Un piccolo scampanellio accanto all’orecchio

Non c’è mai un solo modo di affrontare le cose. Io, per esempio, ho deciso di presentarmi a casa di mio figlio con Rossana. Dante fa una sorpresa a me, io ne faccio una a lui. Lei si è detta disponibile, e non avrebbe potuto essere altrimenti: l’altro giorno le ho rivelato che ci sono buone speranze che il figlio ottenga di nuovo il lavoro. In realtà non ho grandi meriti, sono andato da Sveva e le ho esposto il problema, come se mai nulla fosse accaduto fra noi. Lei è stata al gioco e mi ha ascoltato come avrebbe fatto con un normale cliente, quindi ha concluso con queste testuali parole: «Non ti preoccupare, quel delinquente caccerà fino all’ultimo centesimo!»

Insomma, ho usato Rossana come pretesto per riavvicinare mia figlia. Mi serviva qualcosa per potermi presentare da lei senza dover per forza di cose tornare sui nostri discorsi. Ho avuto ragione, Sveva si è così infervorata che si è persino dimenticata di chiedermi qualcosa in più su Rossana. A ogni modo, lo scoprirà stasera.

«Nervoso?» chiede la mia compagna, mentre ci apprestiamo a suonare il citofono.

«Un po’» mi limito a ribattere.

In realtà sono molto teso e non perché, con ogni probabilità, mio figlio stasera mi metterà al corrente di qualcosa che il resto della famiglia sa già da due lustri, ma perché mi toccherà fingere di essere quel che non sono, un uomo cordiale e simpatico. La simpatia è troppo sopravvalutata e a volte serve a coprire un bel mucchio di cose marce, però è così che va il mondo, e se ti sei preso la briga di fare due figli, devi imparare presto a mascherare in loro presenza noia, dolore e depressione. A meno che tu non voglia farne degli infelici.

Dante ha comprato casa a Chiaia, in una piazzetta che sbuca alla fine di una viuzza stretta e contorta, un appartamento elegante in uno stabile antico, con mura spesse che, loro sì, ti rifugiano dai vicini. Purtroppo, però, l’appartamento si trova anche al quarto piano e non c’è l’ascensore. Molti di questi piccoli palazzetti, infatti, non hanno spazio per la cabina. Perciò mi tocca pure arrampicarmi e sudare le cosiddette sette camicie per farmi dire in faccia da mio figlio che è gay.

Lui ci attende sul pianerottolo con un gran sorriso. Mi domando da chi abbia preso l’eccessivo buonumore, se per caso non sia stato io a trasferirgli tutte le scorte in mio possesso, ma l’attimo successivo lui si è già presentato a Rossana con grande slancio, nonostante sia la prima volta, da quando Caterina non c’è più, che mi vede con una donna accanto. Come per Sveva, d’altronde. Ci ho pensato molto prima di fare questo passo, ma in fin dei conti nell’ultimo periodo non mi sono mai posto il problema di cosa pensassero gli altri. Non devo permettere al mondo di rovinarmi gli ultimi giorni di vacanza.

Così, eccoci qua, nella casa di mio figlio che mi sembra estranea almeno quanto lui, in un salotto arredato con gusto dove tutte le cose sono al loro posto, persino un divano alto quanto un bassotto, che se faccio l’errore di sedermi, dopo bisogna chiamare un’autogru per alzarmi. Basterebbe questo a far capire che in Dante c’è poco di me. Io non ho mai posseduto una casa nella quale gli oggetti erano a posto, forse nemmeno un salotto arredato con gusto. Ho sempre delegato gli altri, al punto che era mia moglie a decidere cosa mi piaceva.

Lo stereo diffonde una musica jazz e l’aria profuma di incenso, e se ci fosse un fiumiciattolo nel bel mezzo della casa non ci troverei nulla di strano. Alle pareti, quadri, stampe, arte digitale, sculture e installazioni. Una di queste campeggia al centro della stanza: fili di alluminio che dal soffitto raggiungono il pavimento. Ogni cavo ospita un omino bianco di cartapesta. Mi perdo nel groviglio finché mio figlio mi afferra per il braccio e mi conduce in cucina, invasa dalla fragranza di zenzero e mandorle e dalla presenza di Sveva e Leo Perotti, l’artista socievole che mi accoglie come fossimo due grandi amici che si ritrovano dopo anni di lontananza.

Rossana è sorridente e disponibile, stringe mani, si guarda intorno ammaliata, sembra divertirsi. E, infatti, a un certo punto, se ne esce con questa frase: «Comme è bella ’sta casa, pare n’albergo!»

Mi volto di sottecchi e noto Sveva, appoggiata al frigo con le mani intrecciate, che lancia sguardi a dir poco sorpresi nei confronti della mia accompagnatrice. Distolgo l’attenzione e mi concentro sulla cena, che non poteva essere diversa da come l’avevo immaginata: farro allo zafferano e carote, sardine in tempura, crostata di piselli e acciughe da accompagnare con uova di salmone rosse. Cerco una normale fetta di pane, ma la cosa che più si avvicina sono delle gallette di riso. Per fortuna sul tavolo c’è una bottiglia di vino rosso. Mi verso solo un fondo di bicchiere per non sorbirmi una partaccia e nel frattempo getto un’occhiata furtiva a Rossana, la quale non sembra essersi accorta dello sguardo poco carino di Sveva e ascolta con attenzione l’artista gay che spiega i segreti reconditi dei suoi piatti. Dante si avvicina e mi sussurra all’orecchio: «Simpatica, questa Rossana».

«Già» mi limito a rispondere, prima che il prode Leo circuisca anche me in una conversazione sulla cucina macrobiotica e la dieta mediterranea, due argomenti sui quali mi risulta difficile dire la mia. In realtà tutto ciò che riguarda salute e benessere mi annoia non poco, perciò mentre Perotti illustra mi produco in uno sbadiglio. Ho dimenticato le buone maniere, i sorrisi di circostanza e le argomentazioni futili. Gli anni trascorsi fra gli ultimi e i soli della terra mi hanno segnato, so di cosa parlare con una prostituta, ma non riesco a disquisire con un uomo brillante. Certe volte penso che se nasci in un certo modo, non puoi morire in un altro. Ti illudi per una vita di aver cambiato direzione, salvo poi accorgerti che alla fine la scorciatoia ti ha riportato sulla via dalla quale provieni.

Per fortuna nella discussione interviene Rossana, con tutta la sua energia femminile, e posso eclissarmi senza dare troppo nell’occhio. Esco sul balcone e resto a guardare le strade che si srotolano sotto i miei piedi. In realtà a Napoli più che la vista serve l’udito, è una città che si svela attraverso il suono. Nelle viuzze di Chiaia, per esempio, le sere d’estate si riescono ad ascoltare i tacchi delle signore che camminano sicure sui ciottoli, qualche risolino in lontananza, o due bicchieri che si toccano appena dietro il vicolo. Posillipo, invece, sembra muta, con le strade ampie e deserte che si dipanano silenziose sulla collina, mentre la città poco più giù appare ovattata. Devi saper ascoltare con attenzione i vagiti dei quartieri nobili se vuoi imparare a conoscerli. Nel centro storico, invece, bisogna saper distinguere, prestare attenzione solo a ciò che interessa, separare i suoni, come le tracce di una canzone da mixare. Così puoi gustarti il vocio degli studenti che vagano fra i vicoli antichi, il frastuono di posate che zampilla dalle trattorie, le tante campane che battono la domenica mattina, il richiamo dei venditori ambulanti, la voce rauca e malferma di un vecchio che suona la fisarmonica ai piedi di una basilica sprangata e dimenticata. Per gustarti tutto ciò devi, però, cancellare il ronzio dei motorini che infestano le strade, le urla di donne che si azzuffano per un nonnulla, la voce di un neomelodico che esplode dai finestrini di un’auto.

«Venga, ho qualcosa per lei» esordisce Perotti appena spuntato sul balcone, e mi afferra il braccio.

Vorrei intervenire e riprendermi l’arto con un gesto irruento, poi noto ancora una volta Sveva in piedi accanto al frigo che mi scruta con aria severa. È da quando sono entrato che tiene d’occhio me e Rossana. Credo che la mia compagna non le sia piaciuta granché, ma, in effetti, non mi aspettavo che l’incontro producesse un esito diverso. Sveva è troppo arrabbiata con la vita per gustarne le mille sfaccettature. Per lei è sempre tutto bianco o nero, e mai potrebbe frequentare una persona che non sia della sua stessa estrazione sociale.

Per fortuna, il mio vecchio amico artista mi ruba da tali pensieri e mi trascina in salotto. Sto lasciando Rossana in balia dei miei due figli, non proprio una cosa carina. Ma tanto lei saprà venirne fuori, una che sa tenere a bada un vecchio approfittatore come me, sa anche affrontare uno squalo come Sveva.

«L’altra sera mi è sembrato che le piacesse» fa l’artista e indica il quadro di Superman che giace per terra, appoggiato alla parete, «così ho pensato di regalarglielo!»

Osservo prima il dipinto, poi lui. Superman e Leo Perotti hanno lo stesso sorriso tronfio sul volto. Mi sembra troppo. «Senta, capisco che le interessa fare colpo sul sottoscritto, ma tutto ciò mi sembra eccessivo!»

Il sorriso gli si spegne d’incanto e solo il supereroe continua a gustarsi la scena, divertito.

«Che poi, guardi, lei non ha bisogno della mia autorizzazione, né di essere simpatico a tutti i costi. Dante ha un’età e per fortuna le sue scelte non dipendono da me.»

«Cercavo solo di essere gentile» ribatte lui un po’ meno cordiale di due secondi prima, «e non perché mi interessa la sua autorizzazione, ma perché voglio bene a Dante e mi fa piacere che lui sia contento.»

Forse ho sottovalutato il pittore. Ora che ho stuzzicato la sua dignità, mi sembra più coriaceo.

«E lui è contento se io e lei andiamo d’accordo, è così?»

Ora è lui a guardarmi con un pizzico di superiorità. «No, Dante sarebbe contento se lei accettasse davvero il suo modo di essere.»

«E chi le dice che non lo accetto?»

«Be’, se non le ha mai parlato di me fino a oggi, un motivo ci sarà.»

Il buon Perotti inizia a starmi più simpatico.

«Se non me ne ha mai parlato, è perché non gli andava. Io ho sempre rispettato la sua volontà, non l’ho mai spinto a rivelarmi nulla.»

«Non l’ha neanche mai spronato, però» ribatte lui deciso. «Forse Dante aveva bisogno solo di quello...»

Ma tu guarda se alla mia età mi devo far trattare come un idiota anche dal compagno di mio figlio. Fra le molte accuse degli ultimi giorni, mi mancava anche quella di non aver spronato Dante a rivelarmi i suoi gusti sessuali. Sto per rispondere alla mia maniera, ma Sveva entra in salotto con una pietanza in mano. Leo ne approfitta per tornare in cucina e io mi ritrovo solo con mia figlia. Dannazione, dalla padella nella brace! Socchiudo gli occhi e per un attimo penso di andare di là e scusarmi con Perotti, non tanto perché convinto di aver sbagliato, quanto per sfuggire allo sguardo da ramanzina di Sveva dietro le mie spalle. Così faccio un passo in avanti per allontanarmi, ma lei mi afferra il braccio. Stasera tutti sembrano interessati al mio arto. Mi volto sorridente, solo che Sveva non sorride per nulla. Sembra, anzi, preoccupata.

«Cosa c’è?» chiedo.

Mi strappa il bicchiere di vino dalle mani ed esordisce con tono irruento: «Se l’altro giorno non mi avessi detto la tua su Enrico» ribatte sottovoce, «non ti avrei detto la mia su questa Rossana con la quale ti accompagni».

Una risata un po’ sguaiata della mia amica sbuca dalla cucina e raggiunge il salotto. Sveva socchiude gli occhi e aggrotta le sopracciglia come se avesse appena ascoltato qualcuno strofinare le unghie su una lavagna. Io continuo a sorridere.

«Dove l’hai trovata?» chiede poi.

«Perché, non ti piace?» domando sempre più divertito.

«Be’, diciamo che è alquanto folcloristica...»

«Sì, hai ragione, è proprio il termine esatto, quello che non riuscivo a trovare. È folcloristica, stravagante, bizzarra.»

Lei mi guarda stupita e non risponde.

«Vedi, figlia mia, questo vecchio che ti ritrovi di fronte ha bisogno, per non soffocare, proprio di un po’ di stravaganza, di bizzarria. Quella che servirebbe anche a te.»

«Perché devi fare sempre lo spiritoso? Non hai pensato a noi? A quanto possa essere umiliante per i tuoi figli vederti accompagnato con una donna simile?»

«Cos’ha che non va?» chiedo allora, senza più sorridere.

Lei abbassa solo un attimo lo sguardo, quindi replica dura: «Non è adatta a te, e a questa famiglia. E credo che la sua presenza qui sia anche offensiva per nostra madre».

A questo punto sbotto, e soffoco un urlo: «Non parlarmi di cosa è offensivo. È offensivo che nessuno mi sia venuto a dire che mio figlio è gay. Questo è offensivo! È offensivo che mia moglie abbia avuto una relazione per cinque anni con un altro. Ed è offensivo anche quello che fai a tuo marito, se lo vuoi sapere. Tutti offendiamo qualcun altro. Tu non sei poi così diversa da me».

Lei resta a fissarmi silenziosa, gli occhi carichi di rancore e umiliazione.

«E ora lasciami vivere quel che mi resta da vivere in modo bizzarro. Ho trascorso un’intera vita nella normalità e solo a sentirne il tanfo mi viene il voltastomaco!»

L’attimo seguente gli altri invadono il salotto con nuove pietanze in mano e il sorriso stampato sul volto. Li guardo stupito e mi siedo a capotavola. Alla mia accompagnatrice sono bastati cinque minuti per farsi accettare da Dante e dal suo compagno, a me, invece, lo stesso minutaggio è servito per farmi disprezzare ancora di più da mia figlia. Curioso, più vado avanti con gli anni, più tendo a ridurre il tempo, come un maratoneta che gareggia contro se stesso anch’io tento sempre di migliorarmi. In punto di morte mi basterà uno sguardo per farmi detestare.

Leo Perotti, comunque, anziché disporsi il più lontano possibile, sceglie il posto accanto al mio. Gli dedico uno sguardo rispettoso, in fondo non è un vigliacco.

«Ti è piaciuto il regalo?» chiede Dante appena seduto. «Pensa che Leo era titubante, credeva che non l’avresti accettato. Ma io ti conosco bene, se ti piace una cosa, non fai tante storie!»

Eh sì, mi conosci proprio bene, caro Dante, quasi come io conosco te. Strano, eppure mi sembra che nella tavolata l’unica a conoscermi davvero sia Rossana. Sorrido di nuovo a Perotti, che ricambia poco convinto. Peccato, si è già stufato di combattere. Allora mi dedico al mio avversario di sempre, il più duro.

«Come mai Diego non c’è? Altra improvvisa riunione di lavoro?» esclamo mentre mi sistemo il tovagliolo sulle gambe.

Sveva, però, non mi rivolge nemmeno un’occhiata e passa a riempire il piatto di Rossana, la quale subito dopo si lascia andare a un altro commento: «Mmm, come è buono ’sto risotto».

Dante e Leo si guardano divertiti, io mi giro verso mia figlia in attesa dell’ennesimo sguardo di biasimo che, però, non arriva. Lei, infatti, decide di sorprendermi e ribatte gentile: «È farro, assomiglia al riso, ma non lo è».

Non so se sia stata la mia partaccia, ma Sveva ora appare più disponibile e serena. Tutti sembrano sereni e si danno da fare per rendere la serata piacevole. Tutti, tranne me.

«Allora, diteci...» esordisce Dante. «Come vi siete conosciuti?»

Lo sapevo, mio figlio è una suocera pettegola che non si fa i fatti suoi.

«Rossana è stata la mia infermiera, un paio di anni fa...» spiego.

«Ah, sì, ecco dove ci eravamo viste!» commenta mia figlia, e non capisco se dietro il suo intervento ci sia un interesse nascosto e voglia in qualche modo rovinarmi la cena. Ma è la serata di Dante, siamo qui per lui, e non credo farebbe questo al fratello. Ciononostante mi sento in dovere di intervenire per togliere dall’imbarazzo la mia compagna, così decido di andare dritto al punto.

«Allora, che mi dovevi dire di tanto importante?» chiedo rivolto a mio figlio.

Dante mi guarda stupito. Forse pensava che mi sarei accontentato di aver capito, che gli sarebbe bastato farmi trovare l’artista davanti. No, caro Dante, per una volta nella vita tira fuori un po’ di coraggio e affronta il tuo vecchio, che tra l’altro stasera è già abbastanza nervoso.

Lui, però, non parla. È Sveva a intervenire, come sempre, e a togliere il fratello dall’imbarazzo. «Va be’, semmai te lo dice dopo, in privato.»

«No, facciamo in un altro modo ancora» ribatto e fisso Dante, «ti sollevo dal compito. Parlo io!»

Quindi bevo un lungo sorso di vino e poso il tovagliolo sulla tavola, fregandomene dell’ennesimo sguardo da ramanzina di mia figlia. Rossana mi dà un calcio da sotto il tavolo, ma io sono già partito. «Dante, tu sei omosessuale! Lo sanno tutti, a tutti lo hai detto, persino a tua madre. Solo io ne sono rimasto fuori, forse perché pensavi di aspettare la mia morte. Ebbene, ho due notizie importanti da darti stasera: la prima è che a morire non ci penso proprio, la seconda è che dei tuoi gusti sessuali non mi importa un fico secco. Ti voglio e ti vorrò sempre bene, anche se non te l’ho mai detto, anche se ho sbagliato tanto nei tuoi riguardi e a volte può sembrare che non me ne freghi nulla di te. Io ti ammiro, come uomo e come figlio. Ammiro e amo te e Sveva allo stesso modo, puoi esserne certo. Ecco, questo avevo da dirti, da dirvi», getto uno sguardo anche a mia figlia, «e finalmente ho trovato il coraggio. Ora, se volete, possiamo continuare a ingozzarci per il resto della serata, altrimenti mi alzo, prendo sottobraccio la mia signora e me ne vado.»

Chino il capo e inizio a mangiare, anche se la mano tremante non mi permette di mantenere salda la forchetta. Certe volte anche recitare la parte del burbero mi costa una fatica tremenda. Quando sollevo il capo, mi accorgo che Dante ha gli occhi lucidi, Sveva si sta asciugando una lacrima, Rossana fissa il piatto e Leo Perotti me. Sorrido ancora una volta a quest’ultimo, allora lui mi porge la mano ed esclama: «Lo sa, fino a poco fa pensavo che fosse proprio uno stronzo! È riuscito a farmi cambiare idea nel giro di due minuti».

Questo Perotti è un gran bel tipo. Ricambio la stretta e ribatto: «Be’, se è per questo anche lei mi ha fatto ricredere sul suo conto. Ora siamo pari!»

Poi scoppiamo a ridere. Rossana ci viene dietro, a Sveva e Dante non resta che adeguarsi. La cena prosegue placida e anche la cucina macrobiotica di Perotti sembra buona. Mi rilasso, anche grazie all’aiuto del vino, e ascolto gli altri raccontare e raccontarsi, cosa che mi capita di rado. Quando mi alzo per andare in bagno, Dante mi fa strada, accende la luce in gabinetto e resta lì a fissarmi.

«Che c’è, vuoi anche aiutarmi a sgrullarlo?»

Lui sorride e risponde: «Ti volevo ringraziare per le tue parole, so che ti sono costate molto!»

«Non hai nulla di cui ringraziarmi, sei ancora in credito!»

«Non fare troppo il severo con te stesso, in fin dei conti non sei stato un cattivo genitore.»

«Sveva non la pensa allo stesso modo...»

«Sveva la conosci, le piace lamentarsi e incolpare gli altri delle sue scelte.»

Mi rendo conto solo adesso di avere sbagliato tutto negli ultimi anni, non dovevo frequentare così assiduamente mia figlia, ma suo fratello.

«Assomigli sempre più a tua madre» dichiaro con un sospiro.

Lui ricorda Caterina, Sveva me. Non c’è bisogno di un genio per capire chi, fra me e mia moglie, fosse migliore.

«Perché Caterina non me lo ha detto, almeno lei?» chiedo.

Lui sembra sereno e appagato. «Perché avevo pregato di non farlo.»

Semplice, fin troppo. Tra un figlio e un marito si protegge il primo. Sempre. Se campo ancora a lungo chissà quante verità mi tocca scoprire su Caterina.

Chiudo la porta e mi siedo per urinare. Il bagno è pieno di creme e lozioni strane, e nell’aria aleggia odore di vaniglia. Forse sono le candele, ce ne sono di tutte le misure, adagiate su ogni spazio libero. Quanto invidio le persone che sanno prendersi cura del luogo che li ospita. Ha ragione Rossana, questa casa assomiglia a un hotel a cinque stelle, non mi sembra neanche di trovarmi in un cesso, ma in una hall. Per fortuna, fra le decisioni più sagge degli ultimi anni c’è quella di urinare seduto, altrimenti al povero Perotti sarebbe venuto un infarto nel vedere il bel gabinetto del suo amato chiazzato di piscio.

Al mio ritorno trovo solo Sveva seduta al tavolo con le braccia conserte al petto e lo sguardo incantato che fissa il calice di vino. Credo mi stesse aspettando. Dante e il compagno, infatti, sono in cucina con Rossana. Incredibile, ma fra i tre sembra essersi instaurata un’energica alchimia. Penso sia giunto il momento di andarsene, prima che mia figlia inizi di nuovo a sfogare la sua infelicità su di me.

«Mi dispiace per prima» fa, invece, lei.

«Lascia stare» ribatto duro.

Sveva mi guarda alcuni istanti e dichiara: «Non mi sarei mai aspettata un discorso simile da te, davanti a degli estranei, poi. Mi hai sorpreso!»

«Mi sottovaluti.»

«Può darsi» replica con un mezzo sorriso.

I rumori della cucina fanno da sottofondo. Mi siedo al suo fianco, il gomito sullo schienale della sedia vicina, e affermo: «Per tornare a prima, mi sa che anche la scelta del tuo Enrico in fondo un po’ lo è. Bizzarra, intendo. Per questo non ho indagato più, perché ho capito che anche tu ti trovi in quel punto della vita nel quale serve un po’ di stravaganza. E forse hai solo paura di guardare in faccia il tuo cambiamento».

Lei china il capo e non ribatte. Allora proseguo: «Lo so, la paura è una rompiscatole, una vocina insistente e fastidiosa che più la scacci e più ritorna. Eppure sai che cosa ho capito? Che in realtà quella vocina sta facendo solo il suo lavoro, tenta di salvarti da te stesso, ti vuole avvertire che, se non ti muovi, ben presto le cose dentro di te inizieranno a marcire».

Sveva risponde senza alzare la testa: «La verità è che mi sento confusa, non so che decisione prendere...»

«Sai qual è la più grande stravaganza?»

Lei fa di no con la testa.

«Vivere d’istinti.»

Mia figlia mi guarda perplessa.

«Finirla di mettere inutili paletti mentali. Se segui l’istinto, non sbagli mai. Gli uccelli ogni anno migrano senza chiedersi il perché. Ecco, anche noi dovremmo fare altrettanto, muoverci di continuo e non porci troppe domande. Io me ne sono fatte tante negli anni e sono rimasto immobile. Ora devo recuperare, voglio migrare ogni giorno un po’.»

«Con Rossana?»

«Anche, perché no?»

«E con Enrico che dovrei fare allora? Migrare anche io?»

«Dovrei dirti di pensarci bene, ma non me la sento.»

Lei ansima e ondeggia il capo, infine commenta: «Almeno riesci ancora a divertirmi con le tue teorie strampalate».

«Non male per un vecchietto...»

«State insieme?» domanda subito dopo.

«È solo un’amica, nulla di più.»

«Peccato, forse sarebbe stato meglio.»

«In che senso?»

«Be’, sarei più tranquilla se sapessi che c’è qualcuno a prendersi cura di te.»

Mia figlia si preoccupa della mia salute, di non farmi bere e fumare, così da poter bisticciare con me il più a lungo possibile.

«Lo sai che so cavarmela.»

«Sì, ma a star troppo da soli si peggiora.»

«Mi trovi peggiorato?»

«Be’, se me lo avessi chiesto prima di questa sera, avrei risposto di sì.»

Emetto uno sbuffo divertito. In fin dei conti non è troppo difficile far colpo sugli altri, basta sforzarsi di tirare fuori le parole anche quando non ne vogliono sapere di salire a galla.

 

 

Alla porta Leo mi stringe la mano con la stessa cordialità adottata al mio arrivo. Stavolta ricambio, alla fine è riuscito a fare colpo su di me, una cosa non da tutti, e poi vuol bene a mio figlio e, forse, gli dedica le attenzioni che io non gli ho dato. Dante, invece, mi abbraccia. Lo lascio fare, anche se il suo profumo dolce mi provoca la nausea. In realtà è il gesto a mettermi in difficoltà, ma mi piace pensare che sia il profumo.

«Ora è meglio che vada» dico quindi.

Sono vecchio e i vecchi non possono commuoversi. Già se la fanno sotto, se si mettono anche a frignare è come frequentare un neonato.

Sveva scende insieme con noi. «Volete un passaggio?»

«No, grazie, cerchiamo un taxi per strada, così facciamo anche due passi» rispondo.

Lei saluta Rossana con cordialità e le porge il biglietto da visita, quindi mi abbraccia, come ha fatto suo fratello pochi minuti prima. Allora è vero che a un certo punto dell’esistenza si fa pace con i genitori. Credo che avvenga quando continuare a masticare rabbia è più faticoso che posarci una pietra sopra.

«Non ti preoccupare per noi. Siamo più contenti di quanto tu immagini» mi sussurra in un orecchio, prima di staccarsi.

La scruto. È sempre stata elegante, come la madre, ma stasera la trovo anche bella, più sinuosa. Forse perché è un po’ meno aspra.

«Dai un bacio a Federico» mi limito a ribattere.

Sulla via del ritorno Rossana mi sembra allegra. «È stata proprio ’na bella serata» commenta all’improvviso.

Il calpestio di foglie secche accompagna la nostra chiacchierata.

«Già» replico, mentre mi sistemo il quadro di Perotti sotto l’ascella.

Alla fine non ho potuto dire di no. Lo appenderò in salotto, almeno ci sarà qualcuno che sorride a farmi compagnia durante le mie nottate insonni.

«Comunque i tuoi figli sono proprio simpatici. E ti vogliono bene assai!»

«Bah, certe volte mi convinco del contrario, soprattutto per quel che riguarda Sveva.»

«Ma che dici? Si vede che è innamorata di te, un po’ come tutte le figlie!»

Faccio una smorfia incerta, lei scoppia a ridere e mi schiocca un bacio sulle labbra. Per tutta risposta chino il capo e fingo di guardare l’orologio, per non mostrarle le mie guance rosse.

Percorriamo via dei Mille in silenzio e ci tuffiamo in una gelateria ancora aperta, dove, alla faccia dello strudel macrobiotico di Perotti, ci prendiamo due coni alla mela annurca. Poi Rossana si ferma davanti a una vetrina spenta e io ne approfitto per guardarmi attorno e mi lascio rapire dai ricordi; gli angoli delle strade ne sono pieni, basta solo avere buon occhio e vivida memoria. Lì di fronte, per esempio, un tempo c’era una libreria con le pareti bianchissime e gli scaffali color miele. Mi fermavo ogni giorno ad ammirare quel legno biondo senza viti e chiodi che stava insieme come per magia e rendeva il locale simile a una grande barca a vela. Non ce ne sono più di librerie così belle, almeno in città. All’epoca mi vedevo con una ragazza del liceo Umberto, a pochi metri da qui, anzi mi vedevo non rende l’idea, ne ero proprio innamorato. Mi sono sempre innamorato delle donne con le quali uscivo. Io e l’innamoramento ci siamo subito piaciuti, è con il sentimento successivo, quello che la gente chiama amore, che non è mai scattata la scintilla. Ma questo è un altro discorso e stavo parlando della libreria, dove trovai rifugio un giorno che pioveva a dirotto e la mia lei non si decideva a uscire da scuola. Restai incantato da quel luogo magico e dai libri, e iniziai a pensare che un domani avrei potuto anch’io avere una libreria tutta mia. Invece capitò un evento che modificò la mia vita, uno di quei piccoli grandi snodi invisibili che ti fanno cambiare strada. Insomma, fra i miei tanti innamoramenti di gioventù vi fu la panettiera sotto casa. Per lei abbandonai di fretta e furia la liceale di Chiaia e la vecchia libreria. Con la panettiera, però, non funzionò, faceva orari impossibili e mi portava dei panini caldi a ogni incontro. Immaginai il futuro e mi vidi grassissimo e annoiato, così lasciai anche lei e mi dedicai allo studio. In breve arrivò il tanto agognato titolo di ragioniere che mi fece incamminare lungo il percorso che mi ha portato fin qui. Se solo a quel tempo non avessi incontrato la panettiera, forse avrei sposato la liceale e avrei continuato a frequentare la vecchia libreria. Forse mi sarei addirittura fatto assumere e la mia gavetta sarebbe stata lì anziché alla Partenope Service.

Comunque, un giorno, avevo già Sveva, passai da queste parti e mi accorsi che la mia amata libreria non c’era più, sostituita da un negozio di scarpe femminili, l’ennesimo. Fu in quel preciso istante che mi resi conto di ciò che avevo perso, di come la vita fosse venuta a ingannarmi con le fattezze di una panettiera dalle forme sinuose. Non so se avrei mai potuto fare il libraio, so, però, che nella vita a volte avverti un piccolo scampanellio accanto all’orecchio. Può capitare davanti a una donna, in un luogo specifico, mentre ti adoperi in qualcosa che ti piace. Ecco, se dovessi dare un consiglio a mio nipote Federico, un solo consiglio, sarebbe questo: quando senti quel piccolo scampanellio, solleva il capo e drizza le orecchie, sei di fronte a uno di quegli snodi invisibili e ti assicuro che a sbagliare rotta basta un attimo.

 

 

Giunto a casa, vado dritto nello stanzino e afferro un martello e due chiodi. È tardi, ma chi se ne frega, per una notte sarò io a svegliare il vicinato. Sistemo Superman al centro della parete del salotto, proprio sopra il divano, e resto a osservarlo incantato.

«Sì, mi piaci!» esclamo poi.

Come mi piace Leo Perotti. Mi piacciono Dante e Sveva, Rossana, Emma, Marino e la gattara. Forse stasera persino il vecchio che palpeggia mia figlia non mi sembrerebbe così male. La verità è che non si può essere sempre scorbutici e antipatici, altrimenti gli altri iniziano a crederti.

Vado in cucina e mi verso un bicchiere di vino. Quando chiudo lo sportello del frigo, scorgo Belzebù che mi guarda con aria assonnata. Gli offro l’ultima sottiletta rimasta, quindi lo acciuffo per la collottola e me lo porto nella stanza da letto. Prima di spogliarmi lo accarezzo sulla testa e le sue fusa mi rubano un sorriso. Sì, è come pensavo, sto diventando davvero troppo vecchio.