Capitolo 18
Il tempo era cambiato all’improvviso. L’alba di venerdì era sorta su una città avvolta dalla nebbia. Una nebbia tanto fitta che case, palazzi, ponti sembravano ombre indistinte, fantasmi che si levavano dalle fondamenta dei canali interni dei sestieri di Dorsoduro e Santa Croce, mentre Marco e Daniele li solcavano diretti alla locanda di Biagio Domenici.
«Passa dietro San Giacomo e attracca alle fondamenta del Megio.» Zen si sporse dal felze per avvertire il suo gondoliere Bastiano.
I due amici erano sull’imbarcazione dell’avvocato perché Nani aveva il delicato incarico di recapitare a Chiara, a metà mattina, un mazzo di fiori e una missiva in cui Pisani chiedeva notizie della sua salute. E al pomeriggio lo stesso Nani era impiegato nell’indagine sul nascondiglio di Paolo Labia.
«Raccontami di ieri» continuò l’avvocato. «Come va con Chiara? E quella cameriera dei Corner che era scomparsa, l’avete trovata?»
Marco ignorò la prima domanda e si diffuse a parlare di Lucietta, delle violenze che aveva subito quando lavorava dai Corner e delle prepotenze del marito che aveva fatto l’errore di sposare. «E considera» concluse, «che il suo bimbetto è il ritratto vivente della nonna Francesca Corner, è il figlio maschio che Piero non ha avuto, e che non saprà mai nulla del vero padre. Pensa che destino: il discendente di un Corner della Ca’ Granda faticherà nei campi come un povero contadino.»
«Due vittime predestinate, lui e la madre» concluse Zen. «Ma almeno sono vivi.»
«E noi siamo da capo a risolvere il mistero dei due delitti. Ed è bene che ci affrettiamo. La comitiva di quelle canaglie si sta squagliando: due sono morti, del terzo non c’è traccia. Ci rimane solo questo Biagio da interrogare per sapere in che cosa sono stati coinvolti. Non vorrei che l’assassino stesse dando la caccia a Biagio proprio come stiamo facendo noi.»
La locanda Domenici sulle fondamenta del Megio era un vasto locale con qualche pretesa di eleganza. Data l’ora mattutina, solo alcuni dei trenta tavoli erano occupati da quella strana fauna di albanesi dagli ampi calzoni arricciati, slavoni alti e muscolosi, commercianti mediorientali di pepe e zenzero, scuri di carnagione, turchi che a Venezia comperavano tela di Fiandra e lane inglesi: tutta gente che viveva e bazzicava nel vicino fondaco dove gravitavano gli affari. Il bancone di mescita metteva in mostra in pari misura caraffe di vino per gli avventori cristiani e bibite alla frutta per quelli musulmani. Una ragazza alta e di forme abbondanti correva dal focolare ai tavoli con piatti di pesce fritto, vivanda richiesta a Venezia a tutte le ore, e un uomo corpulento di mezza età, che la cameriera chiamava Lele, era intento a lavare bicchieri nel largo acquaio di pietra.
Fu a questi che si rivolse Daniele. «Sono l’avvocato Zen. Vorrei parlare con Biagio.»
«Biagio non c’è» annunciò l’uomo senza alzare gli occhi. «Ma perché lo cercate?»
«Fatti privati. Dove possiamo trovarlo?»
Lele si grattò la testa assumendo un’espressione perplessa. «A dire la verità ce lo chiediamo tutti dove è andato a finire… È da una settimana che non si fa vedere. Non che ci sia niente da rimpiangere. Di solito se ne sta qui a bere e ad attaccare briga con i clienti, oppure gioca a carte o tormenta le ragazze. Mai che dia una mano a servire quando c’è bisogno! Ma chiedetelo a sua madre dov’è, ammesso che lei lo sappia.» Poi, come preso da un pensiero improvviso, continuò stringendo gli occhietti: «Come mai lo cerca un avvocato? Non ci sarà un’altra eredità in giro? Già, le fortune toccano sempre a chi non se le merita».
«Dov’è sua madre?» insistette con pazienza Daniele.
«La signora Maria? Sarà ancora a letto a quest’ora. Vi faccio accompagnare. Pina!» si mise a urlare rivolto a una stanza sul retro da cui sbucò una ragazzina, quasi una bimba, con un grembiule macchiato e i capelli avvolti in un fazzoletto. «Pina, accompagna i signori dalla padrona, ma prima controlla che sia sveglia, altrimenti, se dorme ancora, poi chi la sente…»
«Se dorme, a svegliarla ci pensiamo noi» sbuffò Marco che di indugi ne aveva abbastanza.
I due lasciarono il gondoliere Bastiano a ristorarsi con un bicchiere di vino e seguirono la bambina per una scala ripida che dal locale portava all’alloggio posto al piano superiore.
La Pina bussò timidamente a una porta da cui proruppe come risposta una valanga di invettive. «Chi diavolo viene a seccarmi a quest’ora?» La voce era femminile, rauca. «Se sei tu, Pina, poi te la faccio vedere, maledizione, che ti possa rompere il muso giù per le scale una di queste mattine!» Solo un accesso di tosse interruppe le imprecazioni.
Marco spalancò la porta senza tanti complimenti e si inoltrò nella stanza buia. Si pentì immediatamente perché fu colpito da una zaffata di puzzo di sudore misto a effluvi alcolici, con un vago sottofondo di urina stantia. «Apri la finestra» ordinò alla servetta, che si affrettò a obbedire, soggiogata da un tono di voce più imperioso di quello della padrona.
«Chi siete voi?» strillò una forma indistinta sotto le coperte. «Come osate entrare così nella stanza di una signora? Faccio chiamare gli sbirri!»
«Sono l’avogadore Pisani» si presentò Marco. «E il signore che mi accompagna è l’avvocato Zen. Devo farle un discorso serio; veda di svegliarsi e non mi faccia perdere tempo.»
Al nome dell’avogadore emerse dalle coperte una cuffia dalla quale sfuggivano capelli radi e biondastri, poi apparve un volto pallido e segnato su cui spiccavano un naso adunco, due occhi indagatori pesantemente cerchiati e una bocca sottile. Un sorriso accattivante metteva in mostra una chiostra di denti guasti. «Mi scusi, eccellenza, non sapevo… mi trova così… mi lasci dieci minuti e sono a sua disposizione.»
«Temo che Biagio ci sia sfuggito» commentò Daniele mentre aspettavano sul pianerottolo.
«Almeno sentiremo sua madre» replicò Marco. «Ma che razza di megera!»
Maria Domenici li accolse avvolta in una pretenziosa vestaglia di velluto costellata di macchie; era seduta su una poltrona dorata. Aveva trovato il tempo di calzare una parrucca bionda che doveva aver conosciuto tempi migliori e di imbellettarsi il viso: i pomelli rossi contrastavano col pallore della pelle. La donna si era incollata un neo sopra il labbro superiore ed esibiva sulla mano destra due grossi anelli. Su un tavolino erano posati tre bicchieri e una bottiglia di vino rosso.
La stanza era ampia, con ambizioni di ricercatezza ma in disordine. Il letto ancora sfatto, una pila di abiti su una sedia, il tavolo sotto la finestra con i resti di un pranzo e alcune bottiglie vuote suscitarono nei visitatori un moto di disgusto.
La donna indicò con un ampio gesto il divano vicino. «Se i signori vogliono accomodarsi… Posso servire un poco di questo ottimo Borgogna?» E al cenno di diniego dei due amici riempì il proprio bicchiere portandolo subito alle labbra.
«Signora Domenici» esordì Pisani, «siamo qui per incontrare suo figlio Biagio.»
«Oh, il mio caro Biagio» cinguettò la donna sorridendo con affettazione. «Mi dispiace, ma non c’è in questo momento. È partito, è via per affari. C’è sempre tanto da fare qui, e lui tratta con i fornitori, intrattiene i clienti, sa, ha la responsabilità del locale che, non faccio per dire, come loro avranno visto, è un locale di classe.»
«Abbiamo visto… Ma lei saprà dove lo possiamo trovare.»
«Sono desolata, ma non ne ho la minima idea. Lui va e viene, a me non dice nulla. Non posso aiutarla, eccellenza.» La donna parlava in maniera artificiosa ma il suo sguardo non abbandonava mai gli interlocutori.
Marco a questo punto esaurì la pazienza. «Signora, lei ha capito bene chi sono io? Ha capito che posso far cercare suo figlio dagli sbirri per tutta Venezia e farmelo portare nella stanza degli interrogatori di Palazzo Ducale? E sappia che sono qui non per essere aiutato, ma per salvare lui da un grave pericolo che lo minaccia.»
«Mio figlio, gli sbirri? Ma perché? È il ragazzo più buono del mondo. Non ha fatto nulla di male. Pensi che vive ancora con sua madre. È il figlio migliore che potessi desiderare.» E così dicendo pizzicò una presa di tabacco da una tabacchiera e lo inalò con gusto.
Bel modo di fare colazione, considerò Pisani tra sé. «Lei a tacere si sta prendendo una grave responsabilità, signora» continuò. «Potrebbe pentirsi amaramente. Ma dica un po’, questo “locale di classe”, come lo ha messo insieme?»
«Onestamente, cosa crede?» si risentì la donna alzando il capo in un moto di orgoglio. «Mio figlio, come le ho detto, è un bravo ragazzo, uno che si fa volere bene. Ha fatto per diversi anni il segretario di un gran signore, che lo ha ricompensato donandogli il locale.»
«Faceva il gondoliere di Piero Corner, a quanto mi risulta, non il segretario.»
«Gondoliere, segretario, che differenza fa? Era l’uomo di fiducia, stava sempre con lui.»
«Lei sa che fine ha fatto Corner? E quell’altro, quel Barbaro da cui suo figlio ha lavorato anni fa?»
«Sono morti, poveretti, una fine orrenda. Ma questo che c’entra?» La donna rintracciò nella tasca un fazzoletto e fece mostra di asciugarsi una lacrima. Però sembrava meno sicura, la mano tremava leggermente.
Pisani si chinò in avanti guardandola negli occhi. «La fuga di suo figlio mi fa pensare che la sappia lunga sulla fine di quei due. Magari è stato lui.»
«Ma cosa le viene in mente?» La vecchia contrasse la bocca in un’espressione d’ira e il neo sul labbro si staccò e finì a terra. «Mio figlio uccidere gli amici! Siamo gente per bene, cosa crede? E poi non avrebbe nemmeno potuto.» Si ricompose. «Le notti dei delitti, entrambe le notti, Biagio è restato qui a giocare a carte. L’hanno visto decine di persone.»
«E allora, se è innocente, anche lui si trova in pericolo, e lo sa così bene che si è nascosto. Ci dica dov’è e gli farà un grande favore.»
La Domenici distolse lo sguardo, esitò un lungo momento, si capiva che lottava con se stessa. Giocherellò assorta con la tabacchiera. «Non lo so, davvero» sospirò infine abbassando gli occhi. L’attimo di incertezza era passato. «Si figuri se non farei di tutto per il bene di mio figlio.»
«È il suo unico figlio?» si intromise Daniele per cambiare discorso. «E suo padre dov’è?»
Fu come spalancare la diga di un torrente. «Ho solo lui» declamò la donna col tono di chi ha ripetuto molte volte le stesse parole. «Ed è figlio di un gran signore, un aristocratico, uno di Verona, cosa credete? Io ero giovane, e molto carina» sottolineò con un sorriso civettuolo. «Lui veniva spesso a Venezia per affari, giurava di amarmi e aveva promesso di sposarmi, un gran matrimonio. Non avevo ancora conosciuto i suoi, però sapevo che stavano preparando una cerimonia coi fiocchi. Gli avevo scritto da appena un mese la notizia che stava per diventare padre, quando una mattina, lo ricorderò fin che campo, venne a trovarmi un suo amico, un amico di Verona, con il terribile annuncio che lui era morto all’improvviso di una malattia fulminante. Mi raccontò che era spirato col mio nome sulle labbra. Mi portò anche un po’ di denaro. Ma io mi trovai sola e in attesa di un figlio.»
Marco e Daniele si scambiarono una rapida occhiata. La donna si asciugò una lacrima, si soffiò il naso e continuò.
«Tutti mi consigliavano di andare da una di quelle… quelle mammane che mi avrebbe liberato, ma io avevo troppa paura e mi tenni il mio Biagio. Sono stata una brava madre, cosa credete? Ho lavorato per tirarlo su, ho fatto anche lavori umili.»
«Lei aveva una furàtola…» la interruppe Daniele.
«Sì, ma rendeva appena il necessario per me, e Biagio era ancora un ragazzo quando si è dovuto impiegare da quel Barbaro che lo pagava così poco. Però era un patrizio, io ero contenta perché avrebbe imparato i modi dei signori. In fondo anche lui era figlio di un nobile. In seguito ha avuto la fortuna di passare dai Corner e le cose sono andate meglio.» La Domenici bevve un’altra lunga sorsata di vino.
«Come mai Corner vi ha regalato questo locale che ha un certo valore e comprende anche l’appartamento, a quanto vedo?»
«Gliel’ho detto, eccellenza, Biagio si fa volere bene e il padrone ha voluto ricompensarlo.»
«Ma l’ha licenziato…» insistette Pisani.
«No, chi ve l’ha detto? Ha lasciato che si godesse in pace i frutti del suo lavoro.»
«E ammettendo che suo figlio sia partito per affari, lei saprà almeno quando torna» ribatté Marco prima di arrendersi.
La vecchia scosse il capo. «Non lo so. Mi ha detto soltanto che doveva partire.»
Da quella donna non era possibile cavare altro. Apparteneva al genere di persone che con le autorità non aprono bocca a nessun costo, per l’atavica diffidenza dei poveri verso chi detiene il potere. I due uomini si alzarono e con un sospiro di sollievo scesero nella locanda e si diressero verso il banco di mescita.
Lele venne verso di loro asciugandosi le mani nel grembiule. «Posso offrire un bicchiere di vino a nome della casa?» chiese osservando incuriosito i signori che avevano fatto visita alla padrona.
«Il vino no» replicò Daniele. «Ma c’è qualche informazione di cui l’avogadore ha bisogno.» E si voltò accennando a Marco.
«Tu prima hai raccontato» lo apostrofò Pisani, «che Biagio è solito giocare a carte e attaccare briga coi clienti. Stai bene attento a rispondermi con precisione: chi sono quelli con cui Biagio si intrattiene più spesso?»
L’oste aggrottò la fronte, trasse di tasca un fazzolettone con cui si asciugò il sudore intorno al collo e si schiarì la voce. «Ecco» esordì. «Molto spesso veniva a trovarlo quel poveraccio che è stato ucciso, quel barnabotto…»
«Marino Barbaro.»
«Lui. Giocavano a carte, bevevano, ma credo che Barbaro venisse soprattutto per scroccare qualche pasto. Infatti la signora quando lo vedeva se la prendeva con noi perché lo servivamo, ma noi non facevamo che obbedire a suo figlio.»
Marco rimase un poco a pensare. «Hanno mai litigato?» chiese infine.
«Ora che me lo ricorda lei» ammise Lele spalancando gli occhietti, «mi viene in mente che qualche volta discutevano. Circa un mese fa hanno fatto una gran lite… Per fortuna nel locale non c’era nessuno e la signora dormiva.»
«E cosa dicevano?»
Lele si schermì. «Non sono stato ad ascoltare, dato che ero intento a travasare il vino dalle botti, ma parlavano di soldi. Biagio diceva che erano troppo pochi, che poteva chiedere molto di più.»
«E Barbaro?»
«Quell’altro aveva in mano un fascio di fogli e li sbatteva sul tavolo. “Non so nemmeno cosa sono” ribatteva. “A chiedere troppo va a finire che non ottengo nulla!”»
Marco e Daniele si rivolsero un’occhiata di intesa. Erano i progetti che Barbaro aveva trafugato dall’Arsenale? C’era dentro anche Biagio nell’impresa? E chi era interessato ai progetti? Forse una spia turca come ipotizzava il patrono Cappello?
«E tra i clienti» continuò Daniele, «con chi si trova più spesso a parlare il tuo padrone?»
L’oste volse un’occhiata circolare al locale come a visualizzare la scena. «C’era un albanese con cui giocava a carte, poi beveva spesso insieme a un paio di commercianti austriaci…»
«E tra i turchi?»
«Sì, c’era un turco con cui si intratteneva di frequente, ma non lo si vede da qualche mese. Sarà tornato a casa.»
Daniele si protese sul banco. «Un turco? Di cosa parlavano? E c’era anche Barbaro?» lo incalzò.
Lele scosse la testa. «Di cosa parlassero non lo so proprio. Si mettevano a un tavolo d’angolo, c’era spesso anche Barbaro, e parlavano a bassa voce. Ma come ho detto è un po’ di tempo che quel turco, uno ricco, ben vestito, non lo si vede.»
«Il nome!» si intromise Marco.
«E chi si ricorda?» si rammaricò Lele. «No! Un momento… si chiamava… Ibrahim, Ibrahim Derali. Lo so perché una volta è venuto a cercarlo un suo connazionale e aveva il nome scritto su un biglietto.»
«Stai bene attento!» concluse Pisani in tono ammonitore. «Se questo Ibrahim si ripresenta, tu manda qualcuno di volata ad avvertirmi a Palazzo, e cerca di trattenerlo, tarda a servirlo, fai qualcosa finché non sono arrivato. Ma bada che non si insospettisca!»
Mentre se ne andavano lasciandosi alle spalle l’oste stupefatto, Marco sentì una manina leggera che gli si posava sul braccio. Si voltò. Era la servetta. «Lei, la signora, lo sa dov’è andato suo figlio…» mormorò la piccola a bassa voce.
«Hai origliato?»
«Io… sì, cioè no, mi è capitato di sentire. Nella porta c’è una fessura da cui si sente tutto.»
«E sai anche tu dove si trova Biagio?»
«Questo no, però qualche sera fa ho accompagnato dalla signora un uomo, ho sentito che parlavano del padrone e lei diceva: “Se le cose stanno così rivelerò solo a lei dove trovarlo”. Ma non ditele niente, mi raccomando, se no quella mi ammazza di botte.»
«Che tipo era quest’uomo? Come è riuscito a farla parlare? E dove ha detto che si trova Biagio?» chiese Pisani concitatamente.
La ragazzina aggrottò la fronte per concentrarsi. «Era un tipo alto e robusto, con un vecchio mantello» ricordò. «Ho sentito che parlando con la signora agitava una borsa di monete che tintinnavano. Purtroppo a quel punto ho avvertito un passo per le scale e ho dovuto rifugiarmi in soffitta. Del resto non erano affari miei.»
«E adesso cosa facciamo?» Daniele ruppe il silenzio una volta che furono usciti sulle fondamenta del Megio. «Torniamo dentro e facciamo parlare la vecchia con le buone o con le cattive?»
«No» considerò Marco. «Metteremmo nei pasticci quella bambina, e la Domenici, scaltra com’è, ci manderebbe a cercare suo figlio a un indirizzo fasullo e intanto lo farebbe avvertire di cambiare rifugio. Non è nemmeno il caso di far rovistare dalla polizia tutte le locande di Venezia: sono un centinaio, senza contare le camere d’affitto. Gli sbirri impiegherebbero settimane. Ammesso poi che Biagio sia rimasto a Venezia. Ho un’altra idea per scoprire dove si trova.»
Si diressero in gondola a Palazzo Ducale. Il sole tentava invano di disperdere la nebbia ma riusciva solo a creare un alone giallastro intorno agli edifici, e il gondoliere Bastiano, lungo il Canal Grande, aveva il suo da fare a evitare gli altri natanti che sembravano sbucare dal nulla.
Daniele ruppe il silenzio. «Questa visita non è stata inutile…»
«Non lo sono mai. Ora abbiamo la certezza che a uccidere i due non è stato Biagio. A dire il vero non abbiamo mai sospettato di lui. È strano però: sua madre gli ha fornito un alibi prima ancora che glielo chiedessimo. Un alibi di ferro: secondo lei, le notti dei delitti lo hanno visto decine di persone. Si può verificare. E poi perché Biagio avrebbe dovuto uccidere Corner, la sua gallina dalle uova d’oro?»
«Almeno» replicò Daniele, «abbiamo inquadrato meglio quella combriccola di mascalzoni. C’era Barbaro, il gentiluomo impoverito, disposto a ogni bassezza, anche allo spionaggio, per frequentare il bel mondo e farsi finanziare i suoi vizi. Il capo era Corner, abituato a ottenere tutto grazie all’educazione di sua madre, convinto di essere superiore ai comuni mortali e abbastanza pieno di soldi per soddisfare ogni desiderio e procurarsi favoreggiatori.»
«E infine questo Biagio.» Pisani si avvolse meglio nel mantello. «Non deve avere avuto vita facile, nato da un padre che si è eclissato al primo annuncio del suo arrivo e allevato da una madre ubriacona e con smanie di nobiltà. Quella donna, lo hai sentito anche tu, non solo crede alle sue favole, ma ha la pretesa che ci credano anche gli altri. Suo figlio deve essere cresciuto con il concetto che verità, onestà e rettitudine sono principi molto elastici. Il servo ideale per padroni scapestrati. E quel turco misterioso di cui ha parlato l’oste? Può essere lui quello che passava sotto la casa di Barbaro? Era il destinatario del materiale segreto dell’Arsenale? È lui la chiave di tutto? E Barbaro e Biagio hanno litigato tra loro sul prezzo da chiedergli.»
«E poi c’è l’altro, Paolo Labia. Anche lui come Biagio non si sa dove sia finito» considerò Daniele. «Sembra che siano entrambi atterriti dalla possibile vendetta di qualcuno. Temono che sia Ibrahim a cercarli?»
A Marco venne in mente la visione di Chiara, la ragazza bionda insanguinata avvolta nel mantello di scarlatto, i gemiti, il gondoliere che poteva essere Biagio. Che fosse quella la strada giusta? Ma per il momento era meglio tacere. «Questa mattina, prima di uscire» preferì rispondere, «ho incaricato Nani di intrufolarsi nei locali della servitù di casa Labia; vedrai che non torna a mani vuote. Magari a quest’ora starà corteggiando qualche cameriera carina per farsi dire dove si nasconde il padrone» concluse ridendo.