La terza di tre donne irraggiungibili

C’è una grande differenza fra l’amore per una donna che non potrai mai avere e quello per una che hai. Il primo risplenderà in eterno, il secondo tenderà, invece, a spegnersi, come il sole fra qualche miliardo di anni. Entrambe le estinzioni portano un bel po’ di problemi. Ma parliamo di donne, non di astri, anche se credo che sarebbe più facile conversare dei secondi.

Emma è la sorella di mia moglie, di qualche anno più giovane. Quando conobbi Caterina, lei aveva all’incirca vent’anni. In un primo momento non la notai, da ragazzi si cerca di flirtare con le donne più grandi, per sentirsi importanti. E, in fin dei conti, non si tratta neanche di un errore decisivo, per posare lo sguardo sulle più giovani, infatti, c’è una vita intera davanti.

Di Emma, perciò, mi sono innamorato piano, uno scalino alla volta. Quando la passione per mia moglie è iniziata a scemare, ho provato rabbia e smarrimento. Rabbia verso me stesso, perché non riuscivo a custodire l’amore, smarrimento perché la donna che non mi provocava più emozioni era nel mio letto ogni sera. Così decisi di farci due figli, almeno loro avrebbero dato un significato alla mia storia d’amore senza amore. Lo so, non è stato un bel gesto, ma sono sicuro che molti sappiano di cosa parlo.

A ogni modo, a un certo punto accadde l’imprevisto: Emma si separò dal marito e Caterina la invitò a trasferirsi da noi per un po’, così da aiutarla con il bimbo piccolo. Lei aveva ventisei anni, io quasi quaranta, eppure in quel periodo mi sembrò di essere tornato anch’io ragazzo. Mia moglie a quel tempo aveva già indurito le mascelle per parare i colpi, Emma, invece, percorreva il tragitto ancora a bocca aperta. Lo sguardo e il corpo emanavano vita e leggerezza, sensazioni a me già estranee da un po’, e mi feci rapire da tanto splendore. La voglia di gioventù è contagiosa, se ti circuisce non puoi più farne a meno. Alcuni uomini cambiano famiglia, guardaroba e casa solo in cambio di una goccia di vitalità e qualche anno di spensierata adolescenza. Io non ho cambiato né famiglia, né casa, né donna. Quello con Emma è stato un amore platonico, eppure è uno dei rapporti più intensi della mia vita, a riprova che un desiderio più è irrealizzabile, più arde incessante.

Emma e io ci lasciammo trascinare in un vortice peccaminoso fatto di sguardi rubati, mani sfiorate e abbracci mai troppo intensi. Servono molta pazienza e poco coraggio per passare una vita accanto a una donna che non ami, se nella stanza accanto c’è quella che desideri. In ogni caso lei dopo qualche mese se ne andò e la casa, d’un tratto, si fece vuota e silenziosa. Cercai di dimenticare Emma e quel periodo, ma c’era sempre Caterina a parlarmene. Una sera, ricordo che si stava passando della crema sulle mani, mi rivelò che la sorella si era innamorata dell’istruttore di sci del figlio e che l’estate l’avrebbe trascorsa da lui, in Trentino. La notte non riuscii a chiudere occhio, fantasticavo di Emma fra le braccia di un uomo muscoloso, con il viso abbronzato e pieno di rughe, e l’alito che puzzava di grappa. Lo ammetto, si tratta di un cliché, ma, in effetti, l’azione stessa di fidanzarsi con l’istruttore di sci rientra a pieno merito fra i cliché. Eppure lei davvero se ne andò sulle montagne e ci rimase per due mesi. Quando tornò, però, la sua intensa storia d’amore era già finita: l’istruttore aveva capito che una ragazza madre è più pericolosa di una pista nera ghiacciata e aveva preferito cambiare tragitto.

Quell’autunno Emma venne spesso a cenare da noi, in modo che i nostri figli stessero insieme. Non sto a dire la sensazione che mi assaliva ogniqualvolta mi voltavo e mi accorgevo che mi stava fissando. Lei subito fuggiva via con gli occhi e a me non rimaneva che contemplare come un idiota la sua sagoma, nell’attesa, vana, che trovasse il coraggio di incrociare di nuovo il mio sguardo.

Emma aveva tutto quello che Caterina aveva perso per strada: la pelle morbida, il sorriso inebriante e lo sguardo seducente. Come resisterle? E, infatti, una sera persi il controllo e mi spinsi dove non m’ero mai spinto, complice una coperta che mi faceva da palo. Eravamo seduti sul divano, Emma, Caterina e io, a guardare un film. I bambini già dormivano. Insomma, sarà stato per via della pellicola noiosa, a un certo punto avvertii le sue dita a pochi centimetri dalle mie e mi lasciai andare al più classico gesto adolescenziale, stringerle la mano. Impiegai venti minuti per abbrancarla, nemmeno fossi stato una lumaca che trascina a fatica il suo guscio. Alla fine Emma si voltò e mi guardò sbigottita. Avrei dovuto desistere, invece contraccambiai lo sguardo e non ritirai il braccio. Rimanemmo così, come una coppia di fidanzatini che sussulta mentre scopre il corpo altrui, più concentrati sul movimento minimo del pollice che sulla trama del film.

Caterina al mio fianco non si accorse di nulla, lei non si è mai resa conto di nulla. O, forse, è stata così brava da farmelo credere. In ogni caso è stato il gesto più intimo che mi abbia legato a Emma. Dopo quella sera lei si fece sfuggente. Mi evitava, e se era costretta a rivolgermi la parola, lo faceva senza guardarmi negli occhi. Si sentiva in colpa. Normale, tutti al suo posto si sarebbero fatti prendere dai tormenti. Tutti, tranne me. All’epoca non conoscevo quel sentimento anomalo che mi avrebbe fatto visita molto tempo dopo. Per anni ho ammonticchiato crucci e rimorsi in un angolo; era chiaro che a un certo punto la costruzione dovesse sbriciolarsi.

Attesi qualche mese per chiarire la situazione. Era il giorno di Natale e tutta la famiglia era riunita intorno alla tavola. Emma si sedette dal lato opposto al mio. Il tempo degli sguardi di complicità sembrava finito, tanto che iniziavo a provare imbarazzo in sua presenza, titubante rispetto al suo reale desiderio nei miei confronti. Forse mi ero illuso, avevo male interpretato alcuni suoi atteggiamenti, forse la mia sconfinata autostima mi aveva fatto compiere il passo più lungo della gamba. Eppure, quando lei si alzò per andare in cucina, la seguii con una scusa. Per fortuna le voci che giungevano dalla sala da pranzo mi mettevano al riparo da eventuali intrusioni improvvise. Emma era di spalle, le cinsi i fianchi ed esclamai: «Lo so che sarebbe una pazzia, ma mi conosci, la routine mi annoia!»

Certo non fu una grande dichiarazione d’amore, la mia, eppure lei rise, forse perché aveva imparato a conoscermi. Dopo due secondi, però, era già seria, mi fissò e rispose: «Cesare, tu sei pazzo, lo sai? Questa cosa deve finire!»

«Non è mai iniziata...»

Lei sospirò e chinò il capo. Ricordo che per un attimo pensai di baciarla, ma quello dopo lei mi gelò.

«Perché hai fatto due figli con lei se non la ami?»

Una domanda da un milione di punti. Mi sarei dovuto sedere, accendere una sigaretta e disquisire per ore sul fatto che per vivere una vita davvero degna bisognerebbe prendere decisioni importanti ogni mattina. Purtroppo per me scegliere è logorante, e non l’ho mai fatto. È per questo che sono stato un incompiuto.

Ovviamente risposi in tutt’altro modo: «Stiamo parlando di noi, non di Caterina».

A quel punto lei sbottò. «Caterina è mia sorella, sembra che a te non interessi!»

Le tappai la bocca con la mano, per evitare che il tono risentito arrivasse fino in sala da pranzo. Emma non si divincolò, allora trovai il coraggio per carezzarle il collo. Fu un atto di pura follia, devo ammetterlo, avrebbe potuto tirarmi uno schiaffo e sparire di là. E non so poi come avrei fatto a tornare a tavola. Invece lasciò che le mie dita sfiorassero la sua morbida pelle prima di socchiudere gli occhi. Allora pensai: Be’, Cesare, ora devi baciarla. E giuro che l’avrei fatto se mio nipote non fosse caduto dal triciclo proprio in quell’istante: scoppiò a piangere e si mise a chiamare la mamma come un forsennato. Due secondi dopo Emma era già di là e l’istante svanito nel nulla. La sera stessa trovai un biglietto nella tasca della giacca. C’era scritto: Non possiamo.

Ancora oggi mi capita di ripensare a quel fatidico episodio. Forse è stato il destino a metterci lo zampino. Dovrei essere grato a mio nipote che con la sua caduta riuscì a rubarsi un ricordo che avrebbe potuto farmi vergognare. Invece penso che abbia aggiunto solo un rimpianto alla mia già possente costruzione.

Emma ebbe altre due relazioni serie nel corso degli anni. Per molto tempo la incontrai solo durante le feste in famiglia. Non mi dedicò più neanche uno di quegli sguardi che mi facevano rabbrividire. Qualche anno dopo si fece convincere dalla sorella a trascorrere l’estate insieme. Di quel periodo ricordo la casa che affacciava sulla spiaggia, l’odore della brace la sera, il canto incessante dei grilli nel silenzio del pomeriggio, il cigolio della porta che dava sul giardino, il verso dei gabbiani la mattina presto, i capelli bagnati di Emma che le gocciolavano sulle spalle quando tornava dal mare. Erano passati dieci anni, ormai, da quando avevo iniziato a guardarla in modo diverso, e la sua bellezza, se possibile, si era evoluta.

Mai come in quell’estate la desiderai con tutto me stesso. Lei, però, non mi dava modo di corteggiarla, se si accorgeva che la osservavo si allontanava con una scusa e correva ad abbracciare il compagno, un commercialista simpatico che un paio di anni dopo le confidò di essere omosessuale. Quando lo seppi, mi venne voglia di correre da lui e prenderlo a schiaffi. Ma come, io le sbavo dietro da una vita e tu che puoi infilarti nel suo letto ogni sera te ne esci che sei gay? A ogni modo, quasi alla fine della vacanza, Emma cedette e ricambiò il mio sguardo complice. Allora, un pomeriggio, mentre in casa dormivano tutti, la raggiunsi al mare. Mi tuffai e in poche bracciate ero al suo fianco. Lei sembrò impallidire, ma non disse nulla. Riesco ancora a vedere sul suo volto di allora il desiderio di baciarmi. Invece dopo un po’ se ne uscì con questa frase: «Cesare, per te, forse, è tutto un gioco. Ma la vuoi sapere una cosa? Per me no. Io sono innamorata di te da sempre, da quando mi hai guardata la prima volta. Sono dieci anni che ti sfuggo e non ho alcuna intenzione di cedere adesso!»

Rimasi di sasso. Una cosa è sperare che la donna che ti fa ammattire ricambi il sentimento, altra è averne la certezza.

«Per me non è uno scherzo» ribattei serio.

«E cos’è allora?»

Mi avvicinai alla sua bocca, i suoi occhi che vagavano dalle mie labbra ai miei occhi. L’avrei baciata, poi le avrei confidato una volta per tutte di amarla, forse le avrei rivelato anche di voler lasciare sua sorella. Invece spuntò Sveva, che all’epoca aveva all’incirca dodici anni. Sentii la sua voce dietro di me e mi balzò il cuore in gola. Stava facendo il bagno con delle amiche, a pochi metri, e mi guardava disorientata, nel tentativo di interpretare la strana scena alla quale aveva assistito.

Emma avvampò in viso e si lanciò all’indietro, io, invece, sprofondai sott’acqua e ci rimasi per alcuni secondi, il tempo necessario per riprendermi dallo shock e inventare una scusa plausibile.

«Amore» dissi infine quando riemersi.

«Che fate?»

«Niente, tua zia mi stava confidando una cosa, nulla di importante» risposi con un sorriso ebete.

Emma fu più pronta, si avvicinò alla nipote e le bisbigliò in un orecchio: «Tuo padre è un gran pettegolo, vuole sempre sapere i fatti degli altri!»

Mia figlia ci squadrò, quindi decise di lasciarsi andare a un risolino. Da allora con Sveva non abbiamo mai più parlato dell’episodio, ma so che lei sa e che prima o poi me lo sbatterà in faccia. Comunque, quella fu anche l’ultima volta che mi trovai a un passo dal baciare Emma. Quando, molti anni dopo, Caterina morì, lei mi strinse a lungo, come mai era accaduto nel passato, e mi mormorò nell’orecchio: «Ringraziami, adesso avresti un bel rimorso col quale convivere!»

Non risposi, l’avrei dovuta sconfessare lì, accanto al letto di morte di mia moglie. Il rimorso, cara Emma, è qui con me e mi sveglia ogni mattina. E sai cosa mi sussurra? T’incateni a qualcosa o qualcuno, ogni volta che non scegli.