La seconda di tre donne irraggiungibili

Crediamo che la vita non finisca mai e dietro l’angolo ci sia sempre la novità che cambierà tutto. È una specie di raggiro che facciamo a noi stessi, così da non prendercela troppo per un fallimento, un’opportunità svanita, un treno perso. Io, per esempio, ho trascorso quarant’anni nell’attesa di riavvicinarmi a Daria, grande fiamma giovanile che mi folgorò dopo una serata trascorsa a parlare di politica in un vecchio scantinato nel quale ci ritrovavamo noi giovani con l’idea malsana di cambiare il mondo. L’incontro non servì a cambiare il mondo, ma le nostre due vite sì. All’epoca ero un ragazzo pieno di idee e con una grande autostima (cosa che, per la verità, non ho perso con l’avanzare degli anni), grazie alla quale riuscii a conquistare la fiducia di Daria, una donna con la testa sulle spalle e una famiglia un po’ snob dietro. Lei era più acculturata e più elegante di me, ma le mancava un requisito fondamentale che io, invece, possedevo: la sicurezza. Scriveva racconti e stava per terminare un romanzo che parlava di un gruppo di ragazzi che si batteva per rendere l’Italia un paese migliore. Una sorta di autobiografia. Non era certo un’idea originale, né scritta in modo superbo, ma la spronai a credere in se stessa e a finire quanto prima il romanzo.

Dicono che solo un amore vero abbia la potenza di modificare i percorsi delle persone. Il mio, dopo l’incontro con Daria, subì notevoli cambiamenti. Fu lei a convincermi ad accettare il lavoro allo studio Volpe che mi avrebbe fatto, poi, incrociare Caterina. Devo ringraziare lei di tutto quello che è avvenuto dopo. O, forse, incolparla. A ogni modo, Daria mi prestò un po’ del suo buonsenso, io contraccambiai con il mio infaticabile ottimismo e con l’entusiasmo, due qualità che, al contrario dell’autostima, ho disperso nel corso dell’esistenza. Di quei mesi trascorsi insieme, mi porto dietro la sua sonora e coinvolgente risata, le dita fredde e piccole che si lasciavano ghermire con facilità, il suo profumo di mandarino che mi ritrovavo la sera sui vestiti. Eravamo felici, eppure, non so perché, non ci baciammo mai, forse convinti che l’avremmo potuto fare da un momento all’altro, o forse desiderosi di prolungare la piacevole attesa. In fin dei conti stavamo assaporando la fase migliore di una relazione, quando basta sfiorare la pelle dell’altro per sentire il cuore palpitare.

In breve Daria terminò il romanzo e si mise alla ricerca di un editore. Ricordo che dopo i primi rifiuti mi confidò che avrebbe rinunciato, e io per giorni provai a convincerla a non abbandonare la sua strada e a non farsi abbattere dalle difficoltà. È buffo a pensarci oggi, eppure le ripetevo semplicemente quello che dicevo ogni notte nel letto a me stesso, di non smettere di desiderare una vita diversa, di continuare a rincorrere i sogni, non scendere alla prima fermata, anche se sembra la più comoda. La differenza fra me e lei, purtroppo, è che Daria è stata l’unica a credere fino in fondo alle mie parole, l’unica a provarci davvero.

E nel giro di qualche mese trovò un editore disposto a pubblicarle il romanzo. La beffa fu che quando il testo uscì noi due già eravamo lontani. Ricordo che ne acquistai una copia e la rilessi in una notte. La mattina dopo mi ero definitivamente convinto che il libro non valesse nulla. Come la nostra storia, del resto. Andò così. Lei una sera si fermò a bere una birra con il suo ex. Io ero ancora e solo un amico, eppure non riuscii a mascherare la delusione, nonostante mi trovassi, tra le altre cose, all’inizio di un’epoca nella quale mostrarsi gelosi e possessivi era considerato da retrogradi fascisti. Fatto sta che mi accorsi di essere ancora molto retrogrado e mi allontanai da lei, con la speranza che Daria venisse a riprendermi. Così non fu, purtroppo, e quindici giorni dopo ero fidanzato con una tipa di cui non ricordo nemmeno il nome, una che fumava molto e disegnava fumetti. Daria soffrì per il mio improvviso e incomprensibile distacco, e non mi perdonò, nemmeno quando, lasciata la fumatrice incallita con le dita gialle, tornai sui miei passi. A quel punto, un altro dei miei sentimenti conservatori, l’onore, mi vietò di insistere. La salutai e tornai alla mia vita e al corteggiamento indefesso nei confronti di Caterina, nonostante la notte non riuscissi a dormire per la lontananza da Daria. Nei mesi successivi ci incrociammo diverse volte ma nessuno dei due ebbe il coraggio di fare la mossa decisiva, fin quando un giorno lei si fidanzò con quello che poi sarebbe diventato suo marito.

Ecco, se io quel giorno avessi sospettato che l’individuo con il ciuffo alla Elvis Presley sarebbe stato l’ultimo uomo della sua vita, avrei messo da parte i miei sentimenti conservatori e mi sarei battuto per tenermela stretta. Invece pensai in cuor mio che prima o poi noi due saremmo stati insieme. L’ho creduto per quarant’anni. Nemmeno il matrimonio di entrambi, neanche i miei e i suoi figli mi hanno mai distolto dall’idea di base: anche solo per una notte, i nostri corpi si sarebbero uniti.

Ogni volta che l’incontravo al parco, nella metro, in un cinema, in un caffè, alla presentazione di un suo libro, dopo tre mesi o due anni, la salutavo con affetto e mi allontanavo pensando che alla fine lei sarebbe stata mia. Certo, se affermassi di esserne rimasto innamorato, mentirei. L’amore col tempo sfuma, come i colori di una fotografia, però per fortuna restano i contorni a ricordarti l’attimo che fu. Per quarant’anni non ho amato Daria, ho amato l’idea di poterla di nuovo amare. Lei mi ha dato l’opportunità di pensare che ci sia sempre un’opportunità, che le cose che desideri capitano davvero, bisogna solo saper attendere.

Poi un giorno di sette anni fa uscì il suo ultimo libro. Io nemmeno lo sapevo quando la incontrai per caso in farmacia. Caterina si era già ammalata e Daria da anni non era più nei miei pensieri. Lei mi comunicò che nel suo romanzo c’era qualcosa che mi riguardava. Il giorno dopo andai in libreria e lo acquistai. Alla seconda pagina trovai la dedica: «A Cesare, mio irraggiungibile amore, per il suo coraggio, per la sua passione per la vita. Con gratitudine».

Dovetti rifugiarmi nel bagno della libreria per nascondere al mondo le mie lacrime e la notte la trascorsi immerso nel romanzo, la storia di due innamorati che si guardano da lontano per una vita intera. Alla fine riposi il volume nel cassetto della scrivania e rimasi due ore a fissare lo schermo del televisore spento. Impiegai giorni per tornare alla quotidianità, fatta della malattia di Caterina e dei miei ultimi giorni di lavoro. In quelle pagine mi ero trovato davanti un Cesare diverso, quasi uno sconosciuto. Grazie a Daria, avevo potuto osservare me stesso da una prospettiva nuova, la sua. I libri possono anche questo.

Dovevo assolutamente incontrarla. Mi ripromisi di scriverle, poi di cercare il suo numero e telefonarle, di invitarla a cena, di spedirle un mazzo di fiori. Ma anche in quel caso caddi nel medesimo errore, credere di avere tutto il tempo davanti. Nemmeno il suo grande gesto di amore mi diede la spinta necessaria a fare ciò che andava fatto. Quarant’anni non mi sono bastati per capire. Quando l’ho fatto, era troppo tardi.

Riuscii a recuperare il suo numero di telefono da un amico comune e per un mese mi rigirai fra le mani il bigliettino con le cifre anonime scritte a biro. Non avevo il coraggio. Infine una mattina aprii il giornale e scoprii che era morta per un ictus.

Passi la vita a credere che un giorno ciò che speri accadrà, salvo poi accorgerti che la realtà è molto meno romantica di quanto pensi. È vero, i sogni qualche volta si presentano alla tua porta, ma solo se ti sei preso la briga di invitarli. Altrimenti puoi star certo che la serata la trascorri da solo.