Superman con la gonna
Ai miei tempi gli invitati a una festa erano trattati con riguardo, serviti e riveriti. Adesso, invece, esiste il buffet, un modo come un altro per complicare la vita a delle povere persone che già sono state costrette a infilarsi l’abito buono, prendere un taxi e presentarsi alla serata con il solito sorriso di circostanza. Per quel che mi riguarda, non è andata proprio così, io non ho indossato alcun abito speciale, ma il vestito che uso tutti i giorni. Ho smesso di complicarmi la vita con la terza età, tanto nessuno rivelerà mai a un vecchio che si è vestito in modo inappropriato. La gente intorno a me, invece, è piuttosto elegante, cammina per la sala fingendo di ammirare i quadri di Perotti, ma, in realtà, è molto più interessata ai vassoi del cibo. Il problema è che avvicinarsi alla tavola è impossibile, alcuni ospiti sono riusciti a impossessarsi della prima fila e non l’abbandonano. Per fortuna io sono vecchio e i vecchi aspettano seduti che qualche familiare porti loro un piatto bello e pronto.
«Tieni» dice Sveva e mi porge il cibo.
Ecco a cosa serve una figlia femmina. Dante, invece, a mangiare non ci pensa proprio, vaga da un quadro all’altro, sorride, fornisce spiegazioni, stringe mani, fa qualche saluto ossequioso.
«Perché tuo fratello è così reverenziale con quella gente?» chiedo polemico.
«Reverenziale? Non mi sembra, è solo gentile.»
«La differenza è sottile.»
«Già, e tu non la conosci.»
Mia figlia non mi sopporta, dovrei prenderne atto e fare qualcosa. Ma solo pensare di affrontare il problema mi annoia.
«Tuo marito?» chiedo per cambiare discorso.
«Lavora fino a tardi.»
Come sempre accade, appena un matrimonio va a rotoli si inizia a lavorare fino a tardi, a fare riunioni su riunioni, viaggi improvvisi.
Rimaniamo in silenzio, uno di fianco all’altra, lei guarda la gente, io lei. Chissà perché Sveva mi detesta. Eppure, quand’era piccola, mi sono dato da fare. Forse se l’avessi lasciata alle cure della madre ora sarebbe diverso. Se tenti di educare un figlio, puoi solo sbagliare; se invece lasci stare, forse ti trovi un adulto che non t’incolpa delle sue debolezze.
«Che c’è, qualche problema fra voi?»
Lei si volta con gli occhi spalancati dallo stupore. E, in effetti, credo di non averle mai fatto una simile domanda. C’era Caterina per questo.
«Perché? Cosa te lo fa pensare?»
«Be’, lui non si vede mai e se ti chiedo qualcosa rispondi irritata.»
«Ma quando mi chiedi qualcosa? Quando mai mi hai chiesto qualcosa? Cos’è questa novità adesso?»
«Lo vedi? Sei aggressiva. Le donne lo diventano se si sentono all’angolo» ribatto con tono disinvolto, prima di afferrare al volo un bicchiere di prosecco offertomi da un cameriere gentile.
«Tu che parli di donne, una barzelletta!» fa lei e mi sfila il calice di mano. «La vuoi smettere di bere? Oppure ci tieni tanto ad ammazzarti?»
Sbuffo. «Sveva, sei noiosa.»
Lei sorride e mi afferra la mano. Vorrei ritrarmi, per non fare la figura del vecchio deficiente consolato dalla figlia paziente, ma la stretta è troppo forte.
«Comunque a me va tutto bene. Tu, piuttosto, come te la cavi?»
«Benissimo, come sempre.»
«Già» risponde lei con voce amara, «è vero.»
«Cosa?»
«Sei bravissimo a stare da solo. È in compagnia che hai qualche problema.»
Mia figlia mi conosce bene. Il che è una grande comodità, con lei non c’è bisogno di spiegazioni. Mi piacciono le donne che non ne chiedono.
«La gente non mi attrae, lo ammetto.»
Torniamo a osservare le persone che si trastullano da un quadro all’altro masticando tortini, finché, a un certo punto, Sveva si alza ed esclama: «Perché non vai un po’ da Dante? Sei seduto qui da quando sei arrivato».
«Be’, si sta comodi. E se mi alzo mi fregano il posto.»
«Fa’ come vuoi. Però credo che a lui farebbe piacere un tuo commento, anche solo un sorriso.»
Poi sparisce nella folla. Non ho più l’età per fare il padre, troppe responsabilità. Sono stato sfortunato, se ora ci fosse Caterina andrebbe lei a complimentarsi con Dante e ad ascoltare il racconto della vita artistica di Perotti, io me ne starei placido al mio posto a bere prosecco e a guardare la gente. Se ci fosse stata mia moglie, ci sarebbe andata lei l’altro giorno a prendere Federico a scuola e io non avrei visto la mano del pilota di Suv sulla coscia di mia figlia. Invece mia moglie è morta e se n’è lavata le mani. E meno male che l’egoista ero io.
Mi alzo, afferro un altro bicchiere di prosecco e mi avvicino a un quadro, una specie di foto ritoccata al computer: sullo sfondo la bandiera americana e in primo piano Superman con la esse stampigliata sul petto e... una minigonna attillata!
«Che ne pensa, le piace?»
Mi volto. Al mio fianco c’è un uomo sui quaranta con una giacca di velluto beige e un bicchiere di vino rosso in mano. In testa ha un cappello a cilindro.
«Be’, diciamo che è divertente.»
Lui sorride. «Sì, lo penso anch’io.»
Mi giro di nuovo verso il quadro, nel tentativo di liberarmi di lui, ma dopo poco questi riattacca: «Lei è il padre di Dante, vero?»
Uffa, non c’è niente di peggio di una persona socievole. Cosa c’è mai di tanto spassoso nel conoscere un nuovo individuo? Tanto siamo tutti uguali, chi più chi meno, un mucchio di difetti che passeggia per strada e incontra altri mucchi simili.
«Già.»
«Dante parla spesso di lei.»
«Ah sì?»
«Sì» ribatte lui.
È soddisfatto per aver attirato la mia attenzione. Non immagina, poverino, che la mia attenzione, invece, è tutta per una donna dietro di lui, una con un seno enorme, simile a quello di Rossana. Se fossi più giovane, dovrei cercare di capire il perché di questa fissazione e magari leggere Freud, ma sono vecchio, posso fregarmene e fissare le tette senza farmi troppi problemi. In ogni caso devo liberarmi di questo pseudoartista dei miei stivali. Mi scolo l’ultimo sorso e porgo il bicchiere al mio interlocutore, che mi guarda incuriosito.
«Me lo tiene? Devo andare in bagno.»
Lui si prodiga in un sorriso imbarazzato e afferra il calice. Entro nella toilette, mi soffio il naso, mi guardo allo specchio, scoreggio, tiro lo sciacquone e apro la porta. Ad attendere nell’antibagno c’è la donna formosa dal seno grande che mi scruta con aria severa. Forse ha sentito il rumore. Chiede permesso, vorrebbe entrare, ma tento di impedirglielo, almeno fino a quando l’aria fetida del mio colon non si sarà dissolta. Il donnone mi guarda spazientito mentre continuo a sorriderle come un ebete.
«Allora, mi fa passare?»
«Certo, certo» rispondo e mi allontano.
A ogni modo la magra figura è servita a raggiungere lo scopo; al mio ritorno in sala, infatti, l’uomo col cilindro è stato inghiottito dalla folla. Ne approfitto e raggiungo Dante che sta parlando a un gruppetto di quattro persone che lo ascolta con attenzione. Ogni tanto si gira verso il quadro alle sue spalle e indica un particolare. È gay, c’è poco da fare. Non capisco perché se ti piace l’uccello devi muoverti e gesticolare come un deficiente. Le donne non hanno simili atteggiamenti. Impossibile che i suoi ascoltatori non se ne siano accorti. Forse non ci fanno più caso. A me, invece, sembra che peggiori di giorno in giorno.
Comunque, dicevo, il ruolo di padre non fa più per me. Con gli anni sono diventato troppo sincero, con me stesso e con gli altri. Se mio figlio fa la checca, io lo dico, anche se penso che faccia bene a comportarsi come desidera. Solo vorrei che avesse il coraggio di confessarmelo. Cosa si aspetta che gli dica? Cosa me ne può mai fregare se va a letto con una figa pazzesca o con un uomo calvo e peloso? Oddio, un po’ di brividi mi vengono se immagino la scena...
Dante mi nota e fa cenno di avvicinarmi, così da presentarmi ai suoi invitati. Stringo mani senza ascoltare nomi che, tanto, dimenticherei dopo un secondo. Una volta rimasti soli, lui se ne esce con la classica domanda: «Allora, ti piace?»
Mi guardo in giro e rispondo: «Sì, bello».
«Pensavo che i quadri fossero un po’ troppo ’surreali’ per i tuoi gusti.»
«Allora vuol dire che mi conosci poco. Tutto ciò che è surreale a me piace. È la realtà ad annoiarmi.»
Dante sembra compiaciuto della risposta.
«Piuttosto, ti volevo chiedere: chi è la signora vestita di blu?»
«Quale?»
«Quella col seno enorme» dico e indico il punto esatto.
Lui afferra il mio dito con uno scatto felino.
«Ma che fai, sei impazzito? È la moglie di uno dei miei collezionisti migliori!»
Cerco di non fermarmi a riflettere sull’improvvisa sfumatura rosa che ha assunto la sua voce e ribatto: «Be’, credo che il pezzo migliore della sua galleria sia in carne e ossa».
Dante si lascia andare a un risolino contenuto, ma, in realtà, capisco che non è felice del mio comportamento. Se ci fosse stata Sveva al suo posto, sai che paternale!
«Tranquillo» dico subito dopo, «stavo scherzando.»
Il che non è vero, ma non voglio imbarazzarlo. Anzi vorrei che fosse lui, anche una sola volta nella vita, a imbarazzare me. Ma capisco che l’affare è alquanto complicato.
«Vieni» dice subito dopo, e mi afferra per il braccio, «ti voglio presentare l’artista, nonché mio grande amico.»
Mi conduce dall’altro lato della sala e mi piazza davanti all’uomo con la giacca beige e il cappello a cilindro. Osservo quest’ultimo, poi mio figlio. Infine chiedo: «Lui è l’artista?»
Dante annuisce fiero e mi presenta Leo Perotti, l’uomo socievole dal quale sono scappato con una scusa banale; ha ancora il medesimo sguardo pacato e sicuro impresso sul volto. Se bastasse dipingere per essere soddisfatti della propria vita, mi iscriverei a un corso di pittura, ma, ahimè, ho paura che per alcuni il bello incontrato da adulti non serva a cancellare il marciume che si portano dietro dall’infanzia.
Perotti mi stringe la mano e commenta: «Per fortuna non ha detto che il quadro faceva schifo!»
«Già» ribatto, «ma stia tranquillo, se l’avessi pensato, l’avrei detto.»
«Ah, su questo non ci sono dubbi! Diciamo che mio padre non ha peli sulla lingua» commenta Dante divertito.
«Fa bene» ribatte Perotti, «la sincerità aiuta a vivere meglio!»
Vorrei tanto fuggire dalla discussione sterile, solo che Dante continua a tenermi il braccio con una stretta eccessiva rispetto alla situazione, come se ci trovassimo su un vagone della metropolitana senza nessun tubolare al quale aggrapparsi. È agitato, me ne accorgo perché strizza gli occhi di continuo, un tic che si porta dietro dall’infanzia. Una bella comodità per un genitore. Bastava una bugia innocente per stanarlo. Ricordo che Caterina voleva portarlo da uno specialista, all’epoca li chiamavano così, il termine psicologo non esisteva o, comunque, era considerato troppo «forte». Se trascinavi tuo figlio da uno psicologo, voleva dire che era matto, c’era poco da fare. Ben altra cosa se lo accompagnavi da uno specialista. Dante non andò da nessuno dei due. E questi sono i risultati.
Non so come continuare la conversazione nella quale, mio malgrado, sono stato catapultato. Purtroppo devo imparare ad accettare che con Dante non riesco a essere me stesso, non so mai cosa dire o fare.
Si avvicina Sveva che mi agguanta il braccio rimasto libero. Non so se i miei figli pensino che io sia così rimbambito da non stare in piedi o se, al contrario, sono loro ad avere ancora bisogno di un sostegno.
«Papà, io me ne vado. Vuoi un passaggio?»
Grande Sveva, arrivi al momento giusto!
Saluto Dante e il suo troppo cordiale amico e m’infilo in auto.
«Grazie per avermi salvato» esordisco mentre accende il motore.
«Sei proprio un burbero. Dante è stato così carino, la mostra era bella e l’artista è proprio bravo. Dovresti solo essere fiero di tuo figlio!»
«E chi ti ha detto che non lo sia?»
«Allora non lo dimostri.»
«Infatti, non lo dimostro, non ne sono capace.»
«Così ti piace pensare, è più comodo.»
Appoggio la nuca sul poggiatesta e socchiudo gli occhi. Mi viene il mal di testa al solo pensiero di infilarmi in una nuova discussione con mia figlia. Lei, per fortuna, guarda la strada e non apre bocca, anche se il rancore che l’attraversa si rivela nei movimenti repentini con i quali inserisce la freccia o cambia marcia. Io ho tanti difetti, ma credo di essere un uomo pacifico, difficilmente mi arrabbio o do in escandescenze. Sveva, al contrario, è come se ce l’avesse col mondo intero. Credo sia per via del discorso sulla sincerità appena abbozzato con l’artista simpatico e gay. Sì, anche lui lo è, come buona parte delle persone presenti alla mostra. A ogni modo, dicevo, Sveva è poco sincera con se stessa, perciò accumula repressione e rabbia. E c’è poco da fare, la rabbia, per l’organismo, è come le feci: un residuo che non serve e deve essere espulso. Io per mia figlia sono un ottimo lassativo.
«Senti, ma perché non cambi lavoro?» domando dopo un po’.
Lei si gira, ancora più tesa in viso. «Perché mai dovrei cambiare lavoro?»
«Per essere più felice.»
Mi aspettavo un successivo scatto in avanti dell’ira, Sveva invece sorride. Almeno sa ancora sorprendere un vecchio che non sa più sorprendersi.
«Papà, per te è sempre tutto facile. Sei infelice? Cambia lavoro, marito, figli. Le cose non sono così semplici come le dipingi.»
«Perché sei giovane, quando invecchi e capisci che di tempo ne rimane poco, hai voglia se diventa semplice cambiare!»
Lei non risponde, io mi giro a guardare la strada e a pensare a Dante e a quanto mi senta uno schifo dopo averlo visto. Dante, per me, è come lo specchio in camera di Rossana, riflette senza pietà le mie imperfezioni.
«E tuo fratello» riprendo, «secondo te è felice?»
«Ma cosa sono tutte queste domande sulla felicità?»
«Vorrei vedervi contenti.»
«No, non è vero, è che ti senti in colpa.»
Già, ha ragione. Sveva è un osso duro, non ha paura di me, come, invece, il fratello. E poi è un avvocato, smascherare i bugiardi fa parte del suo lavoro.
«In ogni caso non ti preoccupare, nonostante le tue mancanze, siamo venuti su lo stesso» prosegue e mi tira uno schiaffetto sulla gamba.
«Sei sempre gentile.»
«Se non vuoi sentirti dire le cose, non fare domande. Sei sempre stato zitto e contento, continua così...»
Siamo già arrivati, mi tocca scendere.
«Comunque, credo sia sereno» aggiunge infine.
«Perché non mi dice che è gay?»
«Ancora con questa storia? Non mi tirare in fatti che non mi riguardano!»
Poi mi schiocca un bacio sulla guancia. È il suo modo di dire che adesso ho rotto e devo scendere dall’auto. Ho già chiuso lo sportello quando busso con le nocche sul vetro. Aspetto che abbassi il finestrino per sporgermi nell’abitacolo. «Di’ la verità, l’artista cordiale che dipinge Superman con la minigonna è il suo compagno?»
«Ciao, pà» dice lei e alza il vetro. Poi parte.
Sì, è il compagno. Spalanco il portone e chiamo l’ascensore. Se non altro Leo Perotti è gentile e sorridente. A Caterina sarebbero bastate queste qualità per farselo piacere. Io, invece, una nuora la immaginavo abbastanza diversa. Ma non mi lamento, almeno non è calvo e peloso.