La gattara

Appena sbuco dall’ascensore, trovo Eleonora con in braccio un gatto che non ho mai visto. La porta di casa sua è spalancata e il fetore proveniente dall’abitazione ha già invaso il pianerottolo. Non so come faccia a non rendersene conto e soprattutto come possa trascorrere la vita immersa in quel tanfo stomachevole. Eleonora è una di quelle vecchine che incontri per strada col loro bel piattino di carta, rintanate tra le auto in sosta, e la sua casa, oramai, è un ospizio per felini in difficoltà. In realtà quei pochi che conosco li ho sempre visti in gran forma, ma siccome lei sostiene che è costretta a portarli in casa perché malati o feriti, preferisco non immischiarmi. Fatto sta che spesso uno dei suoi gatti, a turno, tenta la fuga per tornare alla libertà, lontano dall’amore egoistico della sua carceriera.

Certe volte mi basta infilare un piede nell’androne del palazzo per capire che qualche piano più su Eleonora ha la porta di casa aperta. Ovviamente con tanti pianerottoli disponibili ad accogliere una vecchia vedova rincitrullita e bisognosa di amore, è stato il mio a sobbarcarsi l’onere.

Ho ancora un’espressione di disgusto dipinta sul volto mentre lei mi saluta con affetto.

«Ciao, Eleonora» ricambio e cerco le chiavi nel cappotto.

Sto tentando di non respirare e la mia vita dipende da quanto tempo impiegherò a estrarre il mazzo e a infilarmi in casa. Alla mia età ho pochi secondi di autonomia in apnea. Purtroppo, però, accade quello che speravo non accadesse: Eleonora mi parla e sono costretto a inalare aria per rispondere.

«Lui è Gigio» dice con un sorriso e mi mostra il felino che sembra disturbato almeno quanto me.

Aggrotto la fronte nel tentativo di respingere l’effluvio fetido dalle mie narici e rispondo: «Un nuovo ospite?»

«Sì» replica subito lei, «è l’ultimo arrivato. Poverino, è stato aggredito da un cane che quasi l’ammazzava! L’ho salvato da morte sicura.»

Osservo per un istante il gatto che fissa placido l’orizzonte e mi chiedo se stia già elaborando un piano per la fuga. L’attimo seguente una coppia sulla cinquantina, lei con i capelli tinti e le labbra rifatte, lui calvo e con degli occhiali spessi che gli scivolano dal naso, sbuca dalla casa di Eleonora e mi saluta prima di porgere la mano alla mia vicina e stringerla con cordialità. Quest’ultima, però, non ricambia né il saluto né la stretta.

Si vede che i due si sforzano di sorridere ed essere gentili ma, in realtà, sono inorriditi dallo spettacolo appena scorso sulle loro pupille. Sgusciano in ascensore mentre dedicano un ultimo sguardo timoroso al pianerottolo e al sottoscritto, forse chiedendosi come faccia io a essere amico della gattara e, soprattutto, suo vicino. Eppure il più sorpreso sono io; in tanti anni mai ho visto qualcuno uscire da casa di Eleonora Vitagliano, se non il marito, una vita fa. Mai, soprattutto, individui giovani o quantomeno giovanili. Mai qualcuno che non facesse una smorfia per difendersi dalla puzza. E, in questo, anche la coppia non è stata da meno.

«Chi erano?» chiedo incuriosito, una volta spariti.

Che io sappia Eleonora non ha nessuno che si occupi di lei. Di certo non ha figli, il marito è morto da tempo, e parenti non ne ho mai visti.

«Cosa?» fa lei.

Eleonora Vitagliano ha suppergiù la mia età ed è sorda come una campana, cosicché le poche volte che ci devo conversare sono costretto a riformulare le frasi e ad aumentare progressivamente il tono di voce.

«Volevo sapere chi erano quei due» ripeto.

«Ah» fa lei, e lascia andare il gatto, che si intrufola in casa e scompare nel corridoio, «sono dei signori venuti a vedere la casa.»

«Perché, la vendi?»

Eleonora mi guarda con espressione indecisa. Ha i capelli arruffati, i baffetti bianchi e le mani, cerulee, rigate di vene e corrose dai reumatismi, che sembrano artigli.

«Hai deciso di andartene?» sono costretto a ripetere alzando ancora la voce.

«No, no, e dove poi? Questa è la mia casa, qui voglio morire. Figurati se me ne vado.»

La guardo incuriosito, allora lei prosegue.

«È che mia nipote, la figlia di mio fratello, la conosci?»

Faccio di no con la testa.

«È l’unica parente che mi è rimasta. E, insomma, sta spingendo per farmi vendere, dice che è in difficoltà, che tanto l’appartamento un domani a lei andrebbe e io comunque rimarrei qui, che la casa praticamente si venderebbe dopo la mia morte. Io non ci ho capito nulla, ma ho annuito, non ho tempo da perdere a litigare con la famiglia, tanto non firmerò mai nulla e, anzi, quando viene qualcuno a vedere casa, gliela faccio trovare tutta in disordine.»

Non ho alcuna difficoltà a credere alle sue parole. Eleonora, seppure molto anziana e con qualche rotella fuori posto, sa ancora farsi rispettare.

«Tua nipote vorrebbe vendere la nuda proprietà» dichiaro, nel tentativo di spiegarle meglio di cosa si parla, «i nuovi proprietari comprerebbero la casa adesso, ma potrebbero viverci solo dopo la tua morte.»

«Già, sì, così mi pare di aver capito. Figurati se posso vivere sapendo che c’è qualcuno lì fuori che mi tira i piedi, a parte mia nipote.»

Sorrido divertito, anche se il comportamento di questa fantomatica nipote non è poi tanto divertente. Se fosse qui, gliene direi quattro.

«E preferisci che la gente ti cammini per casa anziché dire la verità a tua nipote?» chiedo, e l’attimo dopo mi sono già pentito. Non tanto per la domanda alquanto invadente, ma perché sto contribuendo ad allargare a dismisura la conversazione e dunque il tempo durante il quale la sua porta rimane aperta. Ci vorranno giorni per aerare l’intero fabbricato. Per fortuna non ho ancora aperto la mia, di porta.

«Eh, Cesare, che vuoi che ti dica, hai ragione, ma sai com’è, non voglio inimicarmela, vivo sola da tanto e non ho bisogno di grandi aiuti, però non si sa mai un domani come andranno le cose, se dovessi avere bisogno di lei ogni tanto. Tu anche sei solo, puoi capirmi...» risponde e rimane a fissarmi.

«Già» mi limito a replicare, anche se una parte di me vorrebbe lasciarsi andare a una frase più a effetto, mostrarsi più solidale.

«Nella vita bisogna saper scendere a compromessi» prosegue Eleonora, ormai presa dalla discussione, «e la vecchiaia, caro Cesare, è un compromesso continuo.»

«Già» ribatto, come se non conoscessi altro vocabolo.

Per settant’anni sono stato il maestro dei compromessi, cara la mia gattara, poi ho perso tutto e mi sono trovato, paradossalmente, libero. La verità è che non avevo più nulla da barattare, e questa è stata la mia fortuna. Così dovrei rispondere, ma la discussione mi porterebbe chissà dove e l’ossigeno a mia disposizione è in esaurimento. Perciò saluto Eleonora e infilo le chiavi nella toppa nel preciso istante in cui anche la terza porta del pianerottolo si apre. Da qualche mese una coppia ha affittato la casa, lei credo sia sulla trentina, lui un po’ più grande. Entrambi giovani, comunque, e senza figli, il che li rende del tutto fuori luogo sia in questo condominio, composto per la maggior parte da vecchi e famiglie, sia nel mondo. Scommetto che i poveretti sono costretti di continuo a dare spiegazioni sulla mancanza di un pupo nella loro vita, domanda che, peraltro, a giudicare dallo sguardo curioso, vorrebbe poter fare anche la gattara.

«Buongiorno» dice la ragazza, e subito dopo aggrotta le sopracciglia per difendersi dal puzzo.

Mi scappa un risolino e la giovane donna mi dedica uno sguardo seccato.

«Buongiorno!» mi affretto a ribattere allora, ma lei mi ha già voltato le spalle.

«Buongiorno» esclama anche Eleonora, che subito dopo aggiunge: «Signora, ne approfitto per dirle che se per caso ha visto un gatto nero è il mio. Sa com’è, era abituato con gli altri inquilini a infilarsi nella vostra finestra passando dal cornicione, non vorrei che lo facesse anche con voi».

«No, nessun gatto, non si preoccupi» risponde la ragazza prima di gettarsi nella cabina.

«Strani tipi» commenta Eleonora.

«Perché?»

«Be’, sono qui da un po’, ma mai un sorriso, sempre buongiorno e buonasera, mai una volta che si fermino a chiacchierare.»

«Be’, sono ragazzi, avranno le loro amicizie, l’importante è che non diano fastidio. Per quel che mi riguarda, potrebbero anche non salutarmi e non avere un nome...» ribatto e mi dedico di nuovo alla mia serratura.

«Lui non so, lei, invece, si chiama Emma.»

«Emma...» ripeto e mi giro di scatto.

«Sì, Emma, perché?»

«No, niente, bel nome.»

«Come?»

«Dicevo, bel nome Emma.»

«Ah, già, non male.»

«Va bene, Eleonora, ti saluto», e apro la porta, «se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi.»

«Cesare?»

«Sì?»

«Posso chiamarti se qualcun altro vuol vedere la casa? L’agente immobiliare mi telefona ogni due minuti per darmi consigli non desiderati.»

Ecco, vai a fare il gentile e subito ti trovi impelagato in cose che non ti riguardano.

«E che vuole?»

«E che vuole, l’altra sera mi ha detto senza troppi giri di parole che dovrei far trovare l’appartamento più ordinato altrimenti i potenziali acquirenti si scoraggiano. Non gli potevo di certo dire che quello è il mio obiettivo» e sorride.

«Be’, e oggi perché non c’era anche lui?»

«Se n’è andato prima, ma vedrai che fra qualche giorno si rifarà vivo. Se ci fossi tu, sarebbe diverso... Con un uomo è sempre diverso. Non si permetterebbe di mettere bocca sulle condizioni della casa. Perché se lo fa di nuovo sarò costretta a sbatterlo fuori, e poi chi la sente mia nipote!»

«Okay, chiamami.»

«Grazie.»

Mi chiudo la porta alle spalle e annuso l’aria dell’ingresso per assicurarmi che il fetore non abbia invaso anche casa mia. Solo dopo mi sfilo il cappotto e vado in cucina mentre ondeggio il capo in segno di disapprovazione. Il fatto è che sono diventato davvero troppo vecchio se permetto a un nome di rovinarmi la giornata.

Anche se Emma non è un nome qualsiasi.