ANNA

«Cos’è successo in seguito?»

«Siamo tornati a Parigi. Ho capito molto presto di avere perso la partita. Volevo rivederla. Lei mi fissava degli appuntamenti che rimandava continuamente. Mi sono messo a fantasticare sul suo H. Lo vedevo vestito di grigio, intento a suonare il violoncello in una dimora molto buia. Isolato dal mondo. È curioso, me lo figuravo nella casa dei miei nonni! Era vecchio, sì, ma nello stesso tempo molto potente, visto che aveva avuto successo là dove io avevo fallito.

«Trovavo delirante quella relazione? No, perché sua madre mi aveva fatto leggere Biglietto scaduto di Romain Gary. Avevo analizzato il romanzo in ogni singolo dettaglio, finendo per capire che quanto lei tentava di dirmi era semplicemente questo: “Non posso fare altrimenti”.

«Il risultato fu che mi trovai quasi a invidiare la loro relazione. Quell’uomo finivo per vederlo come un compagno, immagini quant’ero cavalleresco! Capivo che Marie avesse potuto innamorarsi di lui e soprattutto sino a che punto era perduta. Penso di non dirle niente di nuovo… Lei aveva una forza falsa. Una forza di superficie e un abisso interiore. Ora, c’era fra loro quella connivenza intellettuale e artistica… Credo che poi lui sia diventato uno scrittore famoso… In breve, quella connivenza faceva sì che l’aspetto fisico non fosse più importante. E poi le storie impossibili sono sempre così romantiche. In questa c’era un che di disperato che mi piaceva molto. Di nuovo, mi dicevo: “È questione di tempo”. Quella che immaginavo era la vita di lui. La sua vita senza di lei dopo. Il buco.»

«Perché dice che era perduta?»

«Fra sua madre e le persone della sua età c’era un baratro. La vita le sembrava una cosa incomprensibile. Lei non era mai al suo posto, anche se aveva successo, e aveva successo perché voleva apparire perfetta. Era brillante, ma come dire a chicchessia che era perduta? Nessuno le avrebbe creduto. Era il suo dramma. Le sarebbe servito un giovane e bell’innamorato – e, mi creda, ce n’erano un bel po’ che le gironzolavano attorno, il suo carnet di ballo era sempre al completo – ma era lui e lui solo a capirla. In mezzo a quel caos indecifrabile, le diceva chi era lei. Era – scusi il brutto gioco di parole – il suo professore dell’essere. Le mostrava le pietre su cui posare il piede per attraversare il guado della vita. Per attraversarlo nel modo meno peggiore possibile grazie alla bellezza, alla musica, “l’arte che protegge dalla verità che uccide”.

«Rammento che per me, all’epoca, lui aveva finito per identificarsi con lo stesso Romain Gary. Ora, a ventidue anni, non ci si può battere contro Romain Gary! Avevo un bel dirmi che era vecchio e malato, che il suo biglietto era scaduto; avevo un bel ricordarmi dei pianti di Acapulco e di poter essere il cavaliere che avrebbe liberato la Bella prigioniera della Bestia… La realtà era che non avevo ancora colto quella polarità che la portava a essere tenacemente attaccata a lui e al tempo stesso, con altrettanta forza, la spingeva a lasciarlo.

«E poi c’è un’altra questione. Gliel’ho detto, avevo ventidue anni e non mi passava neppure per la testa che a cinquant’anni avrei potuto innamorarmi di una ragazza di diciotto. Oggi sarebbe diverso. Mi sono spesso raffigurato quest’uomo, le sue lezioni, il giorno in cui lei è andata a parlargli faccia a faccia per la prima volta. Ho immaginato cosa lui deve aver provato in quel preciso istante. Dev’essere talmente inebriante veder arrivare una ragazza che ha trentadue anni meno di te… una ragazza che viene… be’… uno si domanda se non si sta sbagliando. Se ha sentito bene. Se ha capito bene. Devono essere momenti straordinari.»