Solo una cosa ci divide
Stamattina mi ha chiamato mia figlia Sveva, la primogenita.
«Papà?»
«Ciao.»
«Senti, mi serve un favore...»
Non avrei dovuto rispondere. L’esperienza serve proprio a non commettere le stesse idiozie per una vita intera. Io non ho imparato nulla dal passato e continuo imperterrito ad agire d’istinto.
«Andresti a prendere Federico a scuola? Ho un’udienza e finisco tardi.»
«Non può pensarci Diego?»
«No, ha da fare.»
«Ho capito...»
«Lo sai che non te lo chiederei se avessi un’alternativa.»
Li ho educati bene i miei figli, non posso lamentarmi. Non sono un nonno che va a prendere i nipoti. La vista di quei poveri vecchietti fuori da scuola che fermano le auto, per esempio, mi fa rabbrividire. Sì, lo so, si rendono utili anziché marcire su una poltrona, eppure non ci posso fare niente, un «nonno civico» per me è come un rullino fotografico, una cabina telefonica, un gettone, una videocassetta, oggetti di un tempo andato che non hanno più una vera funzione.
«E, poi, dove lo porto?»
«Da te, oppure potete venire allo studio. Sì, fai così, portalo qui, per favore.»
Ora mi ritrovo davanti alla scuola in attesa di mio nipote. Mi alzo il bavero del cappotto e infilo le mani in tasca. Sono arrivato in anticipo, una delle cose che ho imparato con l’avanzare dell’età. Come programmare le giornate. Oddio, non che abbia molto da pianificare, ma quelle poche cose preferisco ordinarmele.
La telefonata di Sveva ha scombussolato i miei piani. Dovevo andare dal barbiere, stasera ho un appuntamento galante con Rossana. È una prostituta. Sì, frequento le mignotte, embè? Ho ancora le mie voglie da soddisfare e nessuno al mio fianco cui dare spiegazioni. In ogni caso ho esagerato, non è che vado proprio a puttane, anche perché mi risulterebbe alquanto difficile rimorchiare con l’autobus; la patente mi è scaduta e non l’ho rinnovata. Rossana è una vecchia amica conosciuta un po’ di tempo fa, quando girava per le case a fare iniezioni. E così si ritrovò anche nel mio salotto. Veniva ogni mattina presto, mi pungeva le chiappe e se ne andava senza dire una parola. Poi iniziò a trattenersi per un caffè, infine riuscii a convincerla a infilarsi sotto le mie coperte. A pensarci oggi, non fu poi molto difficile. Solo dopo un po’ capii che la pseudoinfermiera non era rimasta estasiata dal mio sorriso, quando con espressione seria esclamò: «Tu sì simpatico e sei pure un bell’uomo, ma io tengo un figlio da aiutare!»
Mi sono sempre piaciute le persone dirette, e da allora siamo diventati amici. Lei è sotto i sessanta ormai, ma continua ad avere due enormi tette e un bel sedere armonico. E alla mia età non c’è bisogno di altro, ci s’innamora soprattutto dei difetti, che rendono la scena più credibile.
Arriva Federico. Se la gente qui attorno sapesse che questo vecchio che porta in giro il nipote fino a un minuto fa pensava al seno di una prostituta, si scandalizzerebbe e avviserebbe i genitori del piccolo. Chissà perché un anziano non può avere voglia di scopare.
Saliamo su un taxi. È solo la terza volta che vengo a prendere mio nipote a scuola, eppure Federico ha svelato alla mamma che è contento di tornare col sottoscritto. Dice che l’altro nonno lo costringe ad andare a piedi e arriva tutto sudato a casa. Con me, invece, si torna in taxi. E vorrei ben vedere! Ho una pensione dignitosa, nessun anniversario matrimoniale da celebrare e due figli adulti. Posso spendere i soldi in taxi e Rossane varie. Però il conducente è un maleducato. Succede, purtroppo. Impreca, suona il clacson senza un motivo, corre e frena all’ultimo istante, se la prende con i pedoni, non si ferma al semaforo. L’ho detto, una delle cose belle della terza età è che puoi fare ciò che vuoi, tanto non ci sarà una quarta nella quale pentirsi. Così decido di punire l’uomo che vuole rovinarmi la giornata.
«Dovrebbe andare più piano!» esclamo.
Lui nemmeno risponde.
«Ha sentito cosa le ho detto?»
Silenzio.
«Okay, accosti e mi dia la patente.»
Il tassista si gira e mi guarda con aria perplessa.
«Sono un maresciallo dei carabinieri in pensione. Lei guida in modo inappropriato e pericoloso per l’incolumità dei passeggeri.»
«No, marescià, scusatemi, è che oggi è proprio ’na brutta giornata. Problemi a casa. Vi prego, ora rallento.»
Federico solleva il capo fissandomi e sta per aprire bocca. Gli stringo il braccio e faccio l’occhiolino.
«Che problemi?» chiedo poi.
Il mio interlocutore inclina la testa solo un attimo e poi dà sfoggio della sua potente fantasia: «Mia figlia si doveva sposare a breve, ma il marito ha perso il lavoro».
«Capisco.»
Come scusa è buona, non c’è che dire, nessuna malattia o morte di un congiunto. È più credibile. Quando arriviamo sotto l’ufficio di Sveva, l’uomo non accetta i soldi. Un nuovo viaggio offerto da un napoletano maleducato. Federico mi guarda e ride, io ricambio con un’altra strizzata d’occhio. Ormai è abituato alle mie uscite, la volta scorsa mi sono travestito da finanziere. Mi diverto, non lo faccio per risparmiare. E non ho nulla contro la categoria dei tassisti.
Sveva ancora non è arrivata. Ci infiliamo nella sua stanza, Federico sdraiato su un divanetto, io seduto dietro la scrivania sulla quale campeggia in bella mostra la foto di lei con il marito e il figlio. Diego non mi è molto simpatico, un brav’uomo, intendiamoci, ma quelli troppo buoni annoiano, c’è poco da fare. E, infatti, credo che anche Sveva si sia stufata; sempre imbronciata, sempre di fretta e con la testa al lavoro. Il contrario di me oggi, insomma, ma forse molto simile al me di una volta. Penso sia una donna infelice, solo che con il sottoscritto non ne parla. Forse lo faceva con la madre. Io sono inadatto ad ascoltare gli altri.
Si dice che per essere un buon compagno non ci sia bisogno di dare chissà quali consigli, basta prestare attenzione ed essere comprensivi, le donne desiderano solo questo. Io non ne sono capace, dopo un po’ mi infervoro, dico la mia e divento una bestia se l’interlocutrice di turno non mi sta a sentire e fa di testa sua. È stato uno dei motivi di perenne litigio con mia moglie Caterina. Lei voleva solo qualcuno con cui sfogarsi, io dopo due minuti ero già preso dalla soluzione da offrirle. Per fortuna la vecchiaia è venuta in mio soccorso: ho capito che per la mia salute è meglio non ascoltare i problemi di famiglia. Tanto poi non te li fanno risolvere.
La stanza ha una bella e ampia vetrata che affaccia sulla strada stracolma di passanti, e se di fronte ci fosse un grattacielo anziché uno scalcinato fabbricato di tufo, quasi potrei pensare di trovarmi a New York. Solo che nella metropoli americana non ci sono i Quartieri Spagnoli con i loro vicoli che scivolano dalla cima della collina, i palazzi sgretolati che si scambiano segreti sui fili di panni stesi ad asciugare, le strade disseminate di buche e le auto arrampicate su un misero marciapiede, fra un paletto e l’ingresso di una chiesa. A New York le vie laterali non celano un mondo che si perde nelle sue stesse ombre, lì la muffa non si insedia sul viso della gente.
Mentre rifletto sulla differenza tra la Grande Mela e Napoli, noto Sveva che scende da un Suv nero e si avvia al portone. Davanti all’ingresso si ferma, sfila le chiavi dalla borsa, quindi torna indietro e rientra in auto. Da quassù intravedo solo le sue gambe velate da un collant scuro. Si sporge verso il conducente, forse per salutarlo, e quest’ultimo le appoggia la mano sulla coscia. Avvicino la sedia alla vetrata e tiro una capocciata contro il cristallo. Federico smette di giocare col suo amico robot e mi fissa. Gli sorrido e torno alla scena che si sta consumando sotto i miei occhi. Sveva scende e s’infila nel palazzo. L’auto riparte.
Resto a guardare la stanza senza guardarla. Forse ho avuto un’allucinazione, forse era Diego. Che, però, piccolo particolare, non possiede un fuoristrada. Forse è un collega che le ha dato uno strappo. Ma un collega le poggia una mano sulla coscia?
«Ciao, pà.»
«Ciao.»
«Eccolo il mio amore!» urla lei e afferra Federico da sotto le ascelle, per poi riempirlo di baci.
La scena mi riporta davanti agli occhi sua madre. Anche lei si comportava allo stesso modo con i figli. Era troppo affettuosa, troppo presente, premurosa, invadente. Forse per questo Dante è gay. Chissà se sua sorella lo sa.
«Dante è gay?» chiedo.
Sveva si volta di scatto, con ancora Federico in braccio. Quindi lo posa sul divano e con tono glaciale ribatte: «Ma che ne so, scusa. Perché non lo chiedi a lui?»
È omosessuale. E lei lo sa.
«Ma, poi, come ti viene adesso?»
«Così. Com’è andata l’udienza?»
Lei si mette ancor di più sulla difensiva.
«Perché?»
«Non posso chiedertelo?»
«Non ti è mai importato del mio lavoro. Non eri quello che diceva che Giurisprudenza mi avrebbe rovinato la vita?»
«Sì, lo pensavo e lo penso tuttora. Ti sei vista?»
«Senti, pà, oggi non è proprio giornata per i tuoi sermoni inutili. Ho da fare!»
La verità è che mia figlia ha sbagliato troppe scelte: studi, lavoro e, da ultimo, marito. Con tutti questi errori sulle spalle non si può sorridere e fare finta di niente. Eppure io non sono certo uno che ha imbroccato tutto, di fesserie ne ho fatte parecchie, come sposare Caterina e farci due figli. Non per Dante e Sveva, per carità, è che non si dovrebbero mettere al mondo dei bambini con una donna che non si ama.
«Come va con Diego?» chiedo.
«Tutto a posto» fa lei con noncuranza, mentre preleva il fascicolo dalla borsa e lo adagia sulla scrivania. Sul frontespizio c’è scritto: Sarnataro contro condominio di via Roma.
Non capisco come si possa decidere di propria iniziativa di trascorrere le giornate fra beghe inutili, come se la vita non fosse già piena di litigi, senza doverci aggiungere quelli degli altri. Eppure a Sveva piace. O, forse, se lo fa piacere, come la madre. Caterina sapeva trarre il lato positivo da ogni esperienza, io, invece, non mi sono mai accontentato di scovare un avanzo di bello nel brutto.
«Perché tutte queste domande, oggi?»
«Così, non parliamo mai...»
Ma lei è già nel corridoio, i tacchi che rimbombano veloci fra le stanze e la voce immersa in una conversazione sbrigativa con una collaboratrice. Discutono di una lite per un sinistro. Ancora, che noia!
Osservo mio nipote divertirsi con una specie di drago e sorrido. In fondo siamo uguali noi due, senza alcuna responsabilità e nulla d’importante da fare se non giocare. Federico gioca con i draghi, io con Rossana e qualche altra quisquilia. Solo una cosa ci divide: lui ha ancora una vita davanti e mille progetti, io pochi anni e molti rimpianti.