Capitolo 8

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Dal momento in cui si era svegliata, Chiara aveva avvertito un’insopportabile irrequietezza e sapeva per esperienza che quando si trovava in quello stato stava per succedere qualcosa.

Passando distrattamente davanti alla toeletta, lo specchio le aveva rimandato l’immagine sfuocata ma inconfondibile del bell’avogadore Pisani. Per un attimo si era sentita avvolgere in una nuvola vorticosa e aveva riconosciuto i sintomi delle sue premonizioni. Sentiva profumo di fiori mentre una gioia sconosciuta le invadeva il cuore e le metteva voglia di cantare. Si toccò la guancia dove aveva avvertito una mano sfiorarla.

Ma cosa andava a pensare? Non era una delle visioni che ogni tanto i suoi poteri di sensitiva le procuravano. Erano solo le chimere di una zitella.

Così aveva fatto ammattire la giovane cameriera che la pettinava, i riccioli proprio non ne volevano sapere di stare a posto. Il vestito verde non era stato smacchiato e lei dovette ripiegare su una gonna e un corpetto color porpora dalla scollatura generosa. Non trovava la collana di corallo e buttò all’aria il contenuto del cassettone per cercarla, e quando si sedette al tavolo della colazione il suo ritardo le diede modo di lamentarsi che il caffè era freddo.

«Cos’ha questa mattina, padrona?» borbottò Giannina spazientita. «Ha dormito male?»

«Qui devo pensare a tutto io» replicò Chiara risentita, «specie oggi che è partita Marta.» E andò a sedersi in salotto. Era una stanza luminosa arredata alla moda, con mobili laccati color panna e tappezzerie azzurre. Un bel trumeau a vetri metteva in mostra oggetti preziosi. A una parete era appesa una veduta del bacino di San Marco del Canaletto.

Chiara apprezzava le cose belle, e ringraziava spesso in cuor suo il padre che le aveva impartito un’educazione signorile, prima nel collegio delle Orsoline, poi a casa come le gentildonne, con maestri di musica e letteratura. E intanto le aveva insegnato i segreti della contabilità, dei bilanci in partita doppia, del cambio delle monete.

Ma quel giorno non riusciva a concentrarsi, buttò a terra la Gazzetta che tentava di leggere e scese nel suo laboratorio di tessitura.

I telai erano già tutti al lavoro. Belle macchine, alcune venute dalla lontana Inghilterra, che innalzavano fino al soffitto le trabeazioni di legno e trasformavano in pezze di tessuto la complicata ragnatela di fili disposta in ordine sapiente. Una ventina di giovani intorno ai telai faceva muovere i meccanismi a ritmo cadenzato, producendo un battito che sulla padrona aveva sempre un effetto calmante.

Chiara si aggirò per il vasto stanzone salutando gli operai che le sorridevano riconoscenti: si lavorava bene con quella giovane donna, conosceva il mestiere, sapeva inventare sempre nuovi disegni, gli ordini fioccavano numerosi e non era avara. Peccato che fosse una donna sola, sembrava che non avesse nessuna intenzione di prendere marito, anche se nell’ambiente dei commercianti i pretendenti erano molti.

 

La padrona controllò alcune pezze di seta in fabbricazione, elargì qualche suggerimento, diede un’occhiata al telaio di Maso che era fermo, col lavoro lasciato a metà, sospirò e andò a sedersi alla scrivania nel piccolo ufficio adiacente al laboratorio. Prese in mano le lettere dei clienti, ma non riuscì a concentrarsi. Ogni tanto alzava gli occhi alla porta.

 

Nani legò la gondola a un palo del canale che attraversava calle Venier e Marco uscì dal felze che copriva l’imbarcazione, saltando sulla riva seguito da Maso.

«Vai a cercare Baldo Vannucci» ordinò al gondoliere. «Gira per le taverne di Rialto e vedrai che lo trovi.»

«Ma, paròn, Baldo Vannucci è…»

«So benissimo chi è. Digli che lo aspetto domani all’una all’osteria della Pergola alle Zattere e che voglio sapere tutto il possibile su Marino Barbaro, Piero Corner e Paolo Labia. Tieni la bocca chiusa con chiunque e torna a prendermi fra un paio d’ore.»

Nani era poco convinto, dibattuto tra lo stupore e la curiosità. «Mi dica, paròn» non si trattenne dall’osservare. «Adesso Maso lo abbiamo portato a casa, che poi non è la casa ma il suo luogo di lavoro. Lei che ci sta a fare due ore in questa zona piena di fabbriche?»

Marco sbuffò; possibile che i suoi domestici avessero tutti la pretesa di controllarlo? «Sono fatti miei, Nani, e vedi di tenere la bocca chiusa anche su questo.»

Il giovane Maso attraversò di corsa il ponticello, quindi, rosso in volto per l’emozione, aprì lentamente il portone del laboratorio e la sua figura si stagliò contro la luce che veniva dall’esterno.

Chiara alzò gli occhi dalle sue carte e lo riconobbe. «Maso» esclamò correndogli incontro, «sei tornato!» E lo abbracciò con foga.

Guardando alle spalle del ragazzo si immobilizzò interdetta. Le pareva e non le pareva.

«Lei…» mormorò confusa. «Eccellenza, lei è l’avogadore Pisani. Lo ha accompagnato lei… Dunque Maso è stato scagionato…» Il pensiero le corse all’inquietudine che l’aveva turbata fino a quel momento. Ecco cosa stava per succedere.

Marco entrò inchinandosi leggermente. «Sì, non ci sono più dubbi sulla sua innocenza. Io mi trovavo a dover passare da queste parti» mentì, «e così ho pensato…» Che donna singolare, considerava intanto, dirige di persona il suo laboratorio ma ha la classe di una gran dama.

Chiara lo osservava attenta. Senza toga e parrucca era proprio un bell’uomo quel magistrato, e la contemplava sorridendo quasi timidamente, con quel suo sorriso obliquo, appena accennato, che faceva brillare gli occhi scuri. Ma perché era venuto da lei?

«Prego, eccellenza.» Si riscosse. «Come potremo ringraziarla, Maso e io? A proposito» si sovvenne, «possiamo dare a Maso il permesso di correre a casa a tranquillizzare i genitori?»

Il giovane era già in mezzo al gruppo dei colleghi che si felicitavano con abbracci e pacche sulle spalle. Non si fece dire due volte che poteva andare e infilò correndo il portone, diretto a casa. Chiara e Marco rimasero a guardarsi nella penombra del laboratorio.

«Io adesso dovrei tornare…» Davanti a quegli occhi azzurri e ridenti, Marco era di nuovo a corto di argomenti.

Fu Chiara a salvarlo. «Mi permetta, eccellenza, di offrirle un rinfresco. E vista l’ora, se volesse fermarsi per pranzo mi farebbe felice

Pisani non finse nemmeno di schermirsi e la seguì per la scala fino all’alloggio del primo piano. Mentre Chiara Renier andava a dare ordini si guardò intorno: vide una casa piacevole, piena di libri, una spinetta finemente dipinta a scene pastorali sotto una finestra e addirittura un quadro di Canaletto. La padrona di casa era una donna colta e di gusto.

«Sta guardando il quadro?» lo distrasse lei tornando. «Amo le cose belle, mio padre ha fatto in tempo a insegnarmi molto prima di morire. La mamma invece…» sospirò. «È mancata che ero ancora bambina. E poi sono nata in ottobre, sotto il segno della Bilancia» si riscosse. «E quelli come me possono vivere sereni solo in un ambiente armonioso.»

«Lei crede nell’astrologia?»

«Credo in alcune cose del mondo soprannaturale, anche se tutto è immerso nel mistero» spiegò accomodandosi con Marco su un divano. «Per esempio, per rendersi conto dell’influenza degli astri sul carattere di una persona, basta pensare al mondo della natura: i fiori e i frutti dell’autunno sono diversi da quelli delle altre stagioni. Ma a parte l’astrologia, io credo che la nostra esistenza abbia più di una dimensione.»

La conversazione stava prendendo una piega inattesa. «Lei ha una fede profonda?» azzardò Marco.

«Credo in un Dio d’amore e di misericordia, ma non è di questo che stavo parlando» rispose Chiara. Si concentrò, abbassando gli occhi sulle mani incrociate. «Io credo che accanto al mondo sensibile scorra una vita parallela invisibile, spirituale. Gli artisti sono gli unici che sanno cogliere e dare forma a questa armonia soprannaturale. Per esempio, prendiamo in considerazione il quadro del Canaletto. Qui da noi questo pittore non è molto apprezzato e vende di più all’estero. A Venezia lo considerano un illustratore. Invece io vedo nelle sue opere, che sembrano una ripetizione del vero, proprio l’aspetto magico, incantato della realtà.»

Marco si fece pensoso. Le parole di lei gli aprivano strani orizzonti. Guardò la spinetta. «Sa anche suonare?» chiese.

«Ho studiato musica alcuni anni. La musica è un farmaco dell’anima. Vuole sentire qualcosa?»

Chiara suonava con dolcezza e forza insieme. Le note di Monteverdi uscivano dallo strumento sonore e armoniche. Marco poté contemplarla con agio. Una donna piena di sorprese, che rivelava profondità insondabili. Un profilo delicato con un nasino impertinente, una figura flessuosa. Desiderò averla vicina. Cosa gli stava succedendo?

A pranzo Marco apprezzò il pesce freschissimo cucinato con cura e uno zabaione squisito. Chiara era una buona conversatrice. Parlarono un poco di libri e musica, poi lui le raccontò del ritrovamento del cadavere di Piero Corner e di come il delitto fosse collegato a quello di Barbaro per la presenza in entrambi di una strana corda.

Man mano che la conversazione procedeva l’avogadore pensava a come chiederle di vederla di nuovo senza apparire indiscreto. Le regole dell’etichetta a Venezia erano molto rigide per le ragazze nubili, e Chiara non aveva genitori che la riparassero dalle dicerie malevole.

Alla fine si buttò: «Mi piacerebbe conversare ancora con lei, Chiara. Posso chiamarla così? E lei lasci perdere l’eccellenza. Il mio nome è Marco. Verrebbe, cioè… verresti con me domani sera al Leon Bianco?». Era la locanda più raffinata di Venezia, frequentata da nobildonne e perfino da sovrani di passaggio in città.

Chiara esitò un poco. Non era solita accettare inviti dagli uomini, ma questo era un avogadore, un magistrato dei più importanti, una persona stimata. E per la prima volta in vita sua un uomo la turbava.

«Va bene» accettò infine. «Ma lei, cioè tu, devi fare una cosa: porta con te quella corda.» E allo sguardo meravigliato di Marco aggiunse: «Mi intendo un poco di questi manufatti, mi piacerebbe vederla».

 

Canterellando le note di Monteverdi, Marco rintracciò la sua gondola, finse di non accorgersi delle occhiate interrogative che Nani gli rivolgeva e si fece portare all’ufficio di Zen, vicino alla chiesa di San Moisè. Attraversò la stanza dei segretari, entrò senza bussare e si sedette di fronte all’amico che stava consultando le sue carte. Era euforico e si vedeva.

«Cosa ti succede?» sogghignò Daniele chiudendo il fascicolo.

Marco era come una bottiglia di vino frizzante a cui stesse per sfuggire il tappo e l’amico non ci mise molto a farsi raccontare l’incontro.

«Ti sei innamorato» sentenziò infine. «Era ora!»

«Non so cosa mi capita, ma quella donna ha qualcosa di diverso… quando sono con lei mi sento bene. Poi penso a Virginia e mi vergogno.»

«Tua moglie non c’è più da molto tempo, Marco. E lei ti avrebbe capito. Ma tu che intendi fare? Per quanto bella, ricca, colta, è una borghese, e tu sai che per un patrizio sposare una borghese è un problema.»

«Già, ci vuole il permesso di un avogadore…» E i due amici si misero a ridere. «Ma prima di parlare di matrimonio dovremmo conoscerci meglio» continuò Marco. «Per ora mi accontento di vederla

 

«Beato te, Platone, che non hai intrighi sentimentali» considerava la sera Marco osservando il suo gatto accoccolato su una poltrona dello studio. La stanza era buia, illuminata solo dal fuoco danzante nel camino. Gli occhi verdi del felino rilucevano come due lanterne.

Che fortuna, pensava, che quei quattro sbirri avessero arrestato Maso per errore, altrimenti non avrebbe mai conosciuto Chiara, che non era solo bella, intelligente, raffinata; aveva qualcosa di più, una luce dentro che lo aveva colpito dal primo momento.

Alzò lo sguardo al ritratto della moglie che gli sorrideva da sopra il camino. «Lo sai» mormorò, «quanto ti ho amata, e quanto ho pianto te e nostro figlio. Sarai sempre nel mio cuore, ma ora devo andare avanti.»

Si riscosse all’ingresso di Rosetta, che portava la cioccolata.

«Cosa fa, paròn, così al buio? Cova cattivi pensieri?» E volgendo anche lei lo sguardo al ritratto aggiunse: «La signora non c’è più, e a lei non fa bene stare a rimuginare qui tutto solo».

«Hai ragione, Rosetta» sospirò Marco. «Accendi le lampade.»

Prese posto alla scrivania. Il gatto lo seguì sdraiandosi su una pila di incartamenti.

«Dunque vediamo, Platone» prese a considerare a voce alta appena la donna fu uscita. «Abbiamo due cadaveri, entrambi strangolati di notte per strada con una corda che potrebbe essere turca o anche portoghese. Erano amici tra loro, ma uno se la passava male e frequentava compagnie discutibili, e addirittura teneva in casa materiale più o meno segreto dell’Arsenale. Ora è urgente che il patrono Cappello mi faccia sapere qualcosa di quei documenti. L’altro è di una famiglia illustre e ricca; ha un passato scapestrato ma pare che dopo il matrimonio avesse messo la testa a posto. Sembra che la comitiva, di cui facevano parte anche Paolo Labia e un servo, abbia usato violenza a una servetta, ma che poi le cose siano state messe a posto… chissà come.»

Platone dormendo emise un lungo gemito.

«Cosa stai sognando?» lo apostrofò il padrone. Il gatto aprì un occhio. «Segui il mio ragionamento.» Il gatto sbadigliò. «Se Barbaro era una spia potrebbe essere stato ucciso dal controspionaggio. Ma i servizi segreti fanno sparire i cadaveri in mare aperto con una pietra al collo, non li abbandonano mai per strada. Poi Corner che c’entra? Lui non aveva bisogno di compromettersi per quattro soldi. A meno che non sia stato ucciso perché era al corrente dei loschi traffici dell’amico. E quella corda strana che sembra una firma? Forse Barbaro imbrogliava qualche turco, che si è vendicato. Non devo dimenticare che la vecchia Lucia poco tempo fa ha visto un turco che si aggirava intorno a casa. E di nuovo: Corner come è entrato nella vicenda? Bisogna saperne di più sull’intera comitiva, e magari anche su quella servetta che è stata violentata, anche se ormai è passato qualche anno dal fatto. Perché all’epoca c’è stato un contadino che è andato da Barbaro a lanciare minacce. E qui Corner c’entrava eccome, se devo stare a quello che Zanetta la rigattiera ha raccontato a Nani. Sai che facciamo adesso, Platone?» concluse Marco accarezzando il gatto. «Andiamo a fare un bel bagno caldo, e poi a letto.»

All’idea del bagno il gatto saltò dalla scrivania e con un paio di balzi eleganti guadagnò lo scaffale più alto della libreria.