ANNA

C’è una cosa che ricordo benissimo. La sua miopia. Le persone che incrociava senza riconoscerle. Le targhe delle vie che decifrava solo quando si trovava a pochi centimetri di distanza. Le stazioni della metropolitana che indovinava basandosi sulla forma generale del nome, Sèvres-Babylone, Alma, Trocadéro…, un po’ come quando si impara a leggere.

Ma non erano cose che le dessero fastidio. A parte quando guidava o al cinema, mia madre non portava occhiali. Non era civetteria. Piuttosto un modo d’essere. Aveva bisogno di quella delicata foschia che, per un occhio miope, avvolge ogni cosa come un velo. Niente di marcato, nessuno spigolo tagliente. Viveva in un mondo attenuato. Nessun dettaglio superfluo ingombrava il suo sguardo.

«Quando cammino per Parigi, vedo solo l’essenziale», diceva. «Proporzioni, prospettive, linee di fuga… Anche i volti mi sembrano più armoniosi. Guarda quella donna laggiù, la bionda con il cappotto verde», mi aveva detto un giorno in metropolitana. «Vista così, mi fa pensare a un Botticelli. Perché dovrei “correggere” la mia visione? Sono sicura che, se tu adesso mi dessi un paio d’occhiali, il mio Botticelli si trasformerebbe in una testa cubista!»

«No, credimi. Noialtri miopi abbiamo la grande fortuna di vedere il mondo come non è.»