Emma

Come tutti gli anziani ho le mie piccole ossessioni; niente di particolarmente folle, per carità, solo qualche regola da seguire per sentirmi più a mio agio. Per esempio, tappezzo la tavoletta del water con la carta igienica prima di sedermi. Nulla di male se si trattasse di una toilette pubblica, il problema è che adopero la stessa tecnica anche in casa mia. Mi riparo dai miei stessi germi. In realtà è un’abitudine che risale alla gioventù, quando lavoravo alla Partenope Service, un’agenzia di servizi in via dei Tribunali, in pieno centro storico. Un misero impiego, lo ammetto, ma all’epoca ero un ragazzo pieno di belle speranze che credeva alla favola secondo cui la vita è una scala da affrontare scalino dopo scalino per giungere, infine, all’eden. Che tutto fosse da conquistare poco alla volta e con grandi sacrifici, insomma. Gli anni, invece, mi hanno insegnato che la salita non è poi così semplice, perché spesso la scalinata è fradicia e i pioli cedono sotto il peso.

Alla fine ho capito che la storia dell’immolazione iniziale in virtù della quale poi, un giorno lontano, forse, sarai ripagato, è un’idiozia inventata dagli adulti per sfruttare l’entusiasmo dei più giovani. Non c’è nessuno lassù a misurare il tuo impegno e a ricompensarti per le energie profuse. In realtà gli anni in cui tutti ti invitano a tener duro per costruirti un futuro sono i migliori e non vanno gettati al vento per pensare ai successivi che, in ogni caso, non valgono un decimo di quelli spesi.

La Partenope Service contava tre impiegati oltre il sottoscritto, due maschi sotto i sessanta e una segretaria della mia età. Non è difficile immaginare di chi fosse la colpa per la tavoletta del water sempre chiazzata. I primi tempi la trattenevo, poi un pomeriggio la segretaria mi svelò il trucco e da allora non riesco più a poggiare le natiche sulla fredda plastica. Dopo qualche mese, comunque, mi licenziai. Di quell’esperienza portai con me tre cose: l’ossessione di coprire la tavoletta del water, appunto, la consapevolezza che non avrei gettato il periodo migliore della mia vita per tutelare quello peggiore, e Luisa, la segretaria che mi diede il fatidico consiglio. Delle tre, solo le prime due mi hanno accompagnato per l’intera esistenza, Luisa, invece, l’ho persa alla prima curva.

In ogni caso, dicevo, sono poche le fissazioni da vecchio rimbambito che mi riempiono la giornata. A parte la carta igienica c’è, per esempio, l’assoluta incapacità di accettare i nodi. Detta così sembra più folle di quanto, in realtà, non sia. La verità è che mi stanno antipatici, anzi odio doverli sciogliere. E non mi riferisco ai nodi della vita, parlo di cose più materiali. Il filo del telefono che si attorciglia fino a diventare una matassa, cosicché sollevare la cornetta risulta impossibile. Ma anche i nodi dei sacchetti di plastica, oppure i fili dietro il televisore, che col tempo si aggrovigliano da soli. O i lacci delle scarpe, quando si rifiutano di sciogliersi. Perciò con gli anni mi sono organizzato e uso solo mocassini e telefoni senza fili. Agli altri dico che è per via delle dita che non hanno più la forza di compiere gesti piccoli e ripetitivi, in realtà mi annoio, non ho pazienza e tempo da perdere per dipanare fili che tornerebbero comunque a unirsi.

E poi c’è Napoli, il nodo più consistente di tutti. Il problema è che ho scelto la città peggiore dove nascere. Qui non puoi non intrattenere rapporti col prossimo, qui il prossimo ti viene a bussare fino a casa. Così ho sviluppato delle tecniche di sopravvivenza per tutelare la mia sociopatia. Se scorgo un condomino che aspetta l’ascensore, mi fermo ad aprire la cassetta della posta e indugio finché l’invasore della mia privacy non decide di salire senza attendermi. Oppure evito di fare le code. Il napoletano non riesce a restarsene buono e zitto mentre aspetta, deve per forza di cose stringere col vicino, conversare del più e del meno in attesa del proprio turno. Che sia alle Poste o in banca, al supermercato come al cinema, le code a Napoli sono un veicolo di chiacchiere e informazioni gratuite sulla vita altrui. Anche il barbiere sotto casa mia è un ritrovo naturale per i cittadini bisognosi di pettegolezzi. Perciò, quando è ora di tagliarmi i capelli, chiamo un taxi e mi faccio portare in un altro quartiere.

Per la spesa, invece, è tutto molto più complesso. Di fianco all’ingresso del mio palazzo ci sono un salumiere, un macellaio e un fruttivendolo, un plotone di esecuzione che ti squadra per carpire, anche solo dalle movenze, qualche nuova indiscrezione che possa portare un po’ di interesse nelle loro vite vuote. Da anni non varco la soglia dei loro negozi e, anzi, evito addirittura di passare lì davanti. Attraverso, percorro qualche metro sul marciapiede opposto, e torno dall’altra parte. I tre se ne saranno accorti, ma non mi interessa, l’importante è sfuggire al loro amo. Li ho soprannominati il buono, il brutto e il cattivo. Il brutto è il fruttivendolo: vecchio, sporco e trasandato, con solo tre denti in bocca e le unghie sempre nere, parla esclusivamente in dialetto e non si capisce un tubo di quel che dice. Molte volte in passato mi sono trovato a fissare il vuoto dopo una sua affermazione sulle albicocche o le pesche. Il buono è il salumiere, una brava persona, sempre sorridente, che si destreggia fra i latticini, gli affettati e le chiacchiere inutili delle numerose clienti. Il cattivo, infine, è il macellaio. In realtà lui è un tipo a posto, anche gentile, il problema è la moglie. È lei a tessere le trame del chiacchiericcio, è lei che mentre aspetti una lombata ti fa una delle sue domande a trabocchetto. È lei il boss del pettegolezzo, il capozona al quale tutti fanno riferimento.

Il problema è che anche al supermercato le cose non vanno molto meglio. Finché si tratta di girovagare fra gli scaffali posso ancora sperare di cavarmela, basta ignorare il pensionato che cerca di attaccare bottone facendo leva sulla maleducazione di un impiegato o della ragazzina che l’ha investito col carrello. Il dilemma sorge, però, già al banco dei salumi. Lì c’è sempre una signora che, mentre attende, colloquia con il dipendente di turno e, il più delle volte, anche con la vicina accanto. Un gruppo di tre che in base alla lentezza del commesso può allargarsi a dismisura, fino a comprendere svariate unità. Per fortuna dopo attenti studi sono riuscito a capire qual è il commesso più rapido e se non c’è lui tiro dritto. Giunto alle casse, punto quella veloce, una manna per i fobici come me, e scivolo furtivo all’esterno. Vicino a casa attraverso e riattraverso nel giro di pochi metri, e finalmente infilo le chiavi nella toppa del portone. Solo allora posso dire di essere quasi salvo. A ogni modo non mi giro mai indietro, già so che il buono, il brutto e il cattivo hanno gli occhi puntati sulle mie scapole fiaccate dal peso delle ossessioni.

 

 

Quando chiudo il portone del palazzo, è un miagolio ad accogliermi. Appollaiato sulle scale c’è Belzebù che mi guarda serafico mentre tenta di decifrare il contenuto del sacchetto che mi porto appresso. Questo gatto ha un’intelligenza superiore, ogni volta che vado al supermercato, lui mi aspetta nell’androne per lanciarsi in seducenti miagolii e strofinate ruffiane appena scorge la sporta della spesa.

Nella cassetta della posta ci sono un paio di buste, le lascio lì e raggiungo l’ascensore. Da trent’anni ho smesso di credere che dalla buca delle lettere possa uscire qualcosa di buono. Si sa, le belle notizie non vengono a cercarti fino a casa. Non capisco come mai i miei colleghi anziani siano ancora così indissolubilmente fiduciosi in un colpo di fortuna. Spendono la pensione con i Gratta e Vinci o al Lotto, nella speranza di cambiare vita. Eppure dovrebbero aver capito che se la dea bendata non li ha baciati quando erano ancora piacenti e in bella forma, di certo non lo farà adesso che hanno i peli che gli escono dal naso, nessun dente in bocca e la cataratta. Tra l’altro, a una certa età cosa te ne fai di una vincita milionaria? Rischi solo che i tuoi figli si azzannino per l’eredità.

Apro le porte dell’ascensore.

«Su, bello!» esclamo rivolto all’animale, che mi fissa un istante e s’intrufola veloce fra le mie gambe. Premo il pulsante e dedico uno sguardo ammirato al micio, un’anima ribelle che non si accontenta di vivacchiare in casa della signora Vitagliano, ma desidera esplorare, arraffare un po’ da tutti e sfruttare il prossimo. È un gatto cattivo Belzebù, e a me i cattivi piacciono. In questo condominio, poi, ha trovato il suo harem, è pieno di case nelle quali infilarsi, alcune colme di cibo, altre solo di ricordi. Eh già, perché le case non sono mica tutte uguali, certe si aprono e si chiudono più volte al giorno, altre restano sempre chiuse. Alcune profumano di biancheria pulita e sugo di pomodoro, altre di cartone e umidità. Eppure queste ultime, in genere, sono le più affidabili, rimaste in piedi nonostante tutto, ad attendere qualcuno che torni a prendersene cura.

Giunto al piano, poso il sacchetto della spesa e tiro fuori le chiavi dal cappotto. In quel momento la porta dei vicini si apre e sull’uscio compare di nuovo Emma, la donna per la quale mi sono battuto invano. Ci guardiamo un istante, poi mi giro e infilo le chiavi nella toppa, manovra non semplice se le mani ti tremano come un trampolino dopo un tuffo.

«Dia a me.»

Lascio che se la veda lei, anche se la mia autostima subisce un inaspettato quanto inopportuno calo. Ma con questa donna non voglio più avere niente a che fare, prima me ne libero e meglio è. Lei conclude l’operazione e mi sorride. Credo voglia farsi perdonare.

«Grazie!» esclamo e mi riprendo il mazzo. Belzebù corre in casa, io attendo sull’uscio che la vicina decida la mossa successiva. Lei mi fissa e sostiene lo sguardo, così mi accorgo che ha uno zigomo gonfio. C’è qualcosa in lei che mi attrae, a parte la bellezza. Forse perché mi ricorda un po’ Sveva da adolescente, anche se questa, adolescente, non lo è più.

Non so che fare, Emma non si muove, forse vuole entrare, forse parlare, eppure non fa nessuna delle due cose, se ne sta lì impalata e mi fissa. Allora prendo in mano la situazione. Sarò pure un povero vecchio che non riesce a infilare le chiavi nella toppa di casa, ma la figura dell’imbecille con una donna ancora non mi appartiene.

«Vuole entrare?» chiedo.

Lei annuisce.

«Prego» dico, e accompagno la parola con il movimento del braccio.

Emma s’immerge piano nel mio mondo, un po’ come fece Belzebù la prima volta. Vuol capire se si tratta di un territorio amico o se c’è qualche pericolo nascosto dietro l’angolo della cucina.

«Gradisce qualcosa?» domando.

Lei annuisce di nuovo, sembra che abbia perso la lingua. Mi sfilo il cappotto e raggiungo i fornelli, la ragazza mi segue e si siede al tavolo della cucina, sul quale sono ammonticchiati mutande e calzini. Se vivi troppo a lungo da solo cominci a pensare che la tua intimità sia inviolabile. Mi scuso e afferro gli indumenti per portarli nella stanza da letto, ma un calzino ribelle sfila via dal gruppo e si lancia sul pavimento, cosicché quando torno è ancora lì, ai piedi della mia inaspettata ospite.

«Volevo scusarmi per il comportamento dell’altra notte» esordisce lei.

«Non si preoccupi» ribatto subito, «acqua passata.»

In realtà non ho dimenticato lo sgarbo, ma uno dei maggiori difetti degli anziani è il rancore e io non voglio assomigliare a un anziano.

Apro il frigo. Non ho nulla da offrire, se non la solita bottiglia di vino rosso che mi tiene compagnia la sera. La afferro per il collo e la poso sulla tavola insieme a due bicchieri. Poi mi siedo di fronte a lei. Non capisco cosa voglia da me questa splendida ragazza, e non sono più abituato ad avere ospiti. A eccezione di Belzebù, ovviamente.

«Mio marito mi ammazzerà prima o poi» esordisce Emma guardandomi dritto negli occhi, tanto che mi risulta difficile sostenerne lo sguardo. La sua voce afona e priva di vita stona con l’aspetto giovanile che, nonostante tutto, si porta appresso.

Riempio i bicchieri senza neanche chiederle il permesso e lei non mi ferma. Belzebù si presenta in cucina, il suo stomaco già reclama.

«Lo ha detto a qualcuno? Ai suoi genitori, a un’amica?»

«No, in città non ho nessuno, e comunque non lo confesserei mai, la gente giudica.»

Sorseggio il liquido rosso e scruto la giovane donna. Se avessi la metà degli anni che ho, risolverei la situazione a modo mio, invece mi tocca restare a ingurgitare rabbia. Chissà perché pensa che io, al contrario degli altri, non la giudichi. Forse se ne frega della mia opinione, di un vecchio vicino che potrà condividere la notizia al massimo con il gatto dello stabile.

«Da quanto va avanti questa storia?»

Lei china il capo e inizia a giocherellare con le dita sul vetro del bicchiere, quindi sussurra: «Tre anni».

La guardo esterrefatto.

«La prima volta perché mi cadde un quadro di mano. Mi colpì con un mestolo da cucina sul collo. Sento ancora il suono sordo nelle orecchie. Per un mese uscii con la sciarpa.»

Poso il bicchiere nel lavello e prendo le sigarette da sopra la dispensa, la prima cosa che mi viene in mente di fare quando sopraggiunge l’ansia.

«No, la prego...» fa lei.

Mi blocco a metà strada e le dedico uno sguardo fra il curioso e il contrariato.

«... sono incinta.»

Chiudo gli occhi e mi lascio agguantare al volo dalla sedia. Ma perché non mi sono fatto i fatti miei? È una vicenda troppo grande anche per un matusalemme come me.

«Di quanto?»

«Due mesi.»

«Lui lo sa?»

«No.»

«Vuole abortire?»

«No.»

Resto in silenzio. Forse è venuta a chiedermi un aiuto economico, forse solo un po’ di comprensione e affetto. Forse ha bisogno di un padre. Mi dispiace, cara, ma a stento riesco a esserlo dei miei figli.

«Dovrebbe dirglielo.»

«Vorrei andarmene, ma non so come fare. Lui mi cercherebbe.»

«Perché ne sta parlando con me?»

«Perché lei ha voluto vedere. La maggior parte delle persone anche se ha un sospetto ti dedica uno sguardo compassionevole e si gira dall’altra parte. La gente ancora pensa che si tratti di questioni private da risolvere in famiglia.»

«Ha provato a rivolgersi a qualche associazione?»

«No, mi vergogno.»

Con me, invece, non si vergogna. Eppure non sono una persona con la quale la gente ama aprirsi. Sveva, per esempio, non l’ha mai fatto, e lo stesso Dante mi nasconde i suoi gusti sessuali. Mi ha confidato di più questa donna sconosciuta in dieci minuti che i miei figli in una vita.

«Dov’è ora lui?»

«Fuori città, tornerà domani.»

Il silenzio scende di nuovo fra noi e il ticchettio dell’orologio a muro occupa lo spazio per qualche secondo, prima che un miagolio di Belzebù mi ricordi che il poveretto è ancora in attesa di mangiare. Allora decido di offrire alla mia vicina l’unica cosa in mio possesso, un po’ di buonumore.

«Senta, il gatto vuole sfamarsi e anch’io comincio ad avvertire un certo languorino. Perché non si ferma qui? Le propongo uno spaghetto col pomodorino fresco.»

Lei sembra non attendere altro.

«Con piacere» abbozza.

Mi alzo, afferro la pentola, la riempio d’acqua e la metto sul fuoco. Poi tiro fuori i pomodorini dal sacchetto della spesa ancora sulla tavola e inizio a tagliarli. Lei si alza e mi viene accanto: «Lasci fare a me, lei intanto prepari la tavola».

La guardo confuso prima di cederle il coltello. Da cinque anni nessuna donna utilizza la mia cucina, da cinque anni ceno senza preparare la tavola. Inizio a rovistare fra i cassetti alla ricerca delle vecchie tovaglie mentre Emma riprende a parlare, come se non potesse farne a meno. Se ti liberi di un peso, lo devi fare fino in fondo. Un po’ come quando vai a pisciare, non puoi fermarti a metà e tornare ai fatti tuoi.

«Ho sottovalutato i segnali, non ho fatto attenzione ai campanelli d’allarme. I primi tempi non mi picchiava, ma sbottava per un nonnulla. Mi sono detta che era solo molto stressato, che sarebbe passato, che, in fondo, non era successo niente. Così ho deciso di starmene buona, mi sono voluta convincere che con il mio sostegno si sarebbe calmato.»

Non trovo la tovaglia. Eppure sono certo che qui ce ne fosse una. Mai come adesso sento la mancanza di Caterina.

«Una sera sono riuscita a scappare e mi sono rifugiata in un bar. Ma quando il locale ha chiuso lui è venuto e mi ha riportato a casa. E lì mi ha riempito di calci e mi ha rotto una costola. Poi sono arrivate altre botte e litigi. Alla fine mi ero quasi convinta che la colpa fosse mia, che gli rendevo la vita impossibile.»

Il respiro mi diventa faticoso e non perché sono chino sotto i mobili della cucina in cerca di una fantomatica tovaglia, ma perché non riesco più ad ascoltare il terribile racconto. È come se qualcuno mi si fosse abbarbicato dietro la schiena e pretendesse di essere portato a spasso. Nemmeno con Sveva l’ho mai fatto. Una volta ho tentato di rifarmi con Federico, ma appena me l’hanno sistemato sulle spalle ho sentito un crac lungo la spina dorsale e ho dovuto desistere. Da allora mi sono ripromesso di non giocare più con mio nipote. Mi dispiace, ma il gioco mi ricorda che sono vecchio e, come ho detto, non mi piace essere preso in giro sull’argomento.

«Dovrebbe denunciarlo» è l’unica cosa che riesco a dire.

«No, mi ammazzerebbe prima dell’inizio del processo. E se anche me ne andassi, verrebbe a cercarmi.»

Rinuncio, non c’è una sola tovaglia. Le avrò date a Sveva, come ricordo della madre.

«E, allora, che pensa di fare?»

Lei si volta e mi fissa. Nel frattempo la sua mano gira il mestolo che affoga nel sugo di pomodoro.

«Non lo so. Vorrei solo un po’ di pace.»

La pace è molto sottovalutata. Si pensa che sia uno stato naturale dal quale ogni tanto ci si distacca, invece è l’esatto contrario, nella vita la pace viene a farci visita solo in alcuni rari momenti e, spesso, neanche ce ne accorgiamo.

«Senta... non ho una tovaglia...» ammetto alla fine.

Lei mi guarda e sorride, subito dopo si porta la mano allo zigomo dolorante e torna seria. «Non fa niente, mangeremo senza» commenta poi.

Solo che il suo sorriso appena accennato mi rende furioso e per un attimo davvero penso di aprire la porta, andare dal mio vicino e riempirlo di botte, vada come vada. Poi mi ricordo che lui non c’è.

«Si è fatta vedere da un medico?» chiedo.

«No, ma credo che lo zigomo sia rotto. Ci sto mettendo del ghiaccio ogni tanto.»

Mi avvicino e senza dire nulla le poso il dito sull’osso malconcio. La pelle è viola e rigonfia di liquido. Emma non si ritrae.

«Se non lo denuncia lei, lo faccio io!» esclamo infine.

«No, la prego, ho paura. E poi non ho una casa e nemmeno un lavoro. Lui non vuole.»

Sospiro. Un’altra donna che viene da me con un problema e non accetta una soluzione. Solo che stavolta non posso voltarmi dall’altra parte e fare finta di nulla.

«È pronto» afferma, infine, lei.

Le passo i piatti, Emma li riempie con movimenti rapidi e sicuri. Ci sediamo a tavola. Lo spaghetto è proprio buono, molto meglio di quanto immaginassi.

«Chissà perché a me non viene mai così» ammetto.

Lei sorride, stavolta fregandosene del dolore. Brava Emma, sorridi lo stesso, anche se fa male.

Il gatto inizia a lamentarsi. Mi sono dimenticato di lui. Mi alzo e prendo una sottiletta e un po’ di prosciutto dal frigo. Belzebù è monotematico, fosse per lui si ciberebbe solo di carne. Sarei proprio curioso di conoscere il valore dei suoi trigliceridi, anche se di certo non possono essere più alti dei miei. Ho smesso di fare le analisi del sangue quando ho capito che tenendo sotto controllo i miei valori mi illudevo di poter controllare la vita. Ma avrei impiegato male il tempo se alla mia età non mi fossi reso conto che nulla può essere controllato e l’unica cosa che c’è data di fare è vivere.

«È suo il gatto?»

«No, macché, è della signora Vitagliano, la nostra vicina. Il povero micio ogni tanto riesce a sfuggire alle sue grinfie.»

Emma sorride ancora, poi il rumore delle forchette nei piatti s’impadronisce della scena per alcuni minuti.

«Vive da solo?» domanda a un certo punto.

Per una vita mi hanno dato del lei, ora sono stanco.

«Diamoci del tu.»

Lei annuisce mentre mastica.

«Sì, vivo da solo, mia moglie è morta cinque anni fa.»

«Mi dispiace» sussurra e si rituffa nel piatto.

Con la testa abbassata e i capelli lunghi e castani che le ricadono sulle ginocchia sembra più che mai Sveva. Incredibile, ma mi sono appena reso conto che mia figlia non si è mai fermata a pranzo da me. Qui viene con difficoltà, troppi ricordi della madre. Il fatto che io sia ancora vivo credo sia solo un dettaglio.

«Ho una figlia più grande di te che ti somiglia molto» affermo quindi.

«È sposata?»

«Sì» rispondo, e per un attimo ho la tentazione di parlarle della mediocrità della sua vita.

«E poi c’è Dante, che hai conosciuto.»

«Anche lui sposato?»

«No, lui è gay» ribatto prima di portarmi il bicchiere alla bocca. Ho fatto una precisazione inutile, ma è più forte di me, ogni volta che parlo di lui, mi esce spontaneo dire questa cosa.

«Ho capito» si limita a commentare lei.

«Perché non te ne vai dai tuoi genitori?» chiedo una volta terminato il pasto.

«Sono scappata da casa a quattordici anni, mio padre beveva e se la prendeva con me e la mamma. Perciò sono andata via appena ho potuto. Pensa che avevo giurato a me stessa che non mi sarei mai legata a un uomo...»

Certe esistenze seguono dei binari prestabiliti, mai un colpo di scena che cambi la direzione delle cose. Anche la vita, a volte, riesce a essere banale.

«Comunque ora non mi va più di parlare» aggiunge decisa.

Annuisco. Questa ragazza mi piace, come Rossana, non gira intorno alle parole.

«Che ne dici se guardiamo un po’ la televisione?»

«La televisione?»

«Eh. Avrai la tivù, no?»

«Certo» replico e mi alzo.

Si comporta come se fosse mia nipote e questa casa il suo rifugio. Le case dei nonni spesso fanno da riparo per i nipoti che scappano.

Guardo poco la tivù, e solo documentari. Certe volte mi devo addirittura forzare per accenderla. Un po’ perché non voglio fare la fine di Marino, un po’ perché nella mia vita ne ho vista troppa.

Ci sediamo sul divano uno di fianco all’altra e a me viene da sorridere. La vita è proprio strana, d’improvviso ti trovi a condividere la tavola e il salotto con chi fino a ieri nemmeno ti salutava. Credo sia una prerogativa delle persone sole sapersi trovare. Pochi istanti e Belzebù si lancia sul divano e si accoccola fra i nostri corpi.

«Se lui non c’è, sono felice» afferma mentre cambia canale, «anche se la casa a volte è troppo silenziosa» aggiunge dopo un po’.

Eh già, la casa è troppo silenziosa. Ci si abitua anche ai silenzi, cara Emma, e alla fine si conversa con loro.

«Quando vuoi, io sono qui» dico.

«Grazie mille» replica, senza nemmeno voltarsi.

Dopo un altro istante riattacco. «La vuoi sapere una cosa?» domando, e lei, stavolta, mi guarda.

«Una donna che ho molto amato si chiamava come te. Emma.»

Lei stringe le gambe al corpo e replica: «Tua moglie?»

«No.»

E allora chi? sembra chiedere con lo sguardo.

«È una storia lunga» aggiungo e torno alla televisione.

Rimaniamo in silenzio a guardare lo schermo finché mi accorgo che mi si chiudono gli occhi. Sarebbe ora di andare a letto, in fin dei conti sempre vecchio sono. Mi giro e trovo Emma che dorme rannicchiata su se stessa. Così sembra ancora più indifesa. Chissà perché alcune persone non hanno angeli a proteggerle. Io sono quanto di più lontano da un angelo, eppure mi viene naturale alzarmi per prenderle una coperta. Avvolgo Emma nel plaid, spengo lo schermo, poi la luce, e me ne vado a letto. Nel silenzio della casa si odono solo le fusa di Belzebù che ronfa acciambellato ai piedi di questa creatura indifesa che ha deciso di venirmi a svegliare dal torpore. Mi piacerebbe soccorrerti, aiutarti a salvarti, Emma, davvero, solo che temo di non esserne capace. Non mi è bastata una vita per imparare a porgere la mano senza tremare.