«Il cinque maggio» a memoria

L’orologio segna l’una e ventuno di notte. L’ultima volta che ho sollevato lo sguardo, le lancette indicavano l’una e diciotto. Tre minuti, eppure a me sembrano un’eternità. La corsia è vuota, a farmi compagnia solo il ronzio della macchinetta del caffè in fondo al corridoio e l’odore di alcol che aleggia nell’aria. Lei è dentro, la stanno operando da circa due ore. Prima di chiudermi la porta in faccia, un medico mi ha preso in disparte e mi ha detto di aspettarmi il peggio. Non ho avuto la forza di ribattere, eppure avrei dovuto farlo, avrei dovuto afferrare il dottore per il camice e sbatterlo contro il muro per poi gridare: «Vai di là e salva la vita di quella ragazza. E non provare a dirmi cosa devo o non devo aspettarmi!»

Nessuno dovrebbe prendersi la briga di dire agli altri che cosa non devono aspettarsi dalla vita. Io mi aspetto che Emma esca con gli occhi aperti, mi aspetto che mi guardi e sorrida, poi si lasci tenere la mano. Mi aspetto che il piccolo dentro di lei abbia la possibilità di sbucare in questo mondo di matti e che quel pezzo di merda sia preso e gettato in una cella. Mi aspetto che la vita non decida di farmi assistere a un’altra tragedia, forse la peggiore. Troppe cose mi aspetto perché un uomo che nemmeno conosco possa permettersi di darmi consigli.

Mi guardo il polsino della camicia imbrattato di sangue, poi torno all’orologio. Quanto tempo ci vorrà? Quanto ne serve per salvare la vita di una ragazza? In quali mani si è annidata la responsabilità? Chissà cos’hanno fatto quelle mani durante il giorno. Avranno stretto altre mani, forchette, tovaglioli, forse sigarette, una penna, un volante, una saponetta, un libro, le dita di un bimbo, un bisturi.

Qui fuori ci dovrebbero essere i genitori di Emma, qualche parente, almeno uno zio lontano, invece sono solo, come lei dietro quella porta. Cerchiamo di circondarci di persone nell’illusione di sentirci meno esposti, ma la verità è che in sala operatoria si entra da soli. Noi e il nostro corpo. Nulla più.

L’una e trentuno minuti.

Si dice che da vecchi si diventi egoisti. Io lo sono da sempre, eppure ora mi trovo qui, ad attendere notizie su una donna che conosco da poco e che credevo di poter aiutare. Purtroppo la vita mi ha insegnato che nessuno può aiutare nessuno. Ci si salva da soli, se si vuole.

Mi alzo e mi dirigo verso la macchinetta del caffè. Non dovrei berlo, non a quest’ora e non alla mia età, ma sono tante le cose che non dovrei fare, il caffè non è la prima e non sarà l’ultima. Lo butto giù in un sorso ed esco a fumare una sigaretta. Fuori ci sono alcuni infermieri che parlottano di turni accanto a un’ambulanza. Gli ospedali sono posti strani, dove le gioie si contengono per non dar troppo fastidio ai dolori, al piano di sopra c’è una ragazza felice con un pargolo al seno e in sala operatoria una donna della stessa età che combatte per restare aggrappata alla vita. Faccio tre boccate e torno al mio posto. A volte bisognerebbe spegnere il cervello, un’altra delle cose sulle quali non abbiamo potere.

Avverto dei passi. Sollevo il capo e incrocio lo sguardo distratto di un medico che passa oltre. Solo quando è già di spalle, capisco che si tratta del dottore che quella sera ci fece un sacco di domande. Per sua fortuna fila dritto e non sembra riconoscermi, altrimenti avrei dovuto spiegare l’accaduto e ora si ritroverebbe a dover schivare una vagonata di rimorsi. Lui, come me, avrebbe potuto evitare tutto questo.

Mi alzo di nuovo e vado in bagno. Lo specchio riflette il mio volto incavato, le occhiaie, la barba sfatta e il sangue di Emma un po’ ovunque. Dopo l’infarto, il dottore disse che dovevo prendere i medicinali, non bere, non fumare, dormire con regolarità e non sottopormi a stress. Trascorsi tre anni, posso confessare di aver violato quattro regole su cinque e solo l’assunzione dei farmaci mi divide dall’en plein. Vorrei avere di fronte il medico di allora per chiedergli come si fa ad abolire lo stress, se lui conosce un trucco per riuscirci. L’ansia per l’uomo è uno stato fisiologico, per abbatterla sarebbe necessario eliminare la consapevolezza, come nei neonati o negli animali.

Ho una mia teoria al riguardo. Ritengo che le cose abbiano funzionato bene fino alla creazione della scimmia, dopodiché deve essersi inceppato qualcosa nel meccanismo ed è venuto fuori l’uomo, un essere troppo intelligente rispetto al compito riservatogli. L’intelligenza è un bene prezioso e, come tale, dovrebbe avere un fine prestabilito. A noi, invece, non serve quasi a nulla, se non a inventare oggetti sempre più strambi che ci fanno illudere di essere perfetti. Non ci aiuta a capire il perché della nostra presenza sulla terra, non ci rende meno esposti di altre creature. Non fornisce risposte, anzi crea nuove domande. E troppe domande aumentano l’infelicità. Non so se in natura esistano esseri viventi, a parte l’uomo, che si tolgono la vita, ma se anche così fosse noi siamo gli unici a farlo per il male di vivere. Perché? Perché chi ci ha plasmato ha sbagliato la miscela degli ingredienti, ecco perché.

Ma a proposito di teorie azzardate, torniamo ai medici. Devo essere sincero, la categoria mi sta un po’ sulle balle. Non tutti, per carità, ma alla maggior parte piace camminare due metri da terra. Salvare una vita umana può far sballare, è vero, ma ognuno di noi dovrebbe sempre tenere a mente un piccolo quanto decisivo concetto: ci troviamo a girare in tondo su una piccola palla che ruota intorno a una stellina gialla come tante altre, all’interno di un minuscolo sistema solare, il quale si trova in una zona periferica di una piccola galassia a forma di zampirone che si muove con maestosa lentezza. È solo una questione di prospettiva. Siamo come formiche. E ciononostante c’è ancora chi perde tempo a sentirsi più importante della formica al suo fianco.

Sto impazzendo, non sono fatto per l’attesa. Se resto per troppo tempo a contemplare una parete iniziano ad apparire draghi alati e arpie a due teste che si cibano della mia irrequietezza per crescere e uscire dal letargo forzato nel quale li mantengo.

Ho bisogno di una birra.

Fuori è umido e le strade sono deserte. Per fortuna di fronte c’è ancora un bar aperto; dietro al banco una donna sui sessanta, capelli tinti già da qualche mese e annodati con un elastico, pancia prominente e sguardo torvo. Le chiedo una birra. Ecco, mi sta soppesando, un vecchio decrepito che alle due di notte si fa una Peroni in solitudine. In uno squallido bar, aggiungerei. Non mi giudicare, brutta grassona, che non sai nulla di me. Ché, io giudico il tuo bel braccino flaccido con sopra tatuato un tribale? È uno spettacolo pietoso, ma saranno fatti tuoi, ci sarà pure un perché se tempo fa hai deciso di farti un tatuaggio senza pensare che poi il tuo bell’avambraccio sarebbe diventato qualcosa di molto simile a uno stinco di maiale.

Pago e sono fuori. Di fronte a me ancora il Vesuvio, con le migliaia di luci che si arrampicano fin quasi in cima. Si dice che a Napoli ovunque ti giri vedi il mare. In realtà credo che la presenza del vulcano sia ben più ingombrante. È lui che ritrovi ovunque volgi lo sguardo. Sono le sue gobbe che cerchiamo per imboccare la direzione di casa. È la sua energia che, come lava, si incunea fra i palazzi e infiamma i vicoli.

Rimarrei volentieri a gustarmi la città di notte, che sonnecchia placida e appagata, ma non mi fido: so che alle prime luci la creatura si sveglierà e avrà di nuovo fame. Perciò rientro e mi risiedo al mio posto.

L’una e cinquantasei.

Mi arrotolo le maniche della camicia e mi accorgo che le mani ancora mi tremano. Mi fermo a fissarle e mi appaiono così fragili, con tutte quelle macchie e la pelle raggrinzita. Mi capita spesso, guardandomi allo specchio, di non riconoscermi. Chissà perché conserviamo sempre un ricordo migliore di noi stessi. Ogni volta che ritrovo il mio corpo riflesso, mi sembra quasi di osservare un pigiama inzaccherato steso al vento.

Suona il telefono, è il numero di casa di Marino. Dovrei rispondere, ma non ce la faccio. Cosa gli direi? Che non so ancora nulla e mi sono appena scolato una birra?

Dopo un po’ che ero qui sono arrivati due poliziotti. Uno dei due, con un profumo troppo dolce addosso, si è avvicinato per parlarmi.

«È stato il marito» ho sentito proferire alla mia voce afona, «ma ora aspetto Emma. Dopo vi dirò tutto.»

Lui mi ha guardato, forse sarebbe voluto intervenire, avrebbe potuto anche costringermi a deporre, invece ha fatto un cenno col capo e si è allontanato, lasciando che la scia di profumo si dissolvesse in pochi secondi, divorata dall’odore dell’alcol.

La porta alla fine del corridoio si sta aprendo.

Ci siamo. È giunto il momento di conoscere il responso.

Mi alzo di scatto e avverto un giramento di testa mentre i battiti del cuore aumentano. Il dottore mi fissa, io ricambio e gli vado incontro con passo incerto. Alla mia età ancora non ho imparato a gestire l’ansia. In realtà sono molte le cose che non ho imparato e che nessuno mi ha mai spiegato. Ci insegnano le equazioni, Il cinque maggio a memoria, i nomi dei sette re di Roma, e nessuno ci chiarisce come affrontare le paure, in che modo accettare le delusioni, dove trovare il coraggio per sostenere un dolore.