Il non fatto
Marino è uno di quei vecchi rompiballe che i nipoti prendono in giro, uno che ripete sempre le stesse cose, non sente, non capisce il linguaggio dei giovani e non sa usare il computer. Però, a differenza di molti suoi coetanei, un computer ce l’ha, e fa bella mostra di sé sulla scrivania del suo studiolo. Mi sono sempre domandato a cosa gli servisse, visto che per lui già la macchina per scrivere era stata un salto nel buio, poi ho saputo che appartiene al nipote Orazio, che il pomeriggio spesso va a studiare lì.
Marino ha superato gli ottanta, il suo alito è marcio, senza dentiera non riesce a cacciare una sillaba, e qualche volta si piscia anche sotto. Insomma, un disastro. Però è una gran brava persona, e poi è di compagnia. Certo con lui non ci si sbellica dalle risate, ma è uno con cui si può parlare, che pur non sentendo ascolta e qualche volta dà anche buoni consigli. Insomma, Marino, nella mia vita, è una figura a metà fra un terapeuta col quale sviscero le mie ansie e un prete al quale confido i miei peccati. Il bello è che entrambi, psicologi e sacerdoti, mi sono sempre stati sulle balle.
«E se capisce che siamo stati noi a mandargli la lettera? Se riescono a risalire alla grafia?» chiede il mio amico con tono agitato.
Sbuffo. Mi sono dimenticato di aggiungere che Marino è anche un soggetto molto ansioso, e a me i soggetti ansiosi mettono ansia. Perciò a volte s’instaura un circolo vizioso che genera agitazione senza che vi sia un motivo reale e, soprattutto, senza che si riesca a capire chi l’abbia scatenato.
«A parte che non credo si scomoderebbero i Servizi Segreti per un nostro messaggio, in ogni caso ho pensato anche a questo. Perciò sono qui oggi.»
Lui mi guarda con aria interrogativa, nonostante sia ormai abituato alle mie esternazioni strambe.
«Useremo il tuo computer!» aggiungo dopo un po’ con un sorrisetto malizioso.
Lui non risponde, ciondola la testa da un lato all’altro e batte le mani contro il bracciolo consunto della poltrona. Conosco Marino da circa quarant’anni, metà della sua vita. Ebbene, in tutto questo tempo non gli ho mai visto cambiare neanche la federa della sua affezionata poltrona.
Alla fine sbotta: «Tu sei pazzo! Lo sai che con il computer è facilissimo risalire al responsabile? Ci beccherebbero il giorno dopo».
Rifletto. Non sono certo di quel che dice, ma lui sembra così sicuro che quasi mi convince.
«E come fai a dirlo tu, che non sai nemmeno dove si accende un computer?»
«Me l’ha spiegato Orazio.»
Allora sarà vero. Bisogna tornare al piano originario, scrivere una lettera di pugno e infilarla nella buca. L’idea mi è venuta ieri notte, mentre, come mio solito, mi trastullavo nel letto. Ho pensato che il bastardo che picchia la moglie deve sapere che c’è qualcuno che sa, così la prossima volta ci pensa due volte prima di alzare le mani.
La ragazza l’ho intravista di nuovo, nel supermercato sotto casa. Io vagavo fra gli scaffali, lei era al banco dei salumi. Quando mi ha notato, si è voltata di scatto e mi ha dato le spalle, ancora una volta. Credo si vergogni, forse ha capito che ho capito.
In ogni caso non potevo perdere l’occasione, ho afferrato il tonno in offerta e mi sono avviato verso di lei, sono passato alle sue spalle e ho sussurrato: «Io so». Poi ho proseguito il giro come nulla fosse, senza voltarmi per appurare se avesse sentito.
Mi piace fare il misterioso.
«E comunque non saprei neanche come stamparla una lettera con quel coso. Ma, poi, sei proprio sicuro di ciò che dici? Non si può accusare un uomo di maltrattamenti senza avere una prova. Gli rovineremmo la vita!»
C’è un altro aspetto caratteriale di Marino di cui non ho parlato: è buono, troppo buono. A volte mi sembra di conversare con Federico, mio nipote. Forse è vero che la vita gira in tondo e alla fine torna al punto di partenza; in un vecchio di ottant’anni e in un neonato, se guardi con attenzione, riesci a scorgere le stesse paure.
«Mica dobbiamo denunciarlo. Gli mettiamo solo un po’ di pressione addosso. Se non è vero che picchia la moglie, e io mi sono solo suggestionato, si farà una risata e andrà oltre. Se invece, come penso, è colpevole, inizierà a guardarsi attorno.»
«Cesare, a te piace fare il detective, certe situazioni ti divertono. A me no, io voglio essere lasciato tranquillo, i colpi di testa non fanno per me.»
È vero, mi piace giocare all’investigatore. E non solo. Adoro trasformarmi in altre persone, assumere identità diverse, vivere in modo fantastico. È che fino a una certa età ho trascorso una vita alquanto «normale», senza particolari emozioni. Il problema è che quando ti avvicini alla fine ti vengono a far visita di notte molte vocine irritanti che bisbigliano in modo insistente: Datti una mossa, non marcire in casa, fai qualcosa di folle, cerca di rimediare a tutto il «non fatto» della tua misera vita.
Ecco, appunto, il non fatto. Ho impiegato più di settant’anni per capire che io sono lì, nel non fatto. La mia vera essenza, i desideri, l’energia e l’istinto sono conservati in tutto ciò che avrei voluto fare. Non è bello sentirsi ripetere che hai sbagliato per una vita intera, hai speso male le tue carte e ti sei ritirato dal tavolo mentre saresti dovuto andare a vedere la giocata, anche se rischiavi di perdere tutte le fiches che avevi davanti. Che poi mica è semplice recuperare il tempo perduto, in pochi anni devi mettere a posto un’esistenza. Quasi impossibile. Curioso, quando inizi a capire come vanno le cose suona il gong, come se in un quiz televisivo cominciassi a fare il tuo gioco gli ultimi trenta secondi, mentre i tre minuti precedenti li hai passati a guardarti le unghie.
«Marino, hai ormai ottant’anni e che io sappia di colpi di testa non ne hai mai fatti. Sono dieci anni che te ne stai seduto su quella poltrona e se ti alzi la tua sagoma rimane incastonata lì dentro. Non pensi che prima di morire varrebbe la pena fare qualcosa d’insensato?»
Lui mi squadra e tamburella con le dita sul bracciolo. Io affronto il suo sguardo, tanto so che sarà lui il primo a capitolare. E, infatti, dopo poco china il capo e sussurra: «Va bene. Ma, ti avverto, se mi vengono a prendere dico che l’idea è stata tua!»
Un classico di Marino fare le cose a metà. Chissà se anche nel sesso lasciava aperto il discorso. Secondo me a scuola era uno di quei ragazzi che si accontentava della sufficienza. Gli mancava il coraggio di non studiare, ma al contempo non gli importava conoscere, desiderava solo raggiungere quanto prima l’obiettivo, così da essere lasciato in pace. Se fosse un tema, Marino sarebbe un compito di due paginette, il minimo sindacale. Io, al contrario, potrei assumere, anche in questo caso, due sembianze diverse: tema di otto pagine o foglio in bianco. Ambedue le possibilità avrebbero il mio gradimento.
«Non dobbiamo entrare in una banca con un passamontagna, dobbiamo solo scrivere una lettera di avvertimento. E poi lo facciamo per una giusta causa. Non vuoi aiutare una povera ragazza?»
Lui annuisce, ma si vede che non è molto convinto.
«Ma davvero non hai capito di chi parliamo? Non l’hai mai incontrata per le scale?» chiedo con stupore.
Lui si limita a un cenno negativo col capo.
«Eh già, figuriamoci se avresti potuto vederla. Ma da quanto non metti il naso fuori da questa topaia?»
«Non è una topaia!» risponde lui protendendo il busto verso di me.
Ha ragione, non è una topaia, ma il mio amico ha bisogno di uno schiaffo in pieno viso.
«Sì, Marino, questa casa è una topaia, la tua vita è una topaia. Non sei morto ancora, lo vuoi capire? Lì fuori c’è sempre il mondo, non è caduto nessun asteroide negli ultimi dieci anni. Esistono ancora le strade, gli alberi, le vetrine e le belle donne.»
Dovrebbe infuriarsi. Io, al suo posto, lo farei, mi alzerei e afferrerei il mio interlocutore per un braccio, lo riempirei di improperi, forse gli mollerei anche un ceffone, dopodiché lo butterei fuori di casa. Però poi mi infilerei il cappotto e mi lancerei per le scale. Marino non fa nessuna delle tre cose, non si arrabbia, non mi dà uno schiaffo, non si smuove dalla poltrona. Mi guarda e sorride. Mi vuol bene il vecchiaccio, come io ne voglio a lui, ma non morirò qui dentro per fargli compagnia. Mi alzo e mi avvio alla porta. Lui mi blocca.
«Pensavo... forse potrei chiamare Orazio, vedere cosa ne pensa, se davvero possono risalire a noi tramite il computer. Potrebbe darci una mano lui a scrivere la lettera.»
«Sì, bravo» ribatto, «mi sembra una buona idea.»
«Allora stasera gli telefono e ti faccio sapere.»
Chiudo la porta e mi avvio al piano di sopra. L’ascensore non lo uso, devo tenermi in allenamento se voglio continuare a fare l’imbecille. Al primo scalino squilla il cellulare.
«Papà?»
«Ciao, Dante» rispondo con l’affanno. O parlo o affronto le scale. Decido di fermarmi a pochi gradini dalla meta.
«Come stai?»
«Bene.»
«Senti, l’altro giorno mi sono dimenticato di dirti che sabato sera c’è l’inaugurazione di una mostra importante. Che fai, vieni?»
«Si mangia?»
«Sì, si mangia, altrimenti non ti avrei chiamato» fa lui e si lascia andare a un sospiro.
«Va bene. Chi è l’artista?»
«Leo Perotti, un pittore emergente che ha già esposto a Berlino. Mi farebbe piacere presentartelo.»
Mai sentito in vita mia, ma ammetto di non essere un grande esperto di arte. Se al posto di Perotti esponesse Picasso, accoglierei la notizia con uguale stato d’animo. Dante, invece, sembra euforico, ha un tono di voce un po’ troppo alto, quasi stridulo, come una donna in fase premestruale.
«Va bene, ci sarò» ribatto.
Vorrei essere più entusiasta, ma non mi riesce. Ogni volta mi propongo di comportarmi in modo diverso con Dante, poi, quando lo vedo o ci parlo al telefono, non mi smuovo di un millimetro. Continuare a fare lo scorbutico con i miei figli è l’unico strumento che mi rimane, cambiare approccio comporterebbe un dispendio di energie notevole. E a me le energie servono per altro.
«Viene anche Sveva?» aggiungo poi.
«Non lo so» sbuffa, «ha detto che se ce la fa passa.»
Resto in silenzio, senza più argomenti. Per fortuna è lui a compiere il passo successivo.
«Non vedo l’ora che arrivi sabato, sono troppo eccitato!»
Eccitato da cosa non riesco a capirlo, nemmeno fosse lui a esporre. Mio figlio ha una galleria d’arte in pieno centro storico, un locale carino e alla moda, frequentato da gente alquanto stramba, a dire la verità. Comunque mi piace il suo lavoro, solo che a lui non lo confesserei mai. Lo so, è sbagliato, ma sono fatto così, non riesco a dire quello che andrebbe detto. Qualche volta ci ho tentato, ma le parole mi sono rimaste sulla punta della lingua prima di trotterellare di nuovo giù nell’esofago.
«Mi fa piacere per te» rispondo, senza troppa convinzione.
Lui sembra accorgersene, perché resta un attimo in silenzio, quindi mi saluta e riaggancia. Sono fiero di Dante, della sua personalità, del suo lavoro e del modo di agire. Per certi versi lo ritengo, ormai, migliore della sorella, eppure continuo ad avere più confidenza con lei, è più semplice interagire con una donna, anche se mia figlia ha il suo caratterino. Quando erano piccoli, Caterina mi rimproverava per la mia sfacciata preferenza verso Sveva, perciò lei, per bilanciare gli affetti, si legò al secondogenito. In realtà io non scelsi, Dante arrivò nel momento in cui Sveva sbocciava come bambina e iniziava a relazionarsi con me, a parlare, giocare, abbracciarmi. Dante, al suo cospetto, mi sembrava uno di quei bambolotti che ti guardano inermi nelle vetrine dei negozi. Insomma, senza volerlo, Caterina e io ci dividemmo i figli e i compiti. Lei si occupava di Dante, io di Sveva. Lui è diventato omosessuale, lei egocentrica e nevrotica.
«Se tu fossi qui, sarebbe il caso di scambiarci i ruoli adesso. Forse in questo modo potremmo aggiustare un po’ i danni fatti!» esclamo una volta in casa.
Le mie parole rimbombano nel corridoio vuoto.
«Anche se credo che ora sia un po’ troppo tardi. Avremmo dovuto pensarci prima. Colpa tua, che non volevi cambiare, non avevi mai un dubbio e pensavi che la vita avesse un unico binario da seguire. Io, lo devi ammettere, già allora tiravo calci. Se mi fossi stata a sentire, forse le cose sarebbero andate in modo diverso.»
Le pareti non mi rispondono. Meglio, almeno non possono darmi torto. L’orologio in cucina, intanto, continua a rintoccare i secondi. Non me n’ero mai reso conto, ma in questa casa il silenzio la fa da padrone.