Ipotesi non prevista
Napoli all’alba appare austera ed elegante. Le strade sgombre, le auto in sosta che giacciono silenziose con la brina sui vetri, il verso di qualche gabbiano in lontananza, il rumore assordante di una saracinesca che si alza, il profumo di brioche che si dipana fra i vicoli, il tintinnio delle tazzine di caffè che proviene dai pochi bar già aperti. Non si sentono voci, schiamazzi, risa, e quei pochi esseri umani che vagano per le vie sembrano rispettare la solennità del momento. Forse la città sa che Emma è morta e stanotte questo povero vecchio che barcolla ha ricevuto l’ennesimo colpo basso della sua vita. Napoli rispetta il dolore altrui perché sa bene di cosa si parla.
Ho bisogno di un caffè. Entro in un bar e mi aggrappo al bancone. Il barista mi guarda incuriosito prima di servirmi. Non devo avere una bella cera. Se Sveva sapesse come ho trascorso la notte, mi farebbe una delle sue ramanzine. Ma in effetti, stavolta, non ho colpe, stavolta ho solo fatto quello che chiunque, al mio posto, avrebbe fatto: tentare di salvare la vita di una giovane innocente.
I carabinieri mi hanno rivelato di avere acciuffato il marito che vagava in stato confusionale per le strade. È strano, ma non riesco a provare rabbia nei suoi confronti, la morte di Emma ha azzerato le mie emozioni, tanto che anche piangere mi sembra impossibile.
Appena ho visto il dottore venirmi incontro, ho capito subito, il suo volto non prometteva nulla di buono. Eppure ho sperato lo stesso che ci fosse ancora una piccola possibilità, che Emma era in coma, ma forse si sarebbe potuta svegliare, che poteva restare paralizzata dalla testa in giù, ma viva. Se guardi in faccia la morte, capisci che tutte le cose che si dicono, tipo «preferirei morire anziché restare tutta la vita su una sedia a rotelle», sono idiozie. Quando arriva il momento di scegliere, si è pronti a barattare qualunque cosa pur di rimanere in vita. Solo che per Emma non c’era più nulla da barattare, se n’è andata dopo aver lottato per una notte intera, portando con sé il bimbo che custodiva.
Il medico mi ha detto che aveva un’emorragia in testa, un’altra all’addome, il bacino e un braccio fratturati e le ossa del volto frantumate. Come se un trattore le fosse passato addosso. Quanto odio occorre per compiere un simile massacro? Com’è possibile che un uomo del genere vivesse una vita normale? E che nessuno si sia mai accorto di nulla? Tuttavia non basta intuire, bisogna fare. Solo che il fare richiede qualcosa non da tutti: il coraggio. Perciò ho sempre fatto poco per gli altri, e anche per me, invece per cambiare una vita, che sia la propria o quella di una persona cara, ci vuole proprio una bella scorta di audacia. È tutto qui il problema.
Le mani mi tremano più del solito e anche portarmi la tazzina alla bocca mi appare un’impresa. Il barista mi guarda con compassione. Se fosse un giorno normale, gli risponderei a modo, la pietà degli altri mi rende furibondo. Ma oggi non è un giorno normale. Eppure, a guardarsi intorno, sembra sia così. La vita va avanti e non si cura dei pezzi che lascia per strada.
Avrei dovuto denunciare il bastardo e salvare davvero Emma invece di perdere tempo con lettere stupide quanto inutili. Ma lei non voleva che mi intromettessi, credeva di potercela fare da sola, si vergognava della sua situazione. Chissà quale meccanismo si è instaurato in lei, chissà perché le donne maltrattate provano vergogna per sé e per il compagno. C’è qualcosa di assurdamente perverso nel fatto che una parte di Emma desiderasse proteggere il suo carnefice dal giudizio altrui.
Mi gira la testa e ho bisogno di dormire. Prima, però, decido di farmi incartare le ultime due sfogliatelle rimaste dietro al banco; anche Marino ne va pazzo. Poi fermo un taxi e per una volta resto in silenzio fino a casa. La porta di Emma è sigillata con del nastro e il pianerottolo non mi sembra più familiare, il mio stesso appartamento mi appare estraneo. O, forse, sono io a guardarlo in modo diverso. Fatto sta che neanche Belzebù si fa vedere, forse perché sa che tira una brutta aria. Lui sì che è l’incarnazione perfetta dell’egoismo, non come me che cerco di convincermi ogni giorno che il mondo che mi circonda potrebbe anche crollare, e io continuerei dritto per la mia strada. Ebbene, il mondo oggi è crollato davvero e non mi sembra che io abbia proseguito il percorso senza voltarmi.
Poso il pacchetto della pasticceria sulla tavola della cucina e sprofondo nel divano. Al mio fianco c’è ancora la coperta usata da Emma. Distolgo lo sguardo e fisso il quadro di Leo Perotti. Che bello essere un personaggio dei fumetti, uno stereotipo, uno che sa già quello che deve fare e come lo deve fare. Superman sa che passerà l’intera vita a combattere contro il male. C’è un senso in questo, almeno lui non perderà tempo a cercare la sua strada. Forse adesso dovrei proprio mettermi a letto, non riesco a versare lacrime ma solo pensieri insensati, come il desiderio, per esempio, di addormentarmi e svegliarmi fra tre mesi. Le persone davanti a un ostacolo prendono lo slancio e saltano, io, invece, faccio il furbo e passo di lato. Insomma, non so come affrontare il momento. Credevo di aver visto tutto, invece no.
Suona il telefono. Sono le otto del mattino. Sbuffo e vado a rispondere con estrema lentezza. Anche i movimenti più semplici stamani mi appaiono come una montagna invalicabile. Appena alzo la cornetta, sento la voce di Marino.
«Cesare, finalmente! Ti ho chiamato tutta la notte! Come stai?»
Vorrei chiudere subito la conversazione. Solo Marino può pensare di pormi una simile domanda in questo momento.
«Come vuoi che stia?» ribatto con tono irritato.
In realtà dovrei informarlo del fatto che mi si chiudono gli occhi, mi tremano le gambe, ho l’affanno e inizia a farmi male lo stomaco. Ma non sono abituato a lamentarmi. Marino, al mio posto, l’avrebbe già fatto.
«Non ho parole per quanto accaduto...» fa lui dopo un po’.
«Già» mi limito a rispondere.
In effetti, parole non ce ne sono.
«Mi dispiace, forse abbiamo perso tempo per colpa mia, se avessi saputo stampare...»
Mi scappa un sorriso nel pensare alla scalcinata lettera.
«Marino, noi non abbiamo colpe.»
«Sì, lo so» ribatte lui, «però, forse, potevamo fare qualcosa.»
Ha la voce spezzata dall’emozione. Accidenti, provo a non piangere, poi arriva lui e lo fa al posto mio. La prossima volta mi toccherà anticiparlo.
«Marino, lei non poteva essere salvata. Questa è la verità!»
Lui smette di parlare, credo per rimuginare sulle mie parole. Lo so, sono pesanti, soprattutto ora, ma rappresentano ciò che penso. Una parte di Emma voleva un aiuto, l’altra parte sperava di non ottenerlo.
«Che intendi dire?»
«Che i bastardi che picchiano le mogli, lo fanno perché sanno di poterselo permettere. Emma non si amava e all’inizio quasi considerava normale essere malmenata. Pensava che, in fondo, non fosse successo niente. Riteneva di meritarlo!»
Marino non ribatte.
«La sai una cosa? Il padre la picchiava...» aggiungo dopo un attimo. Ma il vecchio continua a non aprire bocca.
«Ci sono diversi colpevoli in questa storiaccia» dico infine, «ma di certo non siamo noi!»
Lui aspetta qualche altro secondo prima di rompere il silenzio. «Vuoi che salga un po’ da te?» chiede.
Io vorrei tanto riuscire a dormire, ma so che sarebbe impossibile, perciò ribatto che per me va bene, lo aspetterò e gli darò il dolce, può darsi che basti a farlo sentire meno uno schifo.
Torno in cucina, apro l’ennesima birra e mi accendo un’altra sigaretta. Il dolore allo stomaco è aumentato e ora mi fa male anche il petto. Mi avvio verso il soggiorno e noto lo sgabuzzino socchiuso, così mi vengono in mente le tutine. Scoperchio lo scatolone con rabbia e le trovo ancora lì. Le afferro e le porto al naso. Odorano di buono, come se avessero già accolto un bimbo al loro interno. Una lacrima scivola via senza che me ne accorga. Strano, negli ultimi giorni il ripostiglio sembra diventato lo studio di uno psicologo, solo qui riesco a dar voce al dolore. Dovrei gettare le tute nell’immondizia, a cosa mi serviranno mai se non a ricordare per sempre questa terribile vicenda? Invece le ripongo al loro posto e chiudo il cartone. Tento di raggiungere di nuovo il divano, anche se mi sembra di non riuscire nemmeno più a reggermi in piedi. In sala da pranzo avverto una fitta al petto. Allungo il braccio verso lo stipite della porta e mi blocco, quasi a volermi accertare del presentimento avuto.
Tutto tace.
Lascio l’appiglio e striscio verso il mio obiettivo. Un’altra fitta, stavolta fortissima, mi squarcia il torace. La sigaretta mi sfugge dalle labbra, mentre la bottiglia di Peroni mi scivola dalla mano e si schianta per terra con un boato. Vorrei urlare, ma la voce rimane soffocata nella gola, le gambe mi cedono e piombo sul pavimento, fra la birra che si confonde con l’urina che inizia a bagnarmi i pantaloni.
Sto morendo, ormai ho una certa pratica con gli infarti. Solo che questo mi sembra più doloroso del primo. Se non fossi ateo, penserei che è il momento giusto per andarmene, quasi m’illuderei che ci sia un senso, che forse Dio mi sta chiamando per assistere Emma, come se io fossi pratico di ciò che ci aspetta dall’altro lato. Il Signore si serve di me per aiutare una povera ragazza, mi concede la possibilità di provare di nuovo a salvarla. Se fossi credente, morirei felice. Invece mi sto incazzando, Emma e io scendiamo oggi, l’infame che l’ha uccisa si fa un altro giro. Non mi sembra giusto ma, in fondo, la giustizia è un concetto inventato dall’uomo, non esiste in natura.
Provo a urlare, anche se so che nessuno mi può sentire, ma tutto ciò che mi esce dalla gola è un rantolo, simile alle fusa di Belzebù mentre attende paziente che gli serva il prosciutto. Gli occhi mi si chiudono, eppure riesco lo stesso a scorgere proprio lui, il gatto nero della signora Vitagliano che, da sotto la porta del salotto, mi guarda come fossi un vecchio mobile cui non dar troppo peso. Allungo la mano, per la prima volta sono io ad aver bisogno di lui. Vai a chiamare aiuto, vorrei dirgli. Il felino mi guarda per un po’, poi si stufa, si porta la zampa alla bocca e si dedica a una seduta di lavaggio. Io muoio, lui si lava. Sembra uno scherzo: vissuto da egoista, morto per colpa di un egoista. La vita ha deciso di darmi una lezione.
Chiudo gli occhi e mi abbandono. Il medico me lo diceva sempre di non esagerare, di condurre una vita regolare, di non fumare, non prendere la pillolina blu con Rossana, non bere. Troppi divieti, dottore, così la vita diventa un peso. E poi in questo modo Sveva se ne farà una ragione, potrà pensare che mi aveva avvertito, avrà un rimorso in meno col quale convivere. Semmai riderà anche con suo fratello nel ricordare con gli amici a cena la mia proverbiale cocciutaggine. Chissà se Rossana piangerà. Marino, invece, lo farà di sicuro, anche perché sarà lui a trovarmi.
Inizio a sentire freddo. Ho sempre pensato che l’infarto fosse uno dei modi migliori per andarsene. Niente anni di sofferenza, terapie, ospedali, gente che ti guarda con compassione o ti nasconde la verità; una botta secca e tanti saluti. Invece saranno almeno tre minuti che sono per terra a meditare sull’esistenza senza che lo schermo si spenga. Un’ipotesi non prevista. Ancora una volta. La mia vita è stata piena di ipotesi non previste.
Belzebù si avvicina e inizia a leccarmi la guancia. Se avessi la forza, gli tirerei un pugno in testa a questo gatto della malora. Invece decido di rilassarmi e lasciarmi rapire dal sonno. Ora non sento neanche più il dolore, solo stanchezza.
Marino ha le chiavi del mio appartamento, potrebbe salvarmi. Solo, quanto impiegherà per capire quel che è accaduto? E, soprattutto, quanto tempo ci metterà a scendere e salire di nuovo? La mia salvezza è nelle mani di un vecchio rimbecillito con i riflessi di un bradipo.
Ciao, mondo, è stato bello conoscerti, anche se sei proprio un gran bastardo!