola nobiltà baltica, ma amava far credere di chiamarsi Biron, quale discendente della illustre famiglia francese. Dopo aver avviato tanti alla deportazione, fu deportato anch'egli con la sua famiglia, i suoi fratelli e alcuni amici, sotto l'accusa di «recidiva lesa maestà». Riapparve dalla Siberia per volontà dello zar folle Pietro Iii, insieme alla bella Lopuchina, che aveva avuto la lingua strappata, e molti altri, fra cui il suo mortale nemico, il maresciallo Munnich, che per Biron aveva fatto costruire a Pelim un carcere dove poi fu rinchiuso anch'egli per vent'anni. Lo zar voleva che Biron e Munnich brindassero dinanzi a lui. Alzò il bicchiere, poi si allontanò perché gli avevano sussurrato qualcosa. Allora «quei due vecchi nemici restarono l'uno di fronte all'altro, ciascuno con il bicchiere in mano, senza dir parola, con gli occhi fissi sul punto dove l'imperatore era scomparso; e poco dopo, ben felici al pensiero che li avesse dimenticati, tutti e due si fissarono, si misurarono con gli occhi e, restituiti i bicchieri ancora pieni, si voltarono le spalle». Pietroburgo si affollava di «gente interessante, almeno per le loro lunghe sventure», revenants per il benigno capriccio di Pietro Iii. E subito si facevano condurre «in vasti magazzini dove, secondo l'uso del paese, vengono conservati tutti i beni confiscati, tristi depositi delle rovine del favore, dove si vedono, disposti secondo l'ordine dei tempi, tutti i relitti di questi celebri naufragi. Essi andavano cercando nella polvere i loro mobili preziosi, le loro onorificenze con diamanti, i doni con i quali un tempo persino alcuni regnanti avevano acquistato il loro credito; e troppo spesso, dopo inutili ricerche, li riconoscevano addosso ai favoriti dell'ultimo regno». Rulhière vide Biron vagare a Pietroburgo: «Nelle notti d'estate era quasi il solo a passeggiare per le strade di questa città dove aveva regnato, e dove tutto ciò che incontrava aveva da chiedergli conto del sangue di un fratello o di un amico». ***: Più che pensieri, sono lembi di pensieri. Come i ricordi, lancinanti perché mai posseduti: si avvicinano e si perdono, creste dell'onda mnemica. Non tollerano abbondanza di connettivi, aspirano alla lacuna, un vuoto in cui respirare fra l'uno e l'altro, come avviene nella loro vita di memorie. Che siano memorie di altri (di quali altri?), proprie, adespote, oltre una certa soglia si confonde e non torna più a sceverarsi. Convivono, ormai, nello stesso pulviscolo parlano fra loro come i ritratti di una dinastia in un lungo corridoio poco illuminato.
Il Passagen-Werk, questa «vecchia provincia, in certo modo ribelle, mezza apocrifa dei miei pensieri», doveva trarre il suo «tono», come Benjamin accennò in una lettera a Scholem, dal pezzo sui francobolli della Einbahnstrasse. Là si parlava di quei collezionisti «che vogliono occuparsi solo di francobolli stampigliati» e sono forse «gli unici a essere penetrati nel mistero», poiché la stampigliatura è «la parte occulta del francobollo», il suo «lato notturno». La storia, quale viene presentata dagli storici ortodossi, era per Benjamin un francobollo non stampigliato insipida nel suo nitore. Mentre il timbro che «copre i volti di striature sanguinose» e spalanca «voragini attraverso interi continenti» è l'invisibile mano del tempo che sovrappone a un paesaggio di palme tropicali l'arbitrio di un segno nero e indelebile. Ed è proprio questa ferita a esaltare l'eros del francobollo e della storia, che ci incanta nel suo «bianco vestito di tulle, guarnito di pizzi: la dentellatura». Il passaggio dal sogno alla veglia era segnato per Benjamin dal pettine, che si apre una strada nell'intrico dei capelli arruffati dalla notte. «Pettinare: il pettine al mattino è la prima cosa che scaccia i sogni dai capelli.
Pettinare è un'opera della madre» disse a Frànkel, che lo assisteva in una seduta mescalinica. La resistenza offerta al pettine è quella delle capigliature «indéfrisables» che i parrucchieri dei passages esponevano nelle loro vetrine. Occorre avvicinarle con astuzia, perché «con astuzia, non senza di essa, ci districhiamo dalla regione del sogno».
Così il pettine di cui parla Benjamin sarà l'attributo delle Sirene, il Pecten Veneris, lo >kteis, al tempo stesso «pettine» e «vulva», il pettine che appariva nei misteri di Themis. Per la sua qualità femminile, è un pettine che districa e insieme accoglie i sogni.
L'astuzia usata da Benjamin è quella di un Ulisse che non soltanto ascolta le Sirene ma usa come arma il loro oggetto cerimoniale, prendendolo come guida per uscire dal sogno, pur senza rinnegarlo, in un patto di complicità. Letteratura è quel lento, cauto, astuto farsi strada del pettine: «nel pettine c'è una consolazione, un rendere non avvenuto ciò che è avvenuto». Come un vero gnostico, abituato alle persecuzioni e ai camuffamenti, Benjamin voleva nascondersi sotto la cappa del materialista storico e farsi perseguitare in quanto tale, per potere poi, indenne, sopravvivere in quanto gnostico. Ma ogni anima di poliziotto è addestrata innanzitutto a riconoscere il foetor gnosticus, c'è sempre uno zelante pronto a individuarlo, nel suo ufficio della Enciclopedia Sovietica: Benjamin, a Mosca, non subì che vessazioni. Disteso sul letto, in una misera camera, sgranocchia noci zuccherate e legge Proust, custodito dalla sua invincibile, dolorante infanzia.
Marianne North donò nel 1879 ai Royal Botanic Gardens, Kew, 832 dipinti a olio che raffiguravano fiori e piante da lei incontrati in Brasile, Nuova Zelanda, Borneo, Cile, India, California, Australia, Singapore, Giamaica, Teneriffe e altri luoghi. Furono appesi a distanza minima l'uno dall'altro, come in un Teniers o in un gigantesco album di francobolli. Folti e tenui fregi incorniciavano le finestre dell'alto ballatoio che girava intorno alle due sale (nei giorni di maltempo la luce si spandeva con avarizia sugli splendori tropicali); le pareti erano rivestite da pannelli ritagliati fra i 246 tipi di legni che ella aveva raccolto nei suoi viaggi. Alcune zone erano intarsiate a fiori.
Fra le piante dipinte erano comprese le quattro che ora sarebbero state accompagnate dal suo nome: Northea seychellana, Nepenthes northiana, Kniphofia northiae, Crinum northianum. Un solo suo desiderio non fu appagato: in quelle sale, che erano come un'isola di specchi in mezzo al parco, avrebbe voluto che si servisse il tè. Ma le Autorità Botaniche non lo consentirono. «No refreshments in Kew Gardens...». Marianne North intitolò i due volumi delle sue memorie : Ricordi di una vita felice. L'arte di Talleyrand appartiene alla metamorfosi, quindi alla mostruosità. Il moralismo sentimentale del secolo Xix non riuscì a coglierla: non bastano la corruzione e i voltafaccia politici per attingere alla mostruosità. Ma un occhio fra i più femminili che si siano posati su Talleyrand, quello di Aimée de Coigny, seppe riconoscere il momento pauroso e delicato dei suoi cambiamenti di pelle: «Come le fate di cui ci parlavano nella nostra infanzia, che per un certo periodo di tempo erano obbligate a perdere le forme scintillanti che le rivestivano per assumerne altre, questa volta repellenti, Monsieur de Talleyrand va soggetto a improvvise metamorfosi che non durano, ma sono spaventose. Allora la vista delle persone per bene lo infastidisce ed egli diventa odioso con loro. Temevo, non so perché, di trovarlo in questo stato che chiamo il suo stato di muda e fui gradevolmente sorpresa di vederlo affabile e aperto». Léon Daudet, quando Edmond de Goncourt lo chiamava ancora «grand gamin», ma ostentava già il tòcco di velluto nero degli studenti chic, sognò Charcot che gli portava alcuni pensieri di Pascal e al tempo stesso gli additava in un cervello che teneva con sé ed era il cervello di Pascal.
«le cellule che quei pensieri avevano abitato, assolutamente vuote, e simili agli alveoli di un'arnia disseccata».