ANNA

«Avevo deciso di lasciarti. Una decisione… razionale.» Queste frasi troppo semplici mi ballavano in testa. Dovevo credere che mia madre avesse veramente sacrificato H. sull’altare della ragione? Le era bastato volere per agire? Come ci si stacca?

Mi ero spinta così addentro in questa storia – la preistoria insospettabile della nostra vita familiare – che sentivo il bisogno di andare sino in fondo. Capire come si passi dall’attaccamento allo strappo. Come si superi la fine del primo amore. Ci si riprende veramente? Cosa si fa dei resti, briciole, frammenti, schegge taglienti? Bisogna seppellirli o lasciarli affiorare? Che impronta lasciano? Che cicatrice psichica?

Mi sarebbe tanto piaciuto fare queste domande a mia madre nel momento in cui mi sforzavo di non pensare più a Hadrien. Lei mi mancava, sì. Con il procedere della mia ricerca, avevo l’impressione che la sua assenza crescesse dentro di me, come un albero.

Una sola persona poteva aiutarmi. Erano anni che non vedevo Laurent, ma l’ho riconosciuto subito. Laurent, il testimone, il compagno di stanza di mio padre alla Normale Sup, l’amico di sempre. Era ancora identico a come appariva sulle foto del matrimonio dei miei genitori. Un Casanova dagli occhi chiari e dal sorriso assassino.

Si complimenta con la «ragazzina che si è fatta donna». Poi mi interroga. Mio padre, Singapore, si trova bene in quella sede? E la medicina, che anno, specializzazioni in vista? Signorina, per favore…? Cosa prendi?

Parla con dolcezza e, quando gli dico la ragione della telefonata, sorride.

«L’incontro dei tuoi genitori? Ma devi averlo già sentito raccontare mille volte! No? Un giovedì sera, venticinque anni fa… La mensa della Normale era in sciopero e, tu sai com’è tuo padre, sempre di corsa, decidiamo di cenare al fast-food di rue Soufflot. Ora, mentre facciamo la fila, una ragazza dagli occhi azzurri viene verso di lui. Gli si fa anzi molto vicina. Fissa il giornale che lui ha sottobraccio – più tardi ho saputo che era miope – poi dice: “Può prestarmelo un momento?”.»

Laurent mima la scena, l’indice puntato, lo sguardo interrogativo. In effetti, questa sequenza la conosco. Fa parte della leggenda familiare. Mia madre è in febbrile attesa che esca il suo articolo e, quel giorno, miracolo: eccolo là, stampato, una minuscola porzione di colonna – qualche riga, qualche segno – ma con le sue parole, le sue frasi, le sue iniziali. Il suo primissimo pezzo! «Dovevo avere sulla faccia un sorriso intrigante», raccontava spesso mia madre quand’ero bambina, «perché il proprietario del giornale mi ha chiesto se vi si parlava di me, se avevo vinto in borsa, se giocavo al lotto… Insomma, avevo stuzzicato la sua curiosità. Mi ha fatto ridere. Si è avviata la conversazione. Bach, Brahms. Sei mesi dopo eravamo sposati.»

Quando ero più giovane mi piaceva ascoltare questa storia. Non mi stancavo di sentirla raccontare. Giocavo a what if, e se... E se quel giorno la mensa non fosse stata in sciopero? E se l’articolo fosse apparso una settimana dopo? Una cosa non sapevo però, e cioè che l’ombra di H. era presente anche quella sera. H. che aveva riletto e approvato il pezzo poi pubblicato. H. che in tal modo, senza volerlo, aveva contribuito a guidare mia madre verso colui che gli sarebbe succeduto.

Un’altra cosa che non sapevo era che quel giovedì mia madre, in pieno lutto per H., usciva da una seduta con il dottor P. Per l’ennesima volta doveva avergli ripetuto l’impasse in cui si dibatteva. La sua decisione di uscirne. La sua decisione «razionale». E poi l’assenza, il vuoto, la mancanza. La trappola che si era chiusa su di lei. La sua vita bruciata. La sua disperazione… Poteva avere sentore che un quarto d’ora dopo, ai piedi del lussuoso palazzo del dottor P., mentre stava in coda in un McDonald’s, e con un ragazzo di tre anni più giovane di lei, tutto sarebbe improvvisamente cambiato?

«Era un perfetto momento di ipnosi», ha proseguito Laurent. «Sai, quei momenti un po’ stupidi ma che ti lasciano a bocca aperta, in cui credi di scoprire che l’altro, i suoi gusti, i suoi slanci, i suoi desideri sembrano fatti apposta per adattarsi ai tuoi. Come se al primo colpo si fosse pescata la tessera giusta del puzzle. Come se nell’Altro si rivelasse un altro Io. Davvero, le piace Bach? Anche a me. La ciaccona? Uno dei miei pezzi preferiti! Andrà a sentire Ojstrach domenica? Non è possibile! Anch’io avevo in mente di andarci! E così via… Era la prima volta che assistevo a un colpo di fulmine in diretta. La stessa meraviglia che avrei provato davanti a una stella cadente o a un’aurora boreale… Sentivo quasi i feromoni volare!»

Abbiamo riso. Mi chiedevo come mai, d’un tratto, avesse tirato in ballo quel discorso.

«Spero di non infrangere un mito dicendo questo. Del resto, ciò non toglie niente al ruolo del caso. Bisognava che fosse quel giorno, in quel posto, con quel giornale!»

Ridiamo di nuovo.

«Ordiniamo qualcos’altro da bere? Vuoi qualcosa di più forte…?»

Mi spiega che crede all’amore-passione. Che molte cose incorporee, o che ci sembrano tali, sono in realtà molto materiali. Il linguaggio, il pensiero, non sono forse corpo?

«Quando ripenso ai tuoi genitori, ricordo che la scelta delle parole, il timbro delle voci, gli sguardi… s’iscriveva tutto in un fantastico flusso sensoriale. Lo sai che nel Settecento si diceva “fare l’amore” parlando di persone che, senza trovarsi in un letto, intrattenevano una conversazione galante? In fondo, sotto i miei occhi, i tuoi genitori hanno fatto l’amore fin dal primo incontro!»

Dev’essersi accorto del mio imbarazzo. Ha cambiato argomento. E la medicina? Cosa diceva la medicina al riguardo? ha chiesto. Il sistema nervoso, gli sbalzi di umore, le differenze di potenziale: trovava che tutto questo rendesse i nostri corpi ancora più magici. Non ero d’accordo?

Lo ascoltavo distrattamente. Vedevo i suoi denti bianchi e le mani fini. Non sapevo niente della biologia del colpo di fulmine. Mi ricordavo di un corso nel quale si confrontavano delle immagini di cervelli di innamorati con altre legate al desiderio sessuale o all’euforia della droga. Ma che conclusione se ne traeva? Dava spiegazione di come una dipendenza che durava da sette anni potesse essere spazzata via in pochi minuti? Dava spiegazione dell’attrazione reciproca dei corpi e delle menti, del flusso e riflusso, della gravità?

Mi ero estraniata dalla conversazione. Seguivo con gli occhi le sue mani che tracciavano nel vuoto degli ovali perfetti. Mi stava spiegando qualcosa, ma cosa? I palmi scandivano la cadenza della voce. Talvolta si riunivano a formare una piccola piramide che lui si appoggiava alle labbra. Altre volte si aprivano e i suoi occhi chiari si sgranavano come se stesse descrivendo un fenomeno misterioso. Quelle mani eleganti le rivedevo sull’avorio ingiallito del nostro vecchio Pleyel. Quand’ero più giovane, Laurent si metteva spesso al piano a casa nostra. Suonava musica jazz con grandi gesti disarticolati che facevano ridere me e le mie sorelle.

Mi sono sentita le guance in fiamme. Era l’emozione o l’effetto del mojito? Cercavo di trovare una risposta alle sue domande sul cervello, senza riuscirci. Proprio in quel momento il mio era martellato da una baraonda di segnali contraddittori. Il momento in cui, incrociando il suo sguardo, avevo visto che mi fissava e mi ero sentita arrossire. Avrei forse potuto…? Un uomo dell’età di mio padre…? Mai e poi mai avrei pensato che anche la sola idea potesse sfiorarmi la mente.

«Hai ragione», ha concluso, senza che io capissi a cosa alludeva. «Ti annoio con tutto questo. Se andassimo a cena?»

Ha fatto un piccolo gesto inatteso, picchiandomi con due dita il dorso della mano e poi chinando la testa in attesa di una risposta.

Ho esitato un attimo… Avrei forse potuto…?

«Impossibile», mi sono sentita dire. «Impossibile, ho un impegno… Sono già in ritardo.»

Mi sono alzata in tutta fretta. Ringraziandolo, l’ho baciato sulle guance. Poi ho afferrato la borsa e sono scappata.