ANNA

«Prego…? Con l’H, giusto…? Lei è un familiare?»

«Mia madre avrebbe potuto essere sua figlia.»

Avevo smozzicato le parole. La persona della reception ha dovuto pensare che andavo a trovare il nonno.

«Terzo piano, camera 313», ha tagliato corto, sollevando con aria esasperata il ricevitore del telefono che non smetteva di suonare.

Quando l’ascensore si è aperto, ho visto un uomo su un letto di ferro, caviglie e polsi immobilizzati da cinghie. Ho scorto sulla pelle dei lividi violacei. Aveva gli occhi chiusi, ma ruotava la testa sul guanciale, a sinistra, a destra, come per liberarsi d’un dibbuq che lo tormentava.

H.?

No. Attraverso l’oblò della 313, ho intravisto un uomo di alta statura che se ne stava seduto ben eretto e osservava la parete davanti a sé. Ho pensato che non pareva ammalato – anche se doveva per forza esserlo, visto che si trovava lì – e che ispirava soggezione. Mi sono sentita prendere da un misto di timidezza, ansia e disagio, cui si univa anche un sentimento di assurdità. Io, giovane studentessa di medicina, ero lì clandestinamente, dietro quella porta, a osservare a sua insaputa un ottantenne sconosciuto che era stato l’amante di mia madre. E, come se ciò non bastasse, portavo la lettera di una morta a qualcuno che probabilmente non avrebbe mai potuto leggerla!

C’era ancora il tempo di fare dietrofront. Ho abbassato la maniglia e, in punta di piedi, sono entrata. Sembrava non vedermi. Il suo sguardo era fisso e spento. Portava una giacca di tweed e pantaloni di velluto che contrastavano con la tenuta degli altri malati. Anche le sue mani erano immobili, incrociate su un ginocchio, l’una sull’altra.

«Buongiorno…» ho detto a voce bassa.

Dato che continuava a non prestarmi la minima attenzione, ho ripetuto più forte:

«Buongiorno… Io… sono…»

Ha girato lentamente la testa e – era un’impressione? – mi è parso che nel suo sguardo si accendesse una luce. Non sapevo come cominciare. Ero paralizzata. Seguì un silenzio lunghissimo. Stavo per aprire bocca quando ho visto che era sul punto di parlare.

«L’aspettavo.»

Quattro note di violoncello. Quattro colpi di archetto. Staccati. Senza esitazione.

Per quanto non l’avessi mai sentita prima, ho riconosciuto la sua voce. La sua «gravità». E, così come la musica viene percepita prima delle parole, ho registrato il senso dopo il timbro. Ci ho messo qualche secondo a capire.

«Ma…»

«…Ti aspettavo», ha ribadito passando dal lei al tu, con il tono di chi non ama essere costretto a ripetere.

Ho capito che mi scambiava per lei.

«Io… io sono la figlia… So che le assomiglio, me lo dicono spesso…»

Ma lui non replicava. Mi fissava in modo strano mentre io tormentavo i manici della borsa. Attraverso il cuoio morbido sentivo lo spesso fascio di fogli piegati in quattro vicino all’agenda. La lettera. Per spezzare il silenzio, ho finito per tirarla fuori e gliel’ho tesa.

«Sono venuta a portarle questo…»

Tutto era immobile in lui, che continuava a guardarmi come se vedesse qualcosa dietro il mio viso.

«È per lei», ho insistito spiegando i fogli. «Una lettera che le…»

In quel momento ha teso la mano verso di me. Ma non per prendere le carte. Ha puntato l’indice nella mia direzione e detto in tono teatrale:

«Penso che sia bene giungere a una rottura».

«...Prego?»

Ha ripreso più forte e con lo stesso tono un po’ infastidito di prima.

«Penso che sia bene giungere a una rottura…

Promettervi vorrei mille volte il contrario,

quando non mi trovassi in potere di farlo

Non me l’aspettavo. Continuava a fissarmi con insistenza. Come se toccasse a me fare il passo successivo. D’un tratto capii. Era evidente che aspettava la replica. Che io recitassi la mia battuta.

«…Sono la figlia», ho ripetuto allora in modo meccanico.

Che altro dire? Non ero né mia madre né Celimene e me ne sbattevo del Misantropo. In quel preciso istante tentavo di immaginare cosa potesse essere accaduto a H. A poco a poco, mio malgrado, mi tornava alla mente il corso sulle patologie cerebrovascolari. «Infarto dei territori critici responsabili di una demenza»… Mi ricordavo che in funzione della localizzazione delle lesioni – sistema limbico, talamo, corteccia associativa… – i sintomi potevano evolversi fino a una situazione di demenza acuta. Pareva essere questo il suo caso. Lo strano termine «leucoaraiosi» mi fluttuava nella testa, ma non mi era certo di aiuto.

Quando ho di nuovo incrociato il suo sguardo, era cambiato. Ormai i suoi occhi imploravano. Mendicavano, quasi. Impossibile rimanere insensibili a una simile preghiera. Un medico, anche alle prime armi, non desidera forse sempre rispondere alle attese di un paziente? Dopotutto le mie battute erano lì. Ce le avevo in mano. Bastava ritrovare il passaggio…

Ho sfogliato le pagine e poi ho fatto un passo verso H. Ho detto con aria di rimprovero:

«È dunque, a quanto pare, per farmi un predicozzo

che vi siete proposto di accompagnarmi a casa?».

H. si è rianimato.

«Io non prèdico affatto. Signora, il vostro cuore

Lascia al primo venuto troppi varchi socchiusi:

Son troppi i pretendenti che vi ronzano intorno

e di questo il mio cuore non si può compiacere.»

Da quell’uomo si sprigionava una forma di magnetismo. Come se, declamando quei versi, si riallacciasse a qualcosa di molto antico. Come se la letteratura lo riconnettesse con sé stesso. Ho continuato sorridendo:

«Dei miei corteggiatori sono forse colpevole?

Posso loro impedire di stimarmi graziosa?

E quando per vedermi fanno tanti bei passi,

devo cacciarli via con un bastone in mano?»

Era divertente, in fondo. La falsa ingenuità di Celimene. Il gioco del gatto con il topo…

A un tratto, tuttavia, ho provato un senso di disagio. Perché mi prestavo così facilmente a quel gioco? Ero davvero il medico che rispondeva alle attese del paziente? O, più profondamente – più perversamente? – la figlia che s’insinuava nella pelle della madre per rappresentare ancora una volta, in incognito, la scena primaria?

Quanto a H., lui non sembrava turbato. Riprendeva con piglio sicuro:

«Signora, m’accusate d’esser troppo geloso,

ma voi cosa mi date, di grazia, più che agli altri?».

Lì mi sono fermata. «La gioia di sapere che da me siete amato» era troppo. Quello non potevo dirlo. Molière, il violoncello, basta così. Non avevo fatto tutti quei chilometri per… Era il mio turno di guardarlo negli occhi. Il mio turno di supplicarlo:

«Mi parli di lei…».

Ha mutato espressione, come destabilizzato. Poi:

«Non penso che si possa passare la vita a odiare o ad aver paura…».

«Mi parli di lei…» ho ripetuto con voce più ferma.

«Era l’autunno dell’anno 1803. Uno dei più belli del primo periodo di questo secolo, a cui diamo il nome d’Impero

Non ne potevo più. Stavo per mettermi a piangere.

«Mia madre è morta… È morta», ho detto scandendo le parole sillaba per sillaba.

«Non è grave… Del resto, io ho smesso di fumare…»

Ha aperto le braccia e ha detto:

«Vieni…».

Ho rimesso la lettera nella borsa e sono uscita dalla stanza. In punta di piedi.