La prima di tre donne irraggiungibili

Quando si arriva alla mia età, è inevitabile un bilancio della propria vita, di quello che si è fatto e si è perso, degli sbagli commessi, delle opportunità svanite. Siccome, però, a me i bilanci non sono mai piaciuti, ho evitato ed evito tuttora di farne. Tanto, hai voglia a dire, se mi buttassero sulla terra altre dieci volte, compirei sempre il medesimo percorso e cozzerei di continuo contro gli stessi scogli. La maggior parte di noi è come le formiche, segue una strada già tracciata. Così, tranquilli, non vi tedierò con l’elenco dei miei rimpianti, parlerò, piuttosto, di donne, che restano pur sempre, a mio parere, uno dei motivi principali per cui vale la pena vivere.

Ne ho avute molte: belle e brutte, simpatiche e odiose, buone e canaglie. E non ne ho amata nessuna quanto le uniche tre che non sono riuscito ad avere. Si sa, una cosa goduta, che sia un’auto, una casa, un lavoro, persino una donna, si consuma come cera sul fuoco. Mai ci si abituerà, invece, a qualcosa che non si ha. Perciò, ancora oggi che sono un vecchio rattrappito che può sperare solo nell’altruismo (si fa per dire) di Rossana, le uniche signore che mi vengono a trovare nel silenzio della notte, a parte mia moglie, sono loro, le tre arpie che non ne hanno voluto sapere di coricarsi al mio fianco.

Anna era una mia compagna di scuola, capelli biondi, occhi verdi, tette grandi. Me ne innamorai appena la vidi. Già all’epoca, infatti, avevo una smodata passione per le forme tondeggianti. Il problema è che lei era più grande di me, anche se solo di un anno. Eppure da ragazzi quei trecentosessantacinque giorni in più fanno la differenza; nell’arco di tempo che la terra impiega per ruotare intorno al sole, una donna ha già capito che tu, piccolo e insignificante essere della classe inferiore, vali quanto la gomma appiccicata sotto il suo banco.

Nella vita di ognuno arriva il momento nel quale si capisce che le storie romantiche di amori impossibili che raccontavano i nonni e le vecchie zie sono stupidaggini. L’amore è molto più crudo di una vecchia parente nello spiattellarti in faccia la verità, e cioè che puoi anche avere un bel sorriso, scrivere odi d’amore per la tua principessa o cantarle una serenata sotto il balcone, ma se hai la faccia ingolfata di brufoli e l’alito putrido lei esce con un altro. Perciò dovetti attendere il suo ultimo anno di scuola per tentare l’assalto. E, a pensarci, fu giusto così. Il tempo trascorso a pedinarla di nascosto (o a dedicarle brevi quanto fugaci minuti di passione nel bagno) mi ha insegnato che se desideri qualcosa l’attesa si trasforma in speranza e rende il tempo degno di essere vissuto.

Di Anna ero innamorato come può esserlo un pivello che non conosce nulla dei trabocchetti della vita. E, in effetti, è quella l’età giusta per perdere la testa per una ragazza: se non impari ad amare a quindici anni, non impari più. Quando quel giorno l’avvicinai, già la desideravo da tre anni, sapevo dove viveva, chi erano le sue migliori amiche, persino i suoi ex. Lei, invece, non sapeva nulla di me. Eppure dopo qualche giorno ci baciammo.

Non credo di sbagliare nel ritenere che ciò che sono diventato poi fu dovuto a quel fatidico momento. Un semplice atto ha cambiato il resto della mia vita. Perché io, rientrato a casa, ero convinto di essermi fidanzato. Lo dissi anche a mia madre, la quale sorrise e tornò ai fornelli. Lì per lì non diedi importanza alla sua alzata di spalle, invece bene avrei fatto a chiedere delucidazioni sul suo scetticismo. Il giorno dopo andai da Anna e la abbracciai, lei mi guardò stupita, si divincolò e mi chiese cosa stessi facendo. Un bacio era solo un bacio, di certo non ci saremmo dovuti sposare per quello. Il problema è che per me era la prima volta. Le prime volte dovrebbero essere esclusiva dei neofiti, altrimenti chi ha già vissuto l’esperienza spegne, anche senza volerlo, la meraviglia nell’altro. Anna rovinò il mio primo bacio. Allora pensai che per conquistarla davvero avrei dovuto fare qualcosa di ben più difficile: condividere con lei una «prima volta». Insomma, dovevo portarmela a letto.

Impiegai undici mesi per condurre in porto il piano, mesi durante i quali rivestii i ruoli dell’amico con cui confidarsi, l’amico che la scorta ovunque, l’amico che le dà consigli, che è sempre presente se serve, un po’ come un cagnolino. In definitiva fui perfetto. Solo che con un amico non ti fidanzi e, infatti, lei si accompagnava con gli altri, non certo con me. Poi, però, morì suo padre e, lo ammetto, per me fu un gran colpo, perché Anna ebbe ancor più bisogno del sottoscritto. Andò a finire che un giorno ci intrattenemmo più del solito sul mio letto a parlare del genitore. Fosse stato per me, avrei continuato ad ascoltare per il resto della serata i mille aneddoti sul padre di cui non m’interessava nulla, ma lei a un certo punto mi abbracciò e si girò dalla mia parte. Parlava ancora, solo che la sua bocca era a pochi centimetri dalla mia, anche volendo sarebbe stato impossibile proseguire la conversazione come nulla fosse. Allora ci baciammo di nuovo e in pochi istanti ci trovammo seminudi sotto le coperte.

Ricordo ancora la sensazione, la mia pelle può rivivere l’attimo all’infinito. È proprio vero che le cose che custodiamo con passione non muoiono mai, un po’ come la casa dei nonni, che se chiudo gli occhi riesco ancora a visitare. Ecco, il mio primo contatto con Anna è tuttora ramificato in qualche capillare periferico del corpo e quando riemerge, anche solo per un attimo, mi provoca la stessa pelle d’oca di quella sera di sessant’anni fa.

Fatto sta che ero lì, pochi istanti e le avrei donato anch’io una «prima volta», sarei entrato per sempre fra le sue cose da custodire con gelosia. Ma, si sa, l’amore non ti inganna, semmai preferisce colpirti dritto in faccia con uno schiaffo ben assestato. Proprio sul più bello lei mi fermò, mi prese il viso fra le mani e disse: «Cesare, mi dispiace, ti voglio bene, ma questo lo faccio con l’uomo della mia vita!»

Sarei proprio curioso di sapere se ha mantenuto fede alla promessa. Mi farebbe piacere incontrarla e chiederle: «Hai visto? Il tuo nobile proposito era una gran cazzata! Non potevi fare un’eccezione quella sera? E chi te lo dice che non sarei potuto essere io l’uomo della tua vita?»

Invece non dissi nulla, mi rivestii, le diedi un candido bacio sulla guancia e l’accompagnai a casa. Non ci vedemmo più, lei dopo un po’ si fidanzò, io partii militare. Dopo qualche anno seppi che si era trasferita al Nord con il marito. Non l’ho mai più incontrata, per quel che ne so potrebbe anche essere morta.

Anna è stata la mia prima esperienza con l’amore non corrisposto, un’invenzione inutile, a pensarci. Ci sono tante persone sole al mondo che potrebbero incontrarsi, amarsi, essere felici, fare figli, tradirsi e poi lasciarsi, invece molti perdono il tempo a inseguire chi a stento si accorge della loro esistenza.

Comunque questa storia una lezione me l’ha insegnata: le persone accigliate, scontrose e sfiduciate non sono davvero cattive, è solo che, a differenza degli altri, non sono state in grado di reggere la verità e, cioè, che il mondo non è un posto per i buoni.

Io ero buono. Poi è arrivata Anna con il suo calcio nel sedere.

Dovrei raccontare la storia ai miei figli, spiegare a Sveva che anch’io sono stato un uomo migliore prima che la vita m’insegnasse a guardarmi attorno con circospezione, come una lepre che esce dalla tana per cercare il cibo. L’animale ha insito nel Dna il senso di pericolo, nasce già pronto per difendersi dai predatori, io, invece, ho perso i primi vent’anni per imparare a ripararmi da un mio simile.

La vita terrena dovrebbe essere come un viaggio in Oriente, un’esperienza che ci apre la mente e ci rende esseri speciali. Invece accade l’esatto contrario, ci tirano fuori dal buco nero che siamo candidi e ci infilano in una cassa dopo che ne abbiamo combinate di tutti i colori. Mi sa che qualcosa, nel lasso di tempo che restiamo quaggiù, non funziona a dovere.