Capitolo 25
A metà pomeriggio nello studio erano stati accesi i lampadari e l’aria profumava dell’aroma del ciocco che ardeva nel camino. Sulla mensola di marmo un candelabro illuminava dal basso il ritratto di Virginia e la figura della giovane donna sembrava prendere vita al guizzare delle fiammelle.
Prima di sedersi intorno alla scrivania insieme a Marco e Daniele, Chiara si soffermò a guardare il ritratto con un lieve sorriso. «Era molto bella» mormorò come a se stessa.
A passo lento arrivò Platone che, sazio per il pranzo, si sdraiò pigramente su una poltrona da cui prese a contemplare Chiara con aria sospettosa. La giovane si avvicinò per una carezza ma fu accolta da uno gnaulio irritato. È geloso, considerò. Gli passerà. Il gatto si leccò furiosamente il pelo dove era stato accarezzato.
Marco prese per primo la parola. Ripercorse gli incontri del giorno precedente e ragguagliò i presenti su un messaggio che gli era arrivato in mattinata da parte di Alvise Cappello. Il turco Ibrahim Derali aveva detto la verità: era partito da Venezia in ottobre sulla nave Fulminante ed era ritornato pochi giorni prima. Quindi si soffermò sulle rivelazioni di Angela Sporti. «I fatti delle ultime ore sono stati talmente tumultuosi che non abbiamo avuto il tempo di valutarli» aggiunse. «Purtroppo di tempo ne abbiamo poco, perché in città si parla sempre di più della presenza di un misterioso assassino che uccide a caso la gente, strangolandola. Noi sappiamo che la scelta delle vittime non è casuale, in qualche modo quei tre erano odiati da qualcuno, ma finché non mettiamo le mani su Labia e non otteniamo la sua confessione non faremo un passo avanti per far cessare le voci.»
«Per essere precisi» lo interruppe Daniele, «dobbiamo considerare che ci troviamo di fronte a due atti criminosi distinti, anche se forse legati tra loro da un rapporto di causa effetto. C’è stato l’assassinio, un anno e mezzo fa, di quella povera Marianna Biondini; e di questo conosciamo i colpevoli. E c’è qualcuno che da dieci giorni a questa parte sta eliminando proprio costoro. Tre sono già morti, è rimasto Labia.»
«Le mie visioni, che sembravano fuori luogo» si intromise Chiara, «ora trovano una spiegazione. La ragazza bionda, il mantello scarlatto, il gondoliere, che è forse quel Biagio che ha nascosto chissà dove il cadavere, e perfino la chiesa di San Zaccaria davanti alla quale è avvenuto il rapimento. C’è solo quella nave che viene da Oriente… forse è la nave che ha riportato a Venezia il “giustiziere”, se mi è permesso chiamarlo così.»
«Attenta, Chiara» la ammonì Marco, «si tratta pur sempre di un assassino. Non ci si deve fare giustizia da soli.»
Daniele era preso dai suoi pensieri. «D’accordo: il turco è stato scagionato. Forse non era così pulito come ci vuole far credere, forse ha incoraggiato le nostre vittime a sottrarre il materiale segreto, forse avrebbe potuto essere interessato al progetto della draga cavafango, ma di certo non ha mai avuto nulla in mano e non ha ucciso nessuno. Ma siamo sicuri» si chiese, «che l’assassino sia il vendicatore della Biondini? E in questo caso chi potrebbe essere?»
«Esaminiamo i fatti» li invitò Marco. «Cosa sappiamo di preciso di quest’ombra che uccide nel buio? Primo, è grande e grosso, lo ha visto la servetta dell’osteria di Biagio e l’ho visto io mentre fuggiva dalla locanda della Giudecca. Ah, un’altra cosa: zoppica leggermente, non so se è un incidente temporaneo o una menomazione permanente. Inoltre deve avere da qualche parte una ferita ancora visibile, perché il pugnale trovato vicino al corpo di Marino Barbaro dieci giorni fa era insanguinato e la cicatrice dell’assassino, per quanto lieve, non può essere del tutto rimarginata.»
«Secondo» prese la parola Daniele, «o è un veneziano o si trova a Venezia da almeno dieci giorni, ma direi da molto di più, perché ha avuto modo di studiare le abitudini delle vittime, gli orari, i percorsi. E dispone anche di denaro. Ricordate le monete che ha mostrato alla Domenici?»
«Terzo» aggiunse Chiara, «usa una corda particolare che viene dall’Oriente o dal Portogallo. Sembra la sua firma. Si tratta di una persona che ha contatti con l’estero.»
«Non è uno isolato» precisò Marco, «vive in mezzo alla gente, altrimenti non avrebbe potuto indagare sulle vittime. E un’altra cosa è certa: se uccide per vendicare quella povera ragazza, è qualcuno che le era caro, e tutti pensiamo alla stessa persona.»
«Giorgione, il fidanzato» concluse Daniele.
«Già» continuò Marco. «Giorgione sapeva chi erano i colpevoli, ha avuto il tempo necessario a preparare gli agguati perché è a Venezia almeno da cinque mesi, viene dall’Oriente e quindi può disporre di quel tipo di corda e ha un movente rilevante. Forse ha portato un gruzzolo da Costantinopoli e inoltre è grande e grosso. Non sappiamo nulla del suo carattere e nemmeno dove sia nascosto. Domani manderò Nani al Ghetto Nuovo a indagare con discrezione su dove si è imbucato.»
«E lo farai arrestare?» chiese Daniele.
Marco meditò un poco. «Non so. Se è innocente non vorrei tormentarlo inutilmente.»
«Ma se lui è innocente» intervenne Chiara, «allora chi è il colpevole?»
Li interruppe l’ingresso di Giuseppe che recava su un vassoio una caraffa di vino di Cipro. La conversazione riprese dopo che si fu allontanato.
Daniele pensava ad alta voce mentre prendeva appunti. «Se le morti dei nostri tre giovani sono legate a quella della Biondini, bisogna cercare nel giro del sestiere di Castello, fra le sue conoscenze, ma sono pochi i sospettabili, anzi nessuno oltre a Giorgione, perché il padre di Marianna si trova a Venezia da soli tre giorni e prima di tornare non sapeva nemmeno come fosse morta la figlia. Altri possibili colpevoli, non ne saprei indicare. Ma quei quattro non erano stinchi di santo, potrebbero avere offeso altra gente, aver combinato qualche altro guaio… Non dimentichiamo che prima della Biondini avevano violentato la cameriera, quella Lucietta.»
«Però» lo interruppe Marco versando il vino in calici di cristallo, «ho interrogato Baldo Vannucci, la spia degli Inquisitori, e non era al corrente di nient’altro di grave che quei quattro possano avere combinato. Ma, a pensarci bene, Vannucci non sapeva nemmeno dell’uccisione della Biondini.»
«Ma neanche la loro amica, Lucrezia Scalfi, sapeva nulla più di quello. E sì che in casa sua i quattro discutevano liberamente, e lei, come ha confessato, non si faceva scrupolo di spiarli di nascosto.»
Chiara stava pensando mentre sorseggiava il vino. «Allora proviamo a ragionare in questi termini: il primo movente che va considerato è la vendetta, ma se ci sbagliassimo e il movente fosse un altro, a chi conviene la morte di quei tre?»
Marco le scoccò un sorriso. «Brava Chiara» esclamò. «Abbiamo dimenticato la pista Corner. Biagio e Barbaro erano dei poveracci, non possono aver dato tanto fastidio a qualcuno da provocare una tale mattanza, né avevano soldi che potessero fare gola. Ma per Corner il discorso cambia. La sua morte rende ricco il fratello Dario.»
«E Dario è grande e grosso» lo interruppe Daniele. «Pare che sia molto forte.»
«Inoltre in questi giorni ha un ginocchio vistosamente fasciato e zoppica, come l’ombra che è fuggita dalla finestra dopo avere ucciso Biagio. Ma se è stato lui non sarà facile dimostrarlo» osservò Marco. «Bisognerebbe conoscere i suoi movimenti nei giorni scorsi. Tu, Daniele, potresti interrogare qualcuno dei servi in maniera informale, quel vecchio Matteo, per esempio, che ha motivi di rancore verso i padroni.»
Chiara, che aveva ascoltato in silenzio, ora parlò. «Non so, ho la sensazione che non abbiamo ancora imboccato la strada giusta. Io credo che Dario Corner non c’entri per nulla.»
«Non farti venire la tentazione di provocare di nuovo qualche visione» la ammonì Marco. E allo sguardo interrogativo di Daniele, aggiunse: «L’ultima volta è stata male. Non si penetra impunemente nel mondo delle energie sconosciute. Indagheremo noi con i mezzi a disposizione. Le visioni di Chiara sono state illuminanti, ma adesso basta».
«Allora come ci organizziamo?» chiese Zen sorseggiando a sua volta il vino.
«Tu domani mandi a chiamare Matteo per mezzo di uno dei tuoi segretari e lo fai nel modo più discreto possibile; quindi lo interroghi sui rapporti che intercorrono tra i Corner e sulle abitudini di Dario. Se riesci anche a sapere cosa faceva Dario le notti degli omicidi, tanto meglio. E ricorda a Matteo che non deve confidarsi nemmeno con l’aria. Se posso, parteciperò anch’io al colloquio. In mattinata manderò Nani al Ghetto a cercare Giorgione per sapere dove lo si può trovare quando decideremo di interrogarlo. Nani è sveglio e saprà scovarlo senza destare sospetti. Martedì ci recheremo a villa Labia, a Mira, in forma ufficiale, per arrestare Paolo Labia, ma dovrà confessare tutto prima di essere portato a Venezia, dove la sua famiglia potrebbe inquinare le prove.»
«E con gli Inquisitori, come la metti?» gli ricordò Zen.
«Quello è un tasto dolente. Penso che mi recherò da loro domattina a esporre lo stato delle indagini. Le accuse contro Labia sono inconfutabili, non possono opporsi all’arresto.»
La mattina di lunedì 18 dicembre il colloquio di Pisani con gli Inquisitori dovette essere ritardato perché Marco, al suo arrivo in ufficio, trovò un uomo ad attenderlo. Di primo acchito non lo riconobbe. Era grasso e piuttosto anziano, trascurato negli abiti, e si rigirava tra le mani quello che pareva un cencio di colore rosa.
«Eccellenza» esordì inchinandosi alla meglio, «sono Antonio Cotti, il padrone della locanda del Principe alla Giudecca.»
«Ah, il bordello» rammentò Marco.
«È un locale rispettabile» si risentì l’uomo.
«Va bene, va bene. Ma cosa la porta qui a Palazzo?»
«Sono un onesto cittadino che vuole aiutare la giustizia» esordì il vecchio sempre tormentando tra le mani il cencio rosa. «Ieri mattina, che era domenica, sono passato sotto la finestra della stanza dove è stato trovato morto il povero Biagio. Da venerdì notte, quando è successa la disgrazia, non mi era più capitato di fare il giro intorno alla casa perché pioveva a catinelle.»
«E allora?»
«Ecco, guardando in giro ho trovato questa fascia impigliata alla vite, sa, quella da cui si è calato l’assassino. Di sicuro è stato lui a perderla. Gli sbirri non devono averla vista perché era buio.» E porse a Pisani il cencio zuppo di pioggia.
Marco lo svolse e vide subito di che si trattava: era una di quelle fusciacche con cui i gondolieri usavano cingersi la vita. Ma questa aveva qualcosa di particolare: ricamate in un angolo, inconfondibili, apparivano alcune strisce oro e azzurro e due leoni rampanti circondati da uno scudo. Era lo stemma di casa Corner.
Gli Inquisitori lo aspettavano nella sala del Tintoretto insieme al capo della polizia, Messer Grando. Ammantato in toga e parrucca, Pisani entrò scusandosi del ritardo e attaccò il discorso spinoso che non poteva più rimandare.
Raccontò la storia di un quartetto di giovani dissipati, due di antica nobiltà, più un barnabotto e un gondoliere, che fino a un anno e mezzo prima avevano costituito una specie di associazione a delinquere solo per divertirsi. Gente simile, che si abbandonava al gioco e all’ubriachezza, infastidiva le donne, seduceva a forza le cameriere, non si tirava indietro nemmeno davanti a scherzi pesanti, furti e truffe, costituiva una vergogna per la Repubblica. Ma un giorno, continuò Marco, i quattro disgraziati avevano passato ogni misura e, rapita una ragazza, si erano ritrovati col suo cadavere fra le mani.
«Il cadavere è stato trovato?» chiese Condulmer.
«Non ancora, ma non dispero» proseguì Marco. «Però il delitto è ampiamente provato e domani, con una scorta di guardie» aggiunse rivolto a Messer Grando, «andrò a prelevare l’unico superstite della banda che sarà in grado di chiarire i punti oscuri.»
«E chi sarebbe?» si informò Bragadin.
«Paolo Labia, che si è rifugiato nella villa di Mira. Come sapete, Piero Corner, Marino Barbaro e il gondoliere Biagio Domenici sono stati uccisi.»
«Ma lei non stava indagando sulle loro morti misteriose?» lo interruppe Pietro Fontana, che al solito si era distratto.
«Come ho già spiegato» riprese pazientemente Pisani, «siamo davanti a un caso doppio. Le vittime e Labia si sono resi colpevoli di un ripugnante delitto. I primi tre sono morti, ma rimane Paolo Labia, che deve pagare.»
Gli Inquisitori alzarono gli occhi al cielo. «Proprio un Labia!» sospirò Condulmer. «Chissà quante grane pianterà la famiglia! Ma a Venezia ci vantiamo di non fare sconti a nessuno e se è gravemente indiziato deve andare sotto processo.»
«Per questo vado a Mira. Lo interrogherò là e lo porterò a Venezia in ceppi.»
«E gli altri tre chi li ha uccisi?»
«Di questo non ho ancora certezze» ammise Pisani. «Può essersi trattato di qualcuno che voleva vendicare la Biondini, ma tutto può anche avere origine da una storia di denaro.»
«Può spiegarsi meglio?» volle sapere Bragadin.
«Non voglio precipitare le cose, ma alcuni indizi avvalorano la mia prima ipotesi, altri mi portano alla famiglia Corner…»
Di nuovo gli Inquisitori sospirarono sgomenti con gli occhi al cielo. Marco li lasciò alle loro ambasce, senza raccontare del ritorno a Venezia del fidanzato di Marianna né della fusciacca con le insegne dei Corner trovata impigliata alla vite nel luogo da dove era fuggito l’assassino di Biagio. E tacque dei sospetti di spionaggio, visto che il mercante Derali era stato scagionato.
Era quasi mezzogiorno quando Marco uscì da Palazzo e trovò Nani che lo attendeva davanti al suo mezzanino alle Procuratie Vecchie. «Allora» lo interrogò con ansia, «hai trovato Giorgione?»
«Signorsì signor padrone» sorrise Nani. «Ho forse mai fallito?»
«Andiamo a mangiare qualcosa e mi racconterai tutto.»
L’avogadore e il suo gondoliere si sedettero tra la folla elegante del mezzogiorno a un tavolo del caffè Alle Piante d’Oro che si apriva sotto i portici, e ordinarono vino e stuzzichini. Nani era un gran bel giovane e, pur indossando gli abiti semplici del popolo, attirava l’attenzione di numerose dame.
«Non è stato difficile» esordì. «Questa mattina molto presto ho fatto il giro dei fornai del ghetto, che non sono molti, e mettendo la testa nei laboratori con qualche scusa ho adocchiato un solo garzone che non aveva le caratteristiche somatiche degli ebrei. Ho aspettato che finisse il lavoro e andasse a dormire e sono entrato nel negozio.»
«Fammi indovinare» lo interruppe Marco. «C’era una ragazza…»
«Sì paròn, come lo sa? Una certa Ester, una bella bruna con gli occhi di fuoco. Ho detto che cercavo lavoro. Lei mi ha risposto che erano al completo e che comunque al Ghetto lavoravano solo ebrei. “Ma no” ho obiettato, “ho visto prima un garzone cristiano.” Lei mi ha sorriso e mi ha raccontato che era un certo Giorgione, un caso speciale raccomandato da un amico del padrone, un bravo ragazzo che, era sua impressione, non voleva farsi vedere in giro. “E dove abita?” ho buttato lì come per caso. E lei mi ha detto che aveva una stanza all’ultimo piano sopra il forno, e che usciva di rado.»
«Non le hai chiesto per caso che orari facesse?»
«Certo che ho indagato. Ho immaginato di dovere riferire se poteva essere in giro le notti dei delitti.»
«Nani, sei un genio! Cosa ti ha risposto?»
«L’ho messa giù come se mi interessasse il lavoro. Ho chiesto: “Ma che orari si fanno qui?”. E lei: “Il lavoro è duro. Si comincia alle otto di sera e si va avanti fino alle sei della mattina, sette giorni su sette”. “E se uno qualche sera ha un impegno?” ho voluto sapere io. “Si trova un altro lavoro” ha replicato quella. “Qui il pane si fa tutti i giorni.” Me ne sono andato affermando che aveva ragione e che quel lavoro non faceva per me. Non credo che abbia sospettato nulla.»
Il vecchio Matteo era già seduto nell’ufficio di Zen quando arrivò Marco. Il vecchio aveva rispolverato il suo abito con le passamanerie dorate e indossava parrucca e calze di seta bianche. Appariva confuso e al vedere l’avogadore si turbò ancora di più.
«Perché sono qui?» balbettò. «Il segretario dell’avvocato Zen non ha voluto dirmi nulla. Non penserete che sia stato io a uccidere il mio padrone?»
Marco si trattenne a stento dal ridere nell’immaginare il vecchietto tremante nell’atto di strangolare giovanotti ben piantati come le vittime. Si sedette accanto a Matteo e gli posò una mano sulla spalla. «Ma no, cosa va a pensare? Vogliamo solo farle qualche domanda lontano dalle orecchie indiscrete di palazzo Corner. Lei sa molte cose, Matteo, cose che ci possono essere utili per capire quello che è successo.»
«Ma io non c’ero quando è morto il povero padrone» si dibatté il vecchio, lusingato però dal “lei” con cui lo interpellava l’avogadore. «C’era il suo gondoliere Beppino.» E si asciugò la fronte sudata con un fazzoletto immacolato.
«Lo sappiamo, ma ci interessa conoscere meglio i rapporti della famiglia e l’andirivieni della servitù. Per esempio» continuò Marco, «i gondolieri. Ne girano parecchi, mi risulta. Ce ne parli.»
«Oh sì» riprese Matteo un po’ rassicurato. «Di certo sapete tutto di Biagio Domenici, un cattivo soggetto che era il gondoliere del povero signor Piero fino a un anno fa. Da allora era andato a stare nella locanda di sua madre e l’altra notte è stato ucciso da quell’assassino che strangola la gente per Venezia, proprio come il signor Piero e l’altro amico, quel Marino Barbaro.» Si fermò sovrappensiero. «Ma lei, eccellenza, pensa che sia stato Biagio a uccidere gli altri due? E allora Biagio chi lo ha ucciso?»
«Andiamo con ordine» lo interruppe Daniele. «Continui a parlare dei gondolieri dei Corner.»
«Sì, dunque.» Il vecchietto per concentrarsi lasciò vagare lo sguardo sulle pareti dello studio di Zen rivestite di librerie stracolme di tomi di diritto. «Al suo posto un anno fa è venuto quel Beppino che accompagnava il signor Piero la notte del delitto. È un bravo ragazzo, ma dopo quello che è successo se ne vuole andare.»
«È l’unico gondoliere?»
«No, come potrebbe? I Corner sono sempre in giro e uno non basta. C’è anche il gondoliere del signor Dario, uno nuovo, un tale Marietto, che è con i Corner da poco più di un mese. Sembra un uomo per bene, ma si stanca subito e si lamenta quando deve lavorare molte ore. E il signor Dario è sempre fuori, specie la notte.»
«E prima di lui?»
«Vediamo: fino a settembre il signor Dario si faceva accompagnare da un vecchio servo di casa, che non ce la faceva più e si è messo a riposo. Dopo di lui è arrivato un tipo anziano ma robusto, che veniva da Costantinopoli. È durato solo qualche settimana perché pare abbia trovato un altro lavoro. Poi è stata la volta di Marietto.»
«E le signore?»
«Avevano un gondoliere tutto per loro finché la signora Eleonora non è rimasta incinta e ha cominciato a uscire poco. Era un uomo di quarant’anni, un certo Luigi detto Gigio, che aveva una bella voce e spesso si metteva vicino al fuoco in cucina a cantare accompagnandosi con la chitarra. Quando è stato licenziato pare si sia messo con una compagnia teatrale girovaga.»
«Curioso questo avvicendarsi di gondolieri» osservò Marco. «Ci risulta che il signor Dario abbia un gran brutto carattere…»
Matteo fece un largo sorriso; le chiacchiere erano il suo terreno prediletto. «Brutto sì, si può ben dire. Si infuria per niente, urla e diventa tutto rosso.»
«Urlava anche contro suo fratello?»
«Be’, è strano, ma facevano delle gran liti prima che il signor Piero si sposasse. Di solito era per motivi di soldi. Dario ne aveva pochi, pochi per un Corner naturalmente, e quelli che aveva li investiva nei modi più sbagliati. Allora il fratello lo rimproverava e lui gli rinfacciava di spenderli a sua volta al gioco e con le donne. Soprattutto non riusciva a sopportare i suoi tre amici perché diceva che approfittavano del denaro dei Corner.»
Marco rammentò la lite a cui aveva assistito il sarto di Francesca Corner. «E dopo il matrimonio?» volle approfondire.
«Dopo che Piero si è sposato con la signora Eleonora, le acque si sono calmate. Forse era la giovane signora che sapeva tenere a freno marito e cognato, anche perché il signor Dario…»
«Il signor Dario?» lo esortò Marco.
«Tra noi in cucina avevamo notato un certo mutamento; ha cominciato a vestirsi meglio, era più garbato… Insomma, siamo tutti convinti che sia innamorato perso della cognata.»
«Questa è proprio bella» esclamò Daniele dopo che Matteo fu uscito fra molti dignitosi saluti. «Il rude Dario Corner innamorato della bella cognata! Ora che lei è diventata vedova e lui ricco, nutre certo qualche speranza. Aveva il migliore dei moventi per uccidere il fratello: soldi e amore. Anche gli indizi non mancano. Ci sono le minacce, il fatto che, a detta di Matteo, esce spesso la sera e torna tardi, e la fusciacca trovata alla locanda del Principe che viene da casa Corner. Ma gli altri due, perché li avrebbe uccisi?»
«Questo è il punto. Perché affrontare un rischio simile? Forse perché se avesse ucciso solo il fratello la gente avrebbe pensato a lui? La morte degli altri doveva confondere le acque.»
«Oppure» continuò Daniele, «ha tolto di mezzo i due che avrebbero sospettato di lui e l’avrebbero ricattato.»
«E così Giorgione sarebbe scagionato. Ma è proprio lui quello che ha il movente più forte: vendicare Marianna. Però, stando a Nani, Giorgione non può uscire dal forno di notte. Ma chissà se quella Ester è bene informata.»
«Da questi dilemmi per ora non si esce» concluse Daniele. «Andiamo domani a catturare Paolo Labia e sapremo qualcosa di più.»