Ho fallito

Ci sono vite lineari e altre più tortuose. La mia di sicuro appartiene alla seconda categoria. Poche volte ho saputo davvero ciò che desideravo e come raggiungerlo, per il resto ho navigato sempre a vista. Il fatto è che fin da giovane ho capito che per rincorrere un sogno devi essere pronto a sacrificare qualcosa, fosse anche il tempo libero, e io non ho mai voluto privarmi di nulla, tantomeno del tempo libero. Molti dei miei amici di scuola sono finiti a fare ciò in cui credevano, anzi, ciò che perlopiù desideravano i loro cari. I miei genitori, invece, non avevano grandi sogni per il sottoscritto, anche perché di sogni, credo, non gliene restavano troppi: erano già stati quasi tutti realizzati dai miei due fratelli maggiori. Così se oggi rimpiango di non aver avuto una vita professionale degna di questo nome, almeno non me la devo prendere con i fantasmi di chi non c’è più. Anche se sarebbe più comodo. Il fallimento lavorativo, al contrario, è da imputare solo ed esclusivamente alla mia poca tenacia. Mio padre aveva fatto l’operaio per una vita, e il giorno in cui riuscii a diplomarmi si presentò con una giacca nera di una taglia più grossa che gli cadeva sulle spalle minute come uno scialle su una vecchia nonna. Dopo il diploma non mi chiese più nulla, soddisfatto di quel poco che gli avevo regalato. Allora mi feci bastare il titolo di ragioniere che avevo in tasca e mi misi alla ricerca di un lavoro, cosa che a metà degli anni Cinquanta non era tanto complicata. Uno zio di mia madre aveva uno studio di commercialista a Mergellina; lì feci la mia gavetta, lì capii che quello del ragioniere non era il lavoro per me, così salutai lo zio e me ne andai.

Anche in quel caso i miei genitori non dissero nulla. Come non fecero obiezioni quando fui assunto da una ditta di calzature dove inizialmente avevo il compito di trasportare le scarpe dal deposito al magazzino e viceversa. Poi, a un certo punto, il proprietario, venuto a conoscenza, non so come, del mio titolo di studi, mi pregò di tenere i conti dell’azienda in ordine. Resistetti dieci mesi, infine una sera, era Natale, mi sentii d’improvviso mancare l’aria nei polmoni e mi feci rosso come un peperone. Di fianco a me c’era la figlia del proprietario, da poco venuta ad aiutare il padre e già caduta nella mia fitta rete di corteggiamento. Non so se l’attacco di panico (che all’epoca, ovviamente, era definito un semplice malore) fu dovuto al ritorno fra i numeri e i conti, o alla pressante presenza della giovane che sembrava volermi ingabbiare in una vita già predefinita. Mi alzai e, senza dire una parola, fuggii.

Per un periodo ho fatto anche l’investigatore privato. Era divertente, dovevo perlopiù pedinare mogli infedeli. Solo che anche quell’impiego non durò molto. A furia di spiare donne, mi innamorai di una di loro. La nostra passione fu breve quanto intensa, così come l’arringa del mio capo quando mi cacciò. Al culmine del nostro rapporto d’amore avevo, infatti, confidato all’amante la mia vera identità.

Insomma, per anni ho vagato da un lavoro all’altro pur di non mettere radici e farmi soggiogare dall’idea di un futuro mediocre ma sicuro. Poi ho incontrato Caterina. Faceva la segretaria nello studio commerciale Volpe, dove ero stato catapultato per intercessione di uno dei miei fratelli. Quest’ultimo era così felice di avermi aiutato che non trovai il coraggio di rifiutare l’offerta, anche se già dal primo giorno sapevo che quello studio non sarebbe stato il mio futuro. Rimasi invece lì dentro per il resto della vita, il tempo di conquistare Caterina, sposarla, farci due figli e virare poi la mia attenzione verso altre donne.

Me ne innamorai subito, la prima volta che la vidi. Era carina, timida ma decisa, elegante, sempre disponibile, accogliente. Ecco, questo è il termine esatto: Caterina sapeva accogliere, almeno all’inizio. E io sono sempre stato attratto da chi mi permetteva di succhiare amore senza pretendere altrettanto.

In quegli anni tornai di nuovo a fare il ragioniere, passavo le mie giornate a fare conti, cercare la casa che ci avrebbe dovuto ospitare, i mobili che l’avrebbero arredata. Poi, a un certo punto, decisi di fermarmi. Non ne potevo più, odiavo quell’impiego, la matematica, i numeri, e marcire dietro una scrivania. Odiavo la mia esistenza che, ancora una volta, non avevo scelto.

Per una vita intera ho tentato di sfuggire a un lavoro sedentario e ho fallito. Per una vita intera ho scalciato credendo di potermi sottrarre a un destino che sembrava volermi intrappolare. Ho fallito. Per una vita intera ho cambiato più volte strada pur di non finire a fare il ragioniere. Ho fallito.

 

 

A ogni modo in quel periodo Caterina mi fu molto vicino, capiva il mio stato d’animo e mi spronava a cercare una strada. Mi convinsi di amarla molto, nonostante già sapessi di non provare più nulla per lei, e mi ributtai nella ricerca di un impiego più consono al mio modo di essere. Poi la notizia: Caterina era incinta. Così lei dovette lasciare lo studio e io, al contrario, tornarci. Il lavoro di ragioniere mi aveva di nuovo agguantato con i suoi lunghi tentacoli. Non fu colpa di Caterina, ovvio, solo che inconsciamente accusai proprio lei e la sua pancia. A causa della gravidanza ero costretto a mettere per sempre una pietra sopra il mio moto di ribellione, per colpa di mia moglie avrei trascorso una vita che non volevo. Fu allora che iniziai a odiarla. Sveva era ancora nella pancia e io già ero un cattivo marito.

Ho fatto il ragioniere per quarant’anni. Il lavoro è stato per me un qualcosa di secondario, come una musica da ascoltare in sottofondo. La mia vita era altro, i figli, le amanti, gli amori impossibili, gli amici e i sogni che rimanevano sempre sogni e si trasformavano, negli anni, in rimpianti. Eppure, ora lo so, non si può trattare il lavoro come una cosa da tenere in disparte, perché in disparte il lavoro non ci resta. Non avrei commesso molte delle stupidaggini con le quali tentavo di dare un senso all’esistenza se avessi avuto un lavoro avvincente.

Una passione non ti fa amare tua moglie, non ti insegna a godere fino in fondo del fatto di essere genitore, non ti serve neanche a scrollarti dalle spalle la polvere che ti porti dietro dall’infanzia, questo è vero, ma, almeno, ti aiuta a chiudere gli occhi la sera e a non annaspare nei tormenti. Io invece ho trascorso la vita a recriminare contro Caterina, il mio impiego, la poca libertà, le scelte sbagliate, i figli che mi rubavano l’energia, il tempo che passava, per non guardare in faccia la sola e unica verità: non sono stato in grado di cambiare nulla.

Forse non sono così forte come voglio far credere.