Come le nuvole

Stamattina mi sono alzato più presto del solito, ho sfilato piano le coperte e mi sono avviato in cucina. Sveva e Federico ancora dormivano, beati loro. Ho trascorso l’intera nottata attento a non muovere neanche un mignolo per non svegliare mio nipote. Dopo un po’ avevo la spalla anchilosata e il braccio intorpidito, eppure non era la sensazione peggiore che attraversava il mio corpo. Circa due ore dopo essermi addormentato, infatti, mi è venuto a trovare, puntuale come un orologio, lo stimolo di urinare, che dopo altri sessanta minuti si è tramutato in impulso inarrestabile. La vescica mi stava implorando di aiutarla a liberarsi di tutto l’inutile liquido da me accumulato durante la giornata. E, in effetti, a cena avevo un tantino esagerato col vino. Valle a spiegare (alla vescica, intendo) che una caraffa di vino ha il miracoloso dono di rendere tollerabile persino una malinconica e solitaria serata davanti a un inutile varietà.

Fatto sta che avevo bisogno del bagno. Il problema è che per arrivarci dovevo accendere la luce, infilare gli occhiali, indossare le pantofole e strusciarle lungo il corridoio. Impossibile che con tutto quel baccano Sveva e Federico non si svegliassero. Perciò sono rimasto immobile per le restanti quattro ore, adagiato su un lato perché con la vescica gonfia come una mongolfiera starsene supini richiede una soglia di resistenza al dolore non umana.

Insomma, la nottata non è stata delle più riposanti, eppure, se possibile, la giornata è andata anche peggio. Durante la colazione Sveva mi ha annunciato che la sera sarebbe tornata a casa. Le ho sorriso, anche se sono certo che è riuscita a leggere sul mio volto la delusione. Non tanto perché forse stava ancora una volta decidendo di non scegliere, quanto perché la sua breve e inaspettata visita mi aveva reso più felice di quanto pensassi. Ci si abitua alla solitudine e si dimentica di come la notte faccia meno paura se c’è qualcuno che ti respira accanto. Comunque la decisione era presa e io non potevo farci nulla, così mi sono limitato a bere il caffè in silenzio fino a che lei mi ha chiesto la cortesia di accompagnare Federico a scuola. In passato la sua richiesta mi avrebbe fatto aggrottare le sopracciglia, stamattina, invece, mi sono sorpreso a sorriderle soddisfatto.

Meno di un’ora dopo, ero con Federico davanti alla scuola. Lì mi sono bloccato e ho rivolto gli occhi al cielo terso, dove poche nuvole buffe scorrevano annoiate in direzione del Vesuvio. Non era giornata per chiudersi in aula. Allora mi sono girato verso mio nipote e ho detto: «Sai che facciamo adesso?»

Lui ha fatto di no con la testa.

«Non entriamo, a scuola andrai domani. Stamattina stai con il nonno!»

Federico ha sorriso e spalancato gli occhi, permettendo a un vecchio scorbutico come me di sentirsi, almeno per una volta, una persona migliore.

«E che facciamo?» ha chiesto.

Già, che potevamo fare? Dove portavo Sveva? Poi mi è venuta la folgorazione: Edenlandia, il parco giochi che ha accolto tutti i bambini di Napoli.

«Vieni con me» gli ho risposto, e mi sono diretto alla fermata dei taxi.

Ebbene, incredibilmente, un martedì mattina, mi sono ritrovato di colpo all’interno di un luna park che non frequentavo da più di trent’anni. Quando Federico ha capito dove eravamo diretti ha iniziato a urlare e per l’intero tragitto in auto non è riuscito a tenere ferme le gambe. Il corpo tradisce sempre le nostre emozioni, si tratti di dondolare in preda all’indecisione e alla paura o di agitarsi per la felicità. Quest’ultima, anzi, è molto meno mascherabile.

Purtroppo il sorriso con cui Federico è entrato nel parco a me si è spento appena oltrepassato il cancello d’ingresso. Lui ha cominciato a correre da un’attrazione all’altra in preda alla gioia e a me non è restato altro da fare che uniformarmi al suo entusiasmo, nonostante il languore melanconico che mi attraversava. Eh sì, perché io sono come la corda di una chitarra, in pace con me stesso finché qualcuno non mi pizzica; da quel momento inizio a vibrare all’infinito. Insomma, la vista di quel luogo mi aveva fatto tornare indietro nel tempo. E alla mia età è molto pericoloso procedere a ritroso.

 

 

Era l’inizio degli anni Settanta e Edenlandia era nel pieno del suo boom. Sveva era piccola e Caterina e io decidemmo di portarla per la prima volta a vedere il grande parco a tema orgoglio di Napoli e dell’intera penisola. Caterina era entusiasta e nostra figlia non stava nella pelle; l’unico che proprio non riusciva a provare lo stesso entusiasmo ero io. Almeno fino a quando conobbi una tipa, mi pare si chiamasse Debora, una ragazza di circa vent’anni che sostava insieme con altre due amiche davanti a una bancarella di tiro al piattello che regalava pupazzi. Caterina e Sveva erano bloccate nella «Casa degli specchi», così mi avvicinai alle tre e iniziai il mio solito corteggiamento neanche troppo velato. In breve riuscii a vincere il peluche bramato da Debora e ne conquistai il cuore. Mi ringraziò e si allontanò con le amiche fra risatine e occhiate seducenti. Trascorsi il resto della giornata pensando al sorriso di Debora anziché a quello di mia figlia che, nel frattempo, sembrava come impazzita di fronte allo spettacolo che ci circondava.

Sarebbe potuta essere la giornata perfetta, mi sarei potuto e dovuto sentire in pace con la vita, con mia moglie che mi dedicava sguardi di amore, con mia figlia che rideva allegra e mi stringeva la mano, con la mia città che avrebbe voluto regalarmi una giornata da incorniciare. Ma avevo incontrato Debora, il suo corpo inebriante, la risatina un po’ infantile, lo sguardo carico di sensualità. Perciò finsi di essere felice quanto la mia famiglia, anche se felice non lo ero, e non tanto per la scomparsa della giovane musa, quanto per il fatto che fosse bastata lei, una ragazzina come tante, a farmi perdere di vista la bellezza di quel giorno.

All’uscita la incrociai di nuovo e, nel vedermi con Sveva per mano e Caterina accanto, mi dedicò uno sguardo ironico e forse anche un po’ sprezzante.

Chinai il capo per la vergogna e mi nascosi in un maldestro sorriso a mia figlia.

 

 

Con Federico siamo passati dalla giostra dei cavalli al Jumbo, dal trenino alla Vecchia America, per poi trovarci sul famoso Drago volante, una specie di treno che da mezzo secolo corre in circolo per fare in modo che gli imbecilli come me possano acchiappare al volo uno stupido fiocco sospeso. Be’, abbiamo fatto sei giri pur di acciuffare quel maledetto fiocco, al terzo Federico ha detto che si stava annoiando e voleva andare a comprare i popcorn, ma io non ho voluto sentire ragioni: fino a che non avessi ghermito l’obiettivo, non ci saremmo allontanati. Mi sono riposizionato in fila per acquistare l’ennesimo biglietto, sennonché un signore sulla quarantina, con accanto il figlio paffuto che leccava dello zucchero filato, si è intrufolato con un’abile mossa fra la gente e ha raggiunto la cassa.

In ottant’anni di Napoli tutti assimilerebbero una semplicissima regola: mai attaccare briga con un tipo ben piazzato, pieno di tatuaggi e con un marcato accento dialettale. Non è la città giusta per fare i pignoli. Eppure mi sono avvicinato al nobiluomo e ho esclamato: «Gentile signore, si è accorto che c’è una fila?»

Lui mi ha dedicato uno sguardo annoiato e ha ribattuto: «Aggio fatto».

Non ci ho visto più. «Forse non mi sono spiegato. Lei deve tornare indietro!»

A quel punto ho avuto la sua piena attenzione. «Ma che vuo’?» ha ribattuto con tono confidenziale ma non per questo amichevole.

«Che torni dietro!» ho reagito veemente.

Un signore alle mie spalle mi ha tirato per il braccio e ha sussurrato un «lasci stare». Se avessi avuto il tempo, mi sarei girato e avrei inveito anche contro di lui, che, in realtà, tentava solo di salvarmi. Gli avrei schiaffato in faccia la verità, che è proprio perché tutti lasciano stare che qui la gente continua a essere insolente. Ma non avevo tempo, perché l’omaccione sembrava abbastanza irritato dalle mie parole e si è fatto avanti minaccioso. Ero pronto a travestirmi da colonnello in pensione se non fosse intervenuto il ragazzo della sicurezza, che ha consegnato i biglietti al mio interlocutore e l’ha pregato, incredibilmente, di lasciar correre. E lui così ha fatto, ha lasciato correre, tanto a Napoli in questo sono tutti maestri, tranne il sottoscritto. Avrei voluto insistere, solo che Federico al mio fianco mi fissava spaventato, allora ho pagato e ci siamo seduti in carrozza, pronti all’ennesimo giro. Un attimo prima che il treno partisse, mi sono voltato verso mio nipote e gli ho detto: «Se vuoi davvero vivere qui, non fare come il nonno, impara la triste e disperata arte del ’lasciare stare’».

 

 

Pensavo che il luna park mi avesse permesso di colmare tutte le caselle ancora vuote della funzione di nonno, invece, una volta usciti, Federico ha preteso che ci recassimo allo zoo di fronte, dando conferma alla mia tesi secondo la quale bisogna sempre concedersi il meno possibile affinché negli altri non si creino eccessive aspettative. Fatto sta che, dopo essermi sorbito i pirati, le astronavi, i cavalli e i draghi, ho dovuto anche assistere al melanconico spettacolo degli animali in gabbia, anche questa un’esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno.

Ho imparato che il fenicottero deve il suo colore rosa al pigmento di un microcrostaceo di cui si ciba, che solo il quindici per cento dei neonati di struzzo raggiunge il primo anno di età a causa dei molti predatori, e che i cigni neri sono monogami e trascorrono tutta la vita con un’unica compagna. Sarebbe alquanto buffo se anche noi diventassimo dello stesso colore di ciò che ingeriamo, e che tragedia sarebbe se solo una piccola percentuale di bambini raggiungesse l’età adulta. Figuriamoci se anche l’essere umano fosse monogamo e trascorresse tutta la vita accanto a una sola persona. Solo alcuni animali possono tanto.

A ogni modo sono uscito da lì soddisfatto per aver regalato a mio nipote un ricordo che, forse, lo accompagnerà per gran parte della vita. Perciò me ne camminavo tranquillo e soddisfatto con Federico accanto, quando ho incrociato il mio terribile vicino di casa. In realtà lui si trovava sul marciapiede opposto e non mi aveva notato. Era appena sbucato da una banca insieme ad altre due persone con le quali sorrideva e scambiava battute. A vederlo così calmo e sicuro nella sua bella giacca scura, ho dubitato per un attimo che si trattasse della stessa persona che riduceva Emma in quello stato. Sono rimasto a guardare quegli individui ben vestiti che chiacchieravano e gesticolavano, figure come tante e per questo invisibili, tre sagome che, se non ci fosse stato lui, sarebbero scorse solo un istante davanti ai miei occhi per poi essere cancellate dalla giornata, un po’ come le nuvole della mattina.

A una prima occhiata non c’era nulla che non andasse nel mio vicino: elegante, viso pulito e sorridente, aspetto rassicurante. Tuttavia il solo guardarlo mi dava i brividi. Come può un uomo avere due sembianze? Come fa a non contaminare l’una con l’altra? E perché per gli altri il male è spesso impercettibile? Forse perché si trova al buio sotto la superficie. Come le nuvole, che hanno il capo rischiarato dai raggi del sole e il corpo nero e carico di rabbia.

«Chi è?» ha chiesto d’improvviso Federico.

«Un amico» ho risposto senza tentennamenti.

Ho continuato a fissare il nemico finché si è accorto di me. Solo allora il sorriso gli si è spento sul volto. Non sono un vigliacco o, quantomeno, combatto ogni giorno per non esserlo, eppure di fronte ai suoi occhi predatori ho provato qualcosa di molto simile alla paura. Poi, però, mi sono detto che era lui a dovermi temere, non il contrario, così ho sostenuto il suo sguardo finché il viscido ha girato le spalle e si è dileguato. Dopo ho ripreso a camminare con Federico per mano.

«Non lo saluti?» ha chiesto lui.

«Un’altra volta» ho risposto.

Quindi mi sono infilato nel primo bar e mi sono diretto di corsa al bagno. Pochi istanti e me la sarei fatta sotto.