Nessuno può essere salvato se non lo vuole
Uno dei gatti della signora Vitagliano ogni tanto viene a farmi visita. Il benedetto felino esce sul ballatoio, circumnaviga il fabbricato e si imbuca in casa mia. Credo sia colpa anche di Emma, che gli fa trovare sempre la finestra chiusa, cosicché il micio è costretto a percorrere altri metri per trovare un’anima pia che accolga il suo desiderio di fuggire dall’affetto morboso di Eleonora. E se, come adesso, le imposte sono chiuse, rimane là fuori a grattare finché sono costretto ad aprire.
Un bel problema, insomma, ma anche una compagnia. Mi alzo e lo afferro per la collottola, per poi adagiarlo sul letto. Sono le tre e mezzo del mattino e di chiudere occhio non se ne parla. Il gatto si chiama Fuffy, ma io l’ho soprannominato Belzebù. Fuffy come nome fa schifo, solo una donna poteva sceglierlo.
Nel condominio nessuno sopporta Eleonora Vitagliano perché i suoi gatti randagi la seguono fin dentro il portone. La verità è che quei felini sarebbero capaci di gettarsi dal quinto piano per lei. E vorrei anche vedere, li rimpinza dalla mattina alla sera! Non mi meraviglierei se uno di quei poveretti soffrisse di colesterolo o diabete.
Comunque a me, in fin dei conti, la gattara piace, da giovane era anche simpatica e solare. Oggi è più scontrosa, meno disponibile verso il prossimo, però non dà molto fastidio e fa del bene agli animali. E se fossi arrivato alla mia età senza rendermi conto di quanto le bestie meritino il nostro rispetto, vorrebbe dire che non ho capito nulla di come stanno le cose.
A ogni modo il micio l’ho chiamato Belzebù perché è tutto nero e ha gli occhi che riflettono bagliori rossi. Un diavolo, insomma, che vaga per il condominio in cerca di qualche stupido umano che gli offra una bella ciotola di croccantini. Io crocchette non ne ho, solo che il suo miagolio incessante nel silenzio della notte mi snerva. Vado in cucina e mi paralizzo di fronte allo spettacolo desolante del frigo che accoglie solo tre uova, un po’ di prosciutto cotto, un pacco di sottilette, una bottiglia di vino e del latte. La scelta ricade sul prosciutto e sul latte. Mi siedo al tavolo della cucina e lancio il prosciutto al mio amico, il quale lo divora in un istante e poi rimane lì, fermo, a guardarmi con occhi supplichevoli.
«Mi dispiace, bello, non ho null’altro da darti, ti devi accontentare.»
Verso un po’ di latte a lui e del vino a me, e nel frattempo mi fermo a riflettere sulla scena alquanto ridicola: sono seduto in piena notte in compagnia di un animale, ognuno col muso dentro una bevanda. Per fortuna la mia è molto più buona.
Non mi dispiacerebbe, comunque, essere un gatto, uno che non si lega mai davvero a nessuno, uno che «decide» di amare perché, in fondo, non ne ha bisogno e se la sa vedere anche da solo. Mi piacciono i tipi che se la cavano senza rompere le balle agli altri. Ecco, se dovessi rinascere animale (il che, dati i miei numerosi peccati, è un’eventualità da non scartare) vorrei essere un gatto. Mi troverei anch’io una gattara da spolpare e me ne andrei tutto il giorno in cerca di qualche micetta da corteggiare. Sarei uno di quei felini sporchi, con la testa grande e gli occhi scuri, che vagano fra i bidoni dell’immondizia come i ghepardi fra gli alberi della savana. Marino, invece, sarebbe un persiano o un siamese, insomma una di quelle razze che nel corso dei secoli si è adattata alla casalinghità diventando incapace di vivere per strada. Un persiano ha impiegato generazioni per tramutarsi in un debosciato che ha bisogno degli altri, a Marino, invece, è bastata una sola vita.
Un colpo sordo rimbomba sul pianerottolo. Belzebù si volta solo un istante e torna subito al latte. Io mi alzo e m’incammino per il corridoio.
«Stronza, apri!»
Guardo nello spioncino e vedo lui, il picchiatore, che tira pugni contro la sua porta di casa e inveisce. «Maledetta, aprimi subito, se no te ne pentirai!»
Sembra ubriaco. Devo fare qualcosa, ma se ci rifletto troppo non faccio nulla.
Apro la porta.
Lui si gira e mi guarda come se avesse appena visto un marziano scendere da un ufo.
«E allora? Che modi sono di rivolgersi a una signora?»
Non so cosa cavolo sto combinando, agisco d’istinto. In alcuni casi o ci si lascia guidare da lui o non si combina nulla.
«Che cazzo vuoi?»
Puzza di alcol e mi sembra anche abbastanza incazzato. Forse dovrei chiudere e tornarmene a bere, ma sono troppo orgoglioso. E poi, cavolo, chi mai avrebbe il coraggio di picchiare un povero vecchio?
«Mi ha svegliato e sta anche infastidendo sua moglie, ecco cosa voglio!»
Lui si avvicina e ficca gli occhi nei miei. Poi, con alito fetido, esprime il suo pensiero: «Fottiti!» dice secco.
Marino, al mio posto, abbasserebbe lo sguardo, chiederebbe scusa e arretrerebbe in casa. Invece ci sono io, e Cesare Annunziata è ben diverso dagli altri vecchi. Se qualcuno mi pesta il piede, reagisco, anche a costo di rimetterci un femore. Allora metto in scena una delle mie classiche sceneggiate, una di quelle che mi riesce meglio.
«Stronzo, sta parlando con un generale dell’esercito in pensione, veda di moderare i toni, altrimenti le tolgo quell’espressione idiota dalla faccia!»
Lui indietreggia e io mi produco in un ghigno di soddisfazione. Il generale dell’esercito funziona sempre. Il bastardo sta per ribattere qualcosa, ma proprio allora si apre la porta e sulla soglia compare lei. L’uomo racchiude tutta la rabbia accumulata nello sguardo che dedica alla moglie, poi si lancia in casa e sparisce. Emma, invece, rimane sull’uscio e si gira verso di me. Le sorrido, fiero di me stesso, solo che la signora non sembra tanto contenta.
«Ma lei cosa vuole da me? Si faccia i fatti suoi, nessuno le ha chiesto niente!» E chiude la porta. Resto sul pianerottolo con ancora il mezzo sorriso stampato sul volto, poi sbuffo contrariato e mi avvio in bagno. Devo urinare, come sempre accade quando mi arrabbio o mi agito. Mi siedo sul water e arriva Belzebù a strofinarsi contro i miei polpacci raggrinziti. Mi rivolgo a lui, il mio unico interlocutore: «E io che quasi mi facevo ammazzare per difenderla! Sono un vecchio stupido e romantico. Nessuno può essere salvato se non lo vuole. In quasi ottant’anni ancora non l’ho capito!»
Belzebù mi fissa stranito, poi decide di non perdere tempo con un vecchio rincitrullito che parla da solo, e passa a leccarsi una zampa. L’ho sempre trovato un modo geniale di lavarsi: economico, non sporca l’ambiente e non ti fa perdere tempo. Solo che ci avrebbero dovuto fare snodabili e con la lingua prensile. Mi chiedo spesso perché ci abbiano costruito così complessi, che bisogno c’era di tutti questi organi, capillari, sangue, viscere, unghie, peli? Possibile che non ci fosse un’alternativa più semplice? E poi perché abbiamo bisogno di energia dall’esterno, di cibo e acqua? O dell’ossigeno? Perché non farci autosufficienti? È un discorso complesso e se me ne resto ancora un po’ seduto finisce che non sento più le gambe e per tornarmene a letto mi tocca chiamare il centodiciotto.
Suona il campanello. Belzebù corre a rifugiarsi sotto il divano. Guardo l’ora: sono le quattro e un quarto. Stanotte è più movimentata del solito. Sarà Emma che si vuole scusare, o, forse, è il marito che ci ha ripensato e mi vuole picchiare. Mi fermo a metà corridoio e tendo l’orecchio. Suonano di nuovo, un tocco breve. Il mio aguzzino mi vuole ammazzare ma, al contempo, si preoccupa di non svegliare l’intero condominio. Per una frazione di secondo sono tentato di tornarmene a letto e usare i tappi che ancora conservo nel cassetto del comodino, poi penso alla faccia da salame di Marino e apro la porta. Se c’è da morire, ebbene, voglio farlo da vivo.
Di fronte a me si staglia la sagoma inerme di Eleonora Vitagliano, in pantofole e vestaglia.
«Ciao» esordisco.
«Ciao, scusami per l’ora, ma ti devo parlare.»
Non sono abituato a far entrare donne nel mio appartamento, soprattutto se mi trovo in pigiama, ma il termine «donna» per la mia vicina è inappropriato. Appena chiudo la porta, arriva Belzebù.
«Amore, ecco dove ti eri cacciato!» fa lei e afferra in grembo il gattone ruffiano che si è già dimenticato del sottoscritto e del prosciutto sbafato.
«Cesare, ho assistito alla scena di poco fa...» pensa di sussurrare lei, ma siccome è sorda il suo tono di voce è del tutto sproporzionato alla mimica del viso.
«Ah» commento io, non sapendo che altro dire.
«Hai fatto proprio bene a intervenire» prosegue, «quell’individuo meritava qualcuno che gli tenesse testa.»
Annuisco e resto sulla porta d’ingresso, sperando che in tal modo la vecchiaccia capisca e tolga il disturbo. Invece rimane lì, con Fuffy in braccio, a guardarmi fisso in volto.
«Eleonora, sono le quattro del mattino...» tento di dire, ma lei nemmeno mi ascolta.
«Credo che quell’uomo picchi la moglie!»
Sgrano gli occhi. Allora la nonna è meno rimbambita di quanto pensassi.
«E tu che ne sai?»
«Come?»
Alzo di un tono il volume della voce.
«Dicevo... ne sei sicura?»
«Sì, sì, sono sicura. Sai, io non sento tanto bene, però quelli ultimamente fanno un tale baccano...»
«Già...»
«Pensa che l’altra notte li ho visti tornare a casa e lei aveva un panno sulla bocca.»
«In ogni caso la ragazza mi ha detto di non immischiarmi. E così farò» replico secco.
«E se succede qualcosa?»
«Non sarà certo colpa mia.»
«Potremmo chiamare la polizia.»
«Chiamala tu, io stavo per essere aggredito e mi sono preso anche un rimbrotto. Comunque, Eleonora, capisco la tua inquietudine, davvero, ma, sai com’è, è tardi...»
«Sì, scusami, hai ragione. Il fatto è che io la notte non riesco più a dormire.»
«Già, ti capisco.»
Strana la vita. Quando sei giovane e forte dormiresti sempre, quando diventi un rammollito e poltrire sarebbe un bel modo di far passare il tempo, non vuoi più saperne di chiudere gli occhi.
«Però, se quei due litigano ancora io ti chiamo» precisa la donna mentre esce sul pianerottolo.
«Va bene» rispondo. Sarei capace di prometterle qualunque cosa in questo momento.
Saluto lei e il felino marpione e mi richiudo la porta alle spalle. Getto un altro sguardo all’orologio, sono le quattro e mezzo del mattino. Ormai è anche inutile tentare di dormire, meglio mettere la caffettiera sul fuoco. Che bella nottata! Una bevuta in compagnia di un gatto adulatore, un litigio durante il quale mi facevo quasi ammazzare, un rimprovero da una vicina antipatica che cercavo di difendere e una chiacchierata con Eleonora Vitagliano. Meno male che fra un po’ sorge il sole. Nel frattempo è meglio che vada a farmi una doccia. Ha ragione il condominio, la gattara sarà anche simpatica, ma, Dio, quanto puzza.