Capitolo 11

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Il patrono Cappello aspettava Marco nel suo ufficio all’Arsenale. Nel vederlo entrare si alzò e gli si fece incontro. I due amici si abbracciarono.

«Lo sai che mi hai dato una bella serie di indovinelli da risolvere?» esordì Alvise. Gli occhi piccoli e penetranti sorridevano divertiti sopra il lungo naso. Sul tavolo erano squadernati i documenti che Pisani aveva trovato nella casa di Barbaro.

«Quel che è peggio» gli fece eco Marco liberandosi del mantello e avvicinandosi alla scrivania, «è che ora i cadaveri sono due. Saprai che Piero Corner è stato ucciso con una corda dello stesso tipo di quella che è servita a strangolare Barbaro.»

«Ho sentito di Corner, naturalmente, ma non sapevo della corda.»

«L’altro giorno, mentre ero da te, ho mandato Nani, il mio gondoliere, alle Corderie. Sembra che sia una corda portoghese, oppure turca.»

«Chi l’ha identificata?» si incuriosì Alvise.

«Un certo Levantino, uno che ha lavorato in Oriente…»

«Ah, già, Menico. Gran brava persona. Poveretto, da quando non c’è più la figlia spesso si ferma a dormire all’Arsenale per non tornare nella casa vuota. Mah! Però è attendibilissimo. Ma dimmi» continuò riprendendo l’argomento, «ciò significa che, se è una storia di spionaggio, era implicato anche Corner? Ma lui non aveva bisogno di soldi.»

«E chi lo sa!» sospirò Marco. «Ma vediamo ciò che hai scoperto. Questi che cosa sono?» chiese indicando i disegni.

«Per la maggior parte niente di importante» spiegò Alvise inforcando gli occhiali. «L’ancora, le vele e gli affusti di cannone sono modelli conosciuti in tutto il Mediterraneo, e lo spaccato della galera risale a un secolo fa. Se il tuo Barbaro pensava di vendere questa roba a qualche stato straniero sarebbe rimasto deluso. Chiunque appena pratico di navigazione si sarebbe accorto che era una truffa. Io credo che li abbia sottratti alla Scuola Nautica, dove usano disegni di questo tipo per fare lezione.»

«Pensa un po’. Voleva fare il furbo con le spie straniere. E il disegno dei forni?»

«Stesso discorso. Sono i vecchi forni di fusione che stanno per essere smantellati perché superati. Qui invece…» e indicò lo schizzo della draga cavafango facendosi serio, «…le cose cambiano. Mi sono informato con discrezione e, come ho subito sospettato, è la copia di un progetto segreto che i nostri architetti stanno sviluppando da un antico disegno di Leonardo. Come avrai notato, il natante ha due scafi, che lo rendono più stabile, e le ruote dentate agganciano il cavo di ormeggio grazie al quale si può fare avanzare la macchina stando sulla riva. E non è tutto: le casse in cima alle pale rotanti scaricano i detriti qui, in questa piccola zattera, e non è necessario pulirle di continuo.»

Marco rimase pensoso. «Un progetto geniale» osservò, «che farebbe comodo a molti stati stranieri per tenere sgombri i porti, specie sui nostri mari dove tendono a interrarsi. Ma come può essere finito nelle mani di Barbaro?»

«Di sicuro da qualche ufficio all’interno dell’Arsenale.»

«Vuoi dire che Barbaro si è intrufolato qui dentro?»

Cappello si mise a ridere. «Non necessariamente. Qui all’Arsenale gira un bel po’ di gente, fornitori con i loro aiutanti, marinai che alloggiano nei dormitori sulla laguna, mogli degli arsenalotti che abitano sul rio Tana. Qualcuno avrà trovato questi disegni, un po’ li ha sottratti, alcuni li ha copiati in fretta e furia. Poi avrà pensato di fare un po’ di soldi vendendoli a qualche gonzo, cioè nel nostro caso a Barbaro. E forse non si è nemmeno accorto che fra il ciarpame c’era anche un progetto importante

«Oppure è stato Barbaro stesso a introdursi di nascosto, e ha preso quello che gli è capitato sotto mano…»

Alvise assentì. «È possibile; come ti dicevo, i nostri arsenalotti sorvegliano, ma le vie d’accesso sono tante e, specie la notte, il buio aiuta i malintenzionati.»

«Quindi» continuò Marco, «non sapremo mai come ha fatto Barbaro a impossessarsi di questi documenti, e forse non capiremo nemmeno se si è accorto dell’importanza del progetto della draga… Spero almeno di riuscire a scoprire se era entrato in contatto con qualche spia straniera e se costui aveva già visionato il materiale. Forse l’assassino è stato proprio un emissario dei turchi o dei portoghesi, che, a un certo punto, per qualche motivo, ha temuto una denuncia anonima. Immagina, per esempio, che non si fossero accordati sul prezzo.»

«Mah, tutto è possibile…» Cappello si avvicinò alla finestra e contemplò la Darsena Vecchia fiancheggiata dai cantieri coperti e, più oltre, il ponte apribile che immetteva nella Darsena delle Galeazze. C’era poco movimento in giro, i cantieri erano quasi deserti. «Io escluderei i portoghesi. Lo sai anche tu» continuò. «Da qualche decennio le cose sono cambiate. Non siamo più la potenza di una volta. Adesso il traffico marittimo importante si svolge sulle rotte occidentali e sull’Atlantico, fino al mare del Nord. Di conseguenza anche le innovazioni nautiche vengono da Olanda, Germania, Inghilterra e Portogallo. Di interessati alle innovazioni navali qui da noi girano solo i turchi.»

«Sempre turchi che girano in questa storia…» osservò Marco.

«So cosa pensi: non è facile interrogarli. La Turchia non ha una rappresentanza diplomatica a Venezia, ma il mercante Matteo Vitali ha l’incarico ufficiale di curarne gli interessi e l’accesso al suo fondaco è protetto dal diritto di extraterritorialità.»

Marco, immerso nei suoi pensieri, si avvicinò ad Alvise contemplando anche lui dalla finestra i bacini dell’Arsenale. «Forse c’è un mezzo per sapere con chi aveva a che fare Barbaro» mormorò infine quasi parlando fra sé. «Se frequentava l’osteria dell’amico Biagio, quello è un posto dove si trovano molti turchi e lì può avere conosciuto il suo uomo. E qualcuno deve averlo visto… Se solo sapessi dov’è Biagio!» concluse. «E quell’elenco di nomi di navi?» si rammentò a un tratto rivolgendosi a Cappello.

Si avvicinarono di nuovo alla scrivania chinandosi sulle carte e il patrono aprì il foglio in questione. «Un altro imbroglio» esordì. «Come avrai capito da solo, si tratta di un elenco di mude, cioè di date di partenze e arrivi di convogli commerciali o di passeggeri. Ma se c’è la data di arrivo significa che i viaggi sono già stati effettuati. Così ho fatto qualche ricerca ed è emerso che le date si riferiscono all’anno scorso, il documento è perfettamente inutile, l’ennesima beffa.»

«Quindi Barbaro era un imbroglione poco furbo. Da ciò che mi dici presumo che non sapesse giudicare l’importanza del materiale. Pare che gli riuscisse soprattutto di spillare denaro al suo amico Corner. Ma Corner cosa c’entrava con lo spionaggio? Perché è stato ucciso anche lui? Questi Corner si sa che sono straricchi, ma pare che i due fratelli abbiano scialacquato denaro a destra e a manca.»

Il patrono rimase un attimo in silenzio a riflettere. «Adesso che mi ci fai pensare» esclamò poi, «lo sai che il più giovane, Dario, l’anno scorso si è mezzo rovinato? È una storia che tutti noi dirigenti dell’Arsenale conosciamo bene, ma fuori non se ne è parlato per rispetto al casato.»

«Senti senti… che storia sarebbe?» Attratto dalla notizia, Marco si accomodò su una sedia davanti alla scrivania e si dispose ad ascoltare.

Cappello versò due bicchieri di vino di Cipro e lo imitò. «Questo Dario» continuò sorseggiando il vino mentre gli occhi gli ridevano, «si è messo in mente di moltiplicare il suo capitale come i patrizi di una volta che praticavano il commercio marittimo.»

«Qualcosa ho saputo, ma di preciso cosa ha combinato?»

«Poco più di un anno fa ha comperato una forte quota di una nave che partiva per Costantinopoli carica di merci di pregio, tutti damaschi d’oro e seta, sai che là vanno in visibilio per i tessuti veneziani. Solo che non aveva ducati sufficienti da destinare all’impresa e ha rinunciato a stipulare l’assicurazione contando sul bel tempo. Ma la sfortuna si è accanita: in mezzo all’Adriatico la nave è stata colta da una tempesta fuori stagione e, carica com’era, è affondata. L’equipaggio si è messo in salvo sulle scialuppe, ma il carico è finito in fondo al mare, e Dario Corner ha perso fino all’ultimo soldo; per quanto riguarda il suo patrimonio personale, è praticamente rovinato.»

«Lo credo che non se ne parli in giro. I Corner avranno provveduto a mettere tutto a tacere per il buon nome della famiglia» obiettò Marco. «Per sua fortuna adesso eredita… Già, eredita giusto a proposito.»

«Che vuoi dire?»

Marco esitò un attimo, pensieroso. Poi si riscosse e vuotò il suo bicchiere. «No, nulla, l’ho visto questa mattina, quando ho fatto visita alla salma. Sembrava affranto.»

 

Quando Pisani attraversò il bacino di San Marco diretto a casa, il sole invernale stava tramontando. Il cielo dietro la basilica, come capitava spesso nei giorni sereni, appariva pennellato di rosa mentre l’ultima luce dorata bagnava le cupole e i campanili.

Che città meravigliosa!, considerava. Aveva fatto calare il felze per godersi il panorama. Ma avvertiva che stava ammirando una città al crepuscolo, di una bellezza che stringeva il cuore. I palazzi antichi, dai merletti di marmo e dagli intonaci scrostati, le fondamenta che sprofondavano e gli atri invasi dall’acqua… quanto ancora avrebbero potuto resistere? All’interno degli appartamenti Marco sapeva che le tende cadevano a pezzi, le tappezzerie si scolorivano inesorabilmente, i quadri antichi prendevano la via dell’Inghilterra. E le chiese? Tesori d’arte e abbandono, ori e sporcizia. Di notte per le calli scorrazzavano le pantegane, loro sì che a Venezia si trovavano bene.

Aveva ragione Alvise, meditava Marco. Sembravano mille anni da quando erano una grande potenza e invece era passato solo un secolo. Mentre l’Austria dominava l’Adriatico, le nuove vie del commercio verso Inghilterra, Olanda, Germania obbligavano le navi veneziane a viaggi lunghi e pericolosi. I traffici andavano in malora e l’industria languiva. Solo nel vetro e nella seta i veneziani erano imbattibili, ma per quanto?

C’erano ancora famiglie ricche come la sua, ma solo quelle che possedevano terreni e ville in campagna. La città aveva perso la spinta vitale. Quanti giovani erano buoni a nulla come i fratelli Corner? Quanti nobili decaduti vivevano di espedienti come Barbaro?

Ma ciò che Marco disapprovava di più era la moda dei casini privati, quei localini in affitto dove giovani e meno giovani si ritrovavano a giocare, ballare, amoreggiare… In città erano quasi centoventi! Ricevendo in questi appartamentini, molti nobili si illudevano che la gente non si accorgesse della loro povertà. E si coprivano di trine e sete, spendendo gli ultimi avanzi dei loro patrimoni, per nascondere la miseria incombente. Festaioli che chiudevano gli occhi davanti allo sfascio.

I governanti poi non erano in grado di elaborare piani di ripresa economica e di rilancio internazionale. A prendere in esame le alte cariche dello stato, continuava a riflettere Pisani, c’era poco da stare allegri: dei trecento patrizi che sedevano in Senato, appena una ventina era in grado di capire di cosa si parlava durante le sedute. Spesso era un supplizio dovervi assistere.

Eppure c’era ancora una parte sana, meditava Marco: gli artigiani, gli operai, i piccoli commercianti. Loro campavano sul gusto del lusso dei patrizi e soprattutto tiravano avanti grazie agli stranieri che le feste richiamavano tutto l’anno. E le forze migliori erano nelle città di provincia: commercianti, professionisti, intendenti delle proprietà agricole.

Ma ora bando alle malinconie, Chiara lo aspettava, concluse con un sorriso.

 

All’avogadore Pisani al Leon Bianco avevano destinato una saletta appartata rivestita di seta avorio. Grandi specchiere moltiplicavano le luci del lampadario. Chiara sedendo si tolse il mantello e gli sorrise, un sorriso birichino che partiva dagli occhi. Davanti a lei Marco era imbarazzato come al solito. Sorrise a sua volta, uno dei suoi irresistibili, esitanti sorrisi obliqui. Chiara aprì il magnifico ventaglio blu che aveva ricevuto nel pomeriggio.

«Io, ehm, spero che ti sia piaciuto…»

«Non ne ho mai avuto uno così bello.»

Arrivò in quel momento il cameriere a toglierli dall’imbarazzo, prendendo le ordinazioni e riempiendo le coppe di bianco frizzante. Brindarono, si sorrisero ancora.

Chiara indossava una collana di preziose acque marine brillanti come i suoi occhi, i capelli biondi rialzati sulla testa splendevano come oro. A Marco batteva forte il cuore, doveva dire qualcosa ma lo immobilizzava il terrore di sbagliare. La giovane aspettava palpitante, timorosa anche lei di ciò che lui le avrebbe detto.

«Chiara» si decise infine a mormorare Marco, «non so come cominciare. Io non sono abituato a fare la corte alle ragazze, non frequento i salotti, non mi reco a rendere omaggio alle signore, vado poco anche a teatro e ai ricevimenti. Sono un orso, totalmente fuori moda. Volevo solo dirti che spero che la mia compagnia non ti annoi.»

«Non mi aspetto che il più stimato dei tre avogadori di Venezia sia uno di quei damerini che passano la giornata facendo la corte alle signore» sorrise Chiara. «Del resto sono una donna che lavora, una borghese, credo che i cicisbei non cercherebbero mai la mia compagnia.»

«Non sono molto sicuro di questo» osservò Marco contemplandola. Era incantevole.

Li interruppe il cameriere, che recava su un vassoio un risotto fumante. Per il momento l’incanto si era rotto.

«Come vanno le indagini?» chiese Chiara appena l’uomo si fu ritirato.

Marco raccontò per sommi capi la vicenda che andava dipanandosi, intuiva di potersi fidare della sua discrezione. Aveva già informato Chiara della morte di Corner il giorno prima, ora rievocò la visita alla vedova, la scoperta di una pista di spionaggio, la vita scapestrata dei quattro uomini, la scomparsa della Lucietta.

«Ma come hai fatto in poco tempo a scoprire tante cose?» si incuriosì lei.

«Certo non per mezzo degli sbirri. Non ho ancora messo al corrente nemmeno il loro capo, Messer Grando, e neanche il Consiglio dei Dieci e gli Inquisitori, se è per questo. Ma adesso che è morto Corner, appartenente a una così illustre famiglia, si aspettano di sicuro di essere informati ufficialmente. Però devi sapere che io ho i miei metodi di indagine: vado di persona e a sorpresa a sentire i testimoni, e quando c’è da interrogare la servitù, che davanti a me terrebbe la bocca chiusa, mando il mio gondoliere.»

«Quel bel ragazzo dagli occhi verdi che ci ha condotti qui e che non mi ha tolto gli occhi di dosso per tutto il tragitto?»

«Nani, proprio lui. È curioso come una serpe, e non è abituato a vedermi con belle signore.»

Arrivò un magnifico arrosto d’anitra e mentre il cameriere lo serviva si fece silenzio.

«Ma tu passi le giornate come un monaco?» riprese Chiara quando rimasero di nuovo soli.

«Quasi» assentì Marco, e si sorprese a descrivere alla ragazza la sua vita solitaria dedicata al lavoro, l’amore per la sobrietà, i suoi ideali, l’illusione che il proprio impegno per la giustizia rappresentasse almeno un tassello nell’ordine universale.

«Anch’io sono sola» mormorò lei, «e anch’io mi dedico al lavoro. Di mia madre non ricordo nulla, come sai è mancata che ero piccola. Mio padre è stato meraviglioso, ma da cinque anni anche lui non c’è più.»

Marco, in una lieve carezza, appoggiò sulla manina della giovane la sua mano. Chiara con un gesto inaspettato la prese e la voltò. Si mise a scrutare con attenzione i solchi del palmo.

«Sei un uomo molto sensibile» affermò con serietà. «Vedi il monte di Venere?» e indicò la protuberanza alla base del pollice. «Capace di grande amore, anche. E sei forte e coraggioso» seguitò indicando il rilievo sotto il mignolo. «Ma… cosa ti è capitato?» E qui si fermò interdetta, lo guardò incerta.

Il sorriso triste di Marco e i suoi occhi fermi la spinsero a proseguire.

«Tu hai amato molto una donna, e lei non c’è più.»

Marco sussultò, una smorfia dolorosa si disegnò sul viso. «Continua…»

«Se ne è andata in cielo, tanti anni fa.» Allargò meglio il palmo della mano e lo scrutò con più attenzione. La voce si fece un filo. «Ora è nella luce… insieme a un bambino. Ti proteggono…» All’improvviso capì tutto e scoppiò a piangere. «Perdonami, Marco, non sapevo.»

«Era mia moglie Virginia» spiegò lui con gli occhi lucidi. «Mi ha lasciato da dodici anni, insieme al bimbo che aveva appena dato alla luce. Non te ne avevo ancora parlato… Come hai fatto a scoprirlo? È scritto sulla mia mano? Ho sempre creduto che i chiromanti fossero ciarlatani.»

«E in gran parte lo sono» ammise Chiara riscuotendosi. «Per leggere una mano non basta conoscere le linee, bisogna anche stabilire un contatto particolare col soggetto.»

«Come hai imparato?» si incuriosì Marco.

«Te lo dirò. Ma tu hai portato la corda come ti ho chiesto?» esclamò come presa da un nuovo pensiero.

«La corda con cui è stato ucciso Barbaro? Che singolare interesse per una ragazza. Sì, è in gondola.»

«Allora andiamo a casa mia.»