La boccia di vetro

Piatti che vanno in frantumi. Un urlo, poi un tonfo. Ancora un urlo. Accendo la luce, mi sollevo a sedere sul materasso e attendo. Dopo un po’ sento altro trambusto, come di mobili spostati e sedie trascinate, quindi ceramica che si rompe. Di nuovo grida. Mi alzo e infilo la vestaglia. Sono in corridoio quando la porta dei vicini si apre. Sento correre per le scale, allora mi precipito alla finestra. Dopo pochi secondi lui esce dal portone e fila dritto in auto. Mi lancio sul pianerottolo, dove trovo ad attendermi Eleonora Vitagliano. È immobile e fissa la porta di Emma socchiusa.

«Hai sentito?» sussurra.

Annuisco, non ho il tempo di preoccuparmi della gattara. Mi avvicino alla porta e la spalanco. Eleonora si sistema alle mie spalle.

«Eleonora, per cortesia!» esclamo con poco tatto.

Lei mormora qualcosa e si ritrae. Suono il campanello nonostante le mani mi tremino più del solito. Se questa storia non finisce stasera, giuro che vado alla polizia.

Emma non risponde. Dovrei precipitarmi dentro eppure resto sull’uscio, qualcosa mi trattiene, e non è la signora Vitagliano che, anzi, quasi mi sospinge con lo sguardo. Ho paura, quella vera, che si prova solo poche volte nella vita e ti paralizza i muscoli e il pensiero. Il problema è che alla mia età non si può darle troppo ascolto, altrimenti si finisce su una poltrona, a scrutare il mondo da lontano, come Marino. Perciò apro e m’infilo in casa.

L’ingresso è buio e l’unica luce proviene da una stanza in fondo sulla destra. Vorrei correre fin lì per accertarmi che Emma stia bene, ma le gambe non mi reggono, la testa mi gira e la cataratta non mi permette di sconfiggere il buio. Allora affronto il corridoio con calma, le mani incerte che anticipano i passi e mi aprono la strada fra la mobilia.

Emma in cucina non c’è, ci sono piatti e bicchieri sbriciolati, una sedia capovolta, tre cassetti aperti. Poi noto delle macchie rosse sul pavimento. Sangue. Le gocce s’inseguono l’una con l’altra, come le briciole di Hänsel e Gretel, a indicarmi il percorso.

«Emma» sussurro.

Lei non risponde. Dio, ti prego, fa’ che stia bene, che io possa morire senza assistere all’ennesima tragedia. Accendo la luce in corridoio. Le tracce di sangue mi conducono in bagno. Gli asciugamani sono per terra, come la saponetta, il bicchiere con gli spazzolini e la tenda della vasca da bagno. Le gocce si sono trasformate in impronte lasciate da piedi scalzi.

Devo urinare.

Dal pianerottolo giunge la voce della gattara, solo che non riesco a capire le sue parole, mi sembra di trovarmi in un mondo ovattato, di essere tornato feto circondato dal liquido amniotico.

«Ti prego» mi sento bisbigliare, «aiutami tu, come hai sempre fatto!»

Ma Caterina è lontana, come la voce della signora Vitagliano, come i miei figli, come Rossana e Marino. Sono tutti distanti da me e da quel che accade qui. Il tanfo di merda non può arrivare fino a loro.

Fuori dal bagno c’è un mobiletto rovesciato, per terra acqua e cocci di vetro. Poco più in là un pesciolino rosso si dimena e boccheggia. Se potessi, amico mio, correrei a salvarti, ti infilerei nel lavandino e aprirei il rubinetto. A nessuno dovrebbe essere negato l’ossigeno. Ti capisco, non sai quanto, ma non posso aiutarti, non ora.

Mi dispiace.

Mi volto ed entro nell’ambiente di fronte, la stanza da letto. Le ante dell’armadio sono aperte, alcuni vestiti per terra. Sul materasso una valigia piena per metà, ai miei piedi una scarpa sporca di sangue. Le gambe stanno per cedermi e mi accascerei sul letto se non notassi una mano fuoriuscire da dietro il mobile. Non so come, ma in un attimo mi trovo inginocchiato accanto a Emma. Ha gli occhi aperti e rantola, del sangue le esce dalla bocca, ha la faccia tumefatta, un braccio sotto il bacino in una posizione innaturale, e una grossa chiazza di sangue che si espande sotto la nuca. Intorno a lei schegge dello specchio a muro, con ancora fotografato il punto esatto dove la testa ha incontrato il vetro. Alcuni rivoli di sangue scendono copiosi dalla parete e gocciolano sul pavimento, a pochi centimetri da ciò che rimane di Emma.

Credi di aver visto tutto in ottant’anni di vita, di essere preparato a ogni situazione e di poter intervenire con l’esperienza, invece ti accorgi che non sai nulla, che le malattie, i dispiaceri e i traumi che ti hanno segnato non sono serviti a fortificarti. Non si impara mai come affrontare un dolore, si vive e basta. Come sto facendo io, senza neanche rendermene conto. Agguanto la sua mano e le scruto gli occhi. Lei vorrebbe parlare, ma non ci riesce. Alzo lo sguardo. Sulla porta c’è Eleonora che osserva la scena con la bocca spalancata.

«Chiama il centodiciotto» le dico.

Lei rimane immobile.

«Hai sentito che ho detto?» urlo.

La gattara annuisce e scompare dalla mia vista.

«Adesso arriva l’ambulanza, non ti preoccupare. Vedrai, pochi giorni e sarai di nuovo in sesto.»

Sul letto c’è un asciugamano. Lo afferro e glielo metto sotto la testa, per cercare di fermare l’emorragia. Non so se sia la cosa giusta da fare, ma agisco d’istinto, non ho tempo di riflettere. Mi sforzo di sorriderle e di non guardare la chiazza che si allarga a vista d’occhio. Solo che, l’ho detto, non sono più bravo a fingere, lei se ne deve accorgere perché mi fissa con occhi lucidi che sembrano implorarmi di non abbandonarla.

Conosco questo sguardo, è lo stesso col quale Caterina mi ammutoliva. Perciò mi sforzo di aprire la bocca, anche se non so quel che dico. La vita mi sta dando una seconda possibilità. Non capita spesso.

«Non pensare a nulla, adesso andremo in ospedale, ti cureranno e dopo inizierà un nuovo percorso. Ti giuro che avrai ciò che meriti, fosse l’ultima cosa che fa questo vecchio rimbambito che ti ritrovi davanti!»

Lei stavolta sorride e mi stringe piano la mano. Il suo sangue coagulato rende la nostra presa ancora più salda. La gattara compare di nuovo sull’uscio e ci dedica uno sguardo misericordioso. Annuisco e torno da Emma. Mi sembra che i suoi occhi stiano perdendo la luce.

«Anzi, sai che ti dico? Una volta che ti sarai rimessa, ce ne andremo a fare un bel viaggetto. Sono anni che non mi muovo. Sempre se a te va bene, ovvio. Capisco che la compagnia di un vecchio non sia la tua massima aspirazione, ma dovrai abituarti, non ti mollerò facilmente!»

Lei sorride ancora. Almeno, così mi sembra. O così mi piace pensare. In realtà la sua stretta comincia a essere labile e l’asciugamano è ormai rosso e fradicio. Sento il bisogno di piangere e andare in bagno. Pochi minuti ancora e me la faccio addosso. Allora continuo a chiacchierare, in attesa che arrivi l’autoambulanza.

«Però, ti avverto, non sono granché come compagno di viaggio. Sono pigro, non riesco a scattare una foto perché mi tremano le mani, il mio colon ogni tanto fa le bizze, e sono anche abbastanza scontroso. Ma lo sai, con i vecchi ci vuole pazienza!»

Stavolta sono il solo a sorridere delle mie parole. La signora Vitagliano ha trovato il coraggio di fare un passo all’interno della stanza e ci guarda come fossimo due fantasmi. Emma è pallida e mi sembra che stia sudando freddo. Trema. Afferro il lenzuolo dal letto e la copro, quindi mi avvicino al suo orecchio, a pochi centimetri dalla chiazza scura che continua inesorabile il suo percorso verso il battiscopa. Il sangue ci fa paura. Il nostro corpo ci fa paura, lo troviamo buio e ignoto, come lo spazio, e a entrambi cerchiamo di non dar troppo peso, per non restarne schiacciati.

«La vuoi sapere una cosa buffa? Un segreto che non ho mai rivelato a nessuno?» sussurro poi. «Quella Emma di cui ti parlai, la donna della quale sono stato perdutamente innamorato...»

Emma muove le pupille. Allora sta ascoltando ciò che dico.

«Era più giovane di te quando la conobbi, e non sono mai riuscito a conquistarla. Non mi guardare così! Ero sposato, ma non ho mai detto di essere un brav’uomo.»

La gattara volge un po’ il capo, per tentare di sentire le mie parole, ma è troppo sorda per captare qualcosa.

«Comunque... non ti ho rivelato la cosa peggiore.»

Aspetto qualche secondo. Pensavo di portare questo segreto con me nella fossa, invece mi trovo a confessarlo a una ragazza conosciuta da poco.

«Emma è la sorella di mia moglie...»

Stavolta sono sicuro che ha capito. La mano, anche se in modo lieve, si stringe attorno alla mia. Forse, se potesse, Emma mi darebbe dello stronzo, in queste cose le donne sono molto solidali. Perciò non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Rossana. Forse per questo ho deciso di farlo adesso, con l’unica persona che non può rispondermi.

«A ogni modo...» tento di proseguire, ma in quell’istante piombano in camera due infermieri che mi allontanano da lei in modo brusco.

Resto per terra a osservare Emma soccorsa da individui che si muovono all’unisono e sembrano sapere ciò che fanno. Non parlano fra loro, uno agisce, l’altro controlla i battiti, quindi le osserva le pupille. No, non guardatele gli occhi, vorrei urlare, sono bui, ma presto si riaccenderanno. Non accorgetevi che Emma sta morendo, vi prego. Provo ad alzarmi, ma sono subito costretto ad appoggiarmi sul letto. Il mondo intorno a me gira. I due infermieri sono ancora alle prese con Emma, le afferrano il braccio da sotto il bacino e lo ruotano. Decido che è troppo, esco dalla stanza e dalla casa e arrivo sul pianerottolo, dove nel frattempo si sono accalcati i condomini. Stoppo con la mano Marino che mi viene incontro e raggiungo la finestra del piano, la apro e rimetto. Una zaffata di aria fresca mi sbatte contro il volto e mi sembra solo allora di tornare a respirare. Qualche metro più sotto la sirena di una volante colora di azzurro i volti delle poche persone ferme col naso all’insù. Rientro in casa, Emma è sulla barella e ha gli occhi chiusi. Non faccio domande, non voglio sentire risposte. Arrivano due poliziotti che si guardano intorno con aria pensierosa e poi chiamano i colleghi via radio. Uno dei due mi fissa, forse vorrebbe avvicinarmi, ma per fortuna i medici distolgono la sua attenzione con una domanda: «Lei viene con noi?» dicono, rivolti a me.

Annuisco, i poliziotti dovranno aspettare. Tanto lo sanno che non posso essere stato io, un vecchio non ha la forza di combinare un simile disastro. La follia dovrebbe attendere la terza età per manifestarsi, farebbe molti meno danni.

Seguo la barella. Emma non è più cosciente. Fuori dalla stanza da letto lo sguardo mi cade sul pesce rosso. Non si agita più, ha smesso di soffrire. Anche nella vita di un povero pesce conta la fortuna, si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Se fosse capitato in casa mia, adesso starebbe vagando placido nella sua vaschetta, al più imprecando per la melma nella quale è costretto a trascorrere l’esistenza.

A nessuno è dato scegliere dove sarà collocata la sua boccia di vetro, se nella tranquilla cucina di un vecchio pensionato o sul mobile del corridoio di una casa nella quale si consumerà una tragedia. È il caso, così si dice, a decidere. E a volte può stabilire che il nostro mondo debba andare in mille pezzi e a noi non resti che boccheggiare nella speranza che qualche anima pia passi da lì e ci raccolga.

Il problema è che, quasi sempre, l’attesa è più lunga dell’agonia.