Capitolo 3
Lungo la riva del Vìn, ai piedi del ponte di Rialto, ferveva l’attività dei barcaioli che scaricavano le ultime botti della giornata provenienti dall’entroterra. Gli osti e gli albergatori si facevano sotto per sistemarle sulle proprie carriole e quindi si aprivano la strada tra le popolane cariche di borse, le venditrici d’acqua che urlavano il loro richiamo e i monelli che correvano tra le gambe della gente. Una donna spenzolata da una finestra chiamava a gran voce suo figlio. Il fumo dei molti camini si perdeva nel cielo che imbruniva.
Marco e Daniele scesero dalla gondola recando in mano due lanterne. «Tu, Nani, puoi andare a casa» decise Pisani. «Avverti la Rosetta che l’avvocato Zen viene a cena. Mi raccomando che ci sia del buon Borgogna! Noi facciamo una passeggiata.»
In realtà Marco voleva esaminare la scena del delitto. I due amici si fecero strada tra la folla, costeggiarono la chiesa di San Silvestro e raggiunsero la ruga del Ravano. Bastò qualche domanda nelle botteghe e il luogo dove era stato trovato Barbaro fu presto identificato.
«Guarda» osservò Marco illuminando l’androne con la lanterna. «L’assassino, quello vero, può essersi nascosto in questo sotopòrtego per aspettare il passaggio di Barbaro.»
«Era al sicuro: in piena notte nessuno passa di qua» convenne Zen guardandosi intorno. «Nel cortile dove è stato trovato il corpo la luce del tabernacolo non arriva, ed era ancora troppo presto perché la gente uscisse di casa per andare al lavoro.»
«Chiunque sia stato voleva proprio ucciderlo. Non si è trattato di un tentativo di rapina» concluse Marco. «La corda gli è stata passata intorno al collo e l’hanno trascinato qui sotto prima che lui potesse reagire efficacemente. Però ha lottato: sulla lama del suo pugnale appaiono tracce di sangue. L’assassino deve avere una ferita, anche se lieve. Ora andiamo a vedere il cadavere.»
La casa di Barbaro era poco lontana, sulle fondamenta Rezzonico, di fronte al campo San Barnaba. Si trattava di una curiosa costruzione sormontata da un imponente abbaino. Al piano terreno si aprivano sulla facciata una bottega di abiti usati e quattro porte che conducevano di sopra; altre due sulla fiancata davano accesso anche loro al piano superiore. La casa era studiata in modo che gli appartamentini al primo piano avessero ciascuno un ingresso indipendente: era il massimo che la Serenissima poteva fare per alleviare le scomodità dei nobili in rovina.
Una delle porte era semiaperta e dall’alto veniva un lamento continuo di donna. La scala era fiocamente illuminata. Marco e Daniele salirono cercando di non respirare il misto di fetori di cucina e muffa che la impregnava. Dal pianerottolo entrarono in una stanza dalle pareti scrostate, su cui danzava il riflesso delle fiamme del camino, fiancheggiato da due panche sgangherate. Una tavola ancora mezzo apparecchiata e poche sedie completavano l’arredamento.
Oltre un arco, accanto a un focolare spento, stava accovacciata su un pagliericcio una vecchia scarmigliata che si lamentava. Al vedere i nuovi arrivati si alzò asciugandosi gli occhi col grembiule. Era ricurva per gli anni e il suo volto era una ragnatela di rughe. «Che disgrazia!» mugolò facendosi loro incontro. «Adesso dove mi toccherà di andare? Lorsignori erano amici del mio padrone? Possono fare qualcosa per una povera vecchia come me?»
Marco provava un’avversione istintiva per chi si piangeva addosso e stava per perdere la pazienza di fronte alla squallida scena, quando Zen si intromise. «Siamo magistrati della Repubblica, siamo qui per vedere il corpo.»
«Che onore!» E la vecchia si inchinò goffamente. «Il mio signore era povero, ma è vero che era un uomo importante se persone così distinte si scomodano per lui.» Marco alzò gli occhi al cielo. «Venite, accomodatevi nella sua stanza.»
Le imposte erano chiuse. Marino Barbaro giaceva sul letto, adagiato su una coperta macchiata, alla luce di una sola candela. Qualcuno gli aveva intrecciato le mani. Una smorfia di terrore si era irrigidita sul suo volto. Era giovane, meno di trent’anni, molto magro, quasi consumato; anche nella morte conservava qualcosa di repellente, accentuato dal disordine degli abiti. Sul collo spiccava il solco violaceo della corda che lo aveva strangolato.
«Dov’è la corda?» chiese Pisani.
La vecchia gli lanciò un’occhiata interrogativa buttando indietro una ciocca di capelli grigiastri.
«La corda con cui è stato ucciso» spiegò Zen. «Gli sbirri hanno detto di averla portata qui insieme al corpo.»
«Già, la corda» ricordò la donna. «Deve essere qui da qualche parte.» E si mise a spostare gli abiti che ricoprivano l’unica poltrona. «No, eccola» esclamò infine aprendo una cassa.
«Che strana» considerò Pisani. «È piuttosto grossolana e sfilacciata. Chissà che non ci dia qualche informazione.» E se la infilò in una tasca dell’abito.
«Sia maledetto chi l’ha ridotto in queste condizioni!» inveì la serva spremendo due lacrime, le prime che versava a beneficio del morto. «Mi hanno detto che l’assassino è già stato arrestato» continuò in tono lamentoso. «Ma io dove finirò? Chi mi prenderà a servizio alla mia età? Il padrone non mi pagava quasi mai, ma almeno avevo un tetto e qualcosa in tavola. Adesso mi aspetta solo il ricovero…»
«Ora parliamo» disse Pisani rivolto alla donna, accomodandosi su una panca della sala dopo avere chiuso accuratamente la porta della camera ardente.
Daniele Zen si trovò a pensare che il suo amico sarebbe stato un magnifico Messer Grando, il capo degli sbirri, se non fosse nato in casa Pisani. Di sicuro era l’unico avogadore che non esitava a entrare nei più sordidi tuguri per interrogare i testimoni.
«Qual è il tuo nome?» chiese Marco alla vecchia mentre Zen prendeva appunti su un taccuino.
«Sono Lucia Piumazzo, per servirla, eccellenza, e non sono sempre stata come mi vede ora.» Una fiammella di orgoglio brillò negli occhi della donna mentre si alzava per accendere con un vecchio acciarino una lampada a olio. «Da giovane servivo in casa di signori, sono stata anche cameriera dei Mocenigo. Poi, sa com’è, gli altri servi erano invidiosi, hanno cominciato a dire che bevevo di nascosto, hanno messo qualche posata d’argento tra le mie cose, e il maestro di casa mi ha licenziata.»
«Immagino…» commentò Pisani con sarcasmo poiché si era già fatto un’idea della vecchia. «E da Barbaro come sei capitata?»
«Saranno cinque anni. Vivevo per strada e un giorno ero in fila davanti alla parrocchia di San Polo per una scodella di minestra quando il signore si è fermato vicino a me. Mi ha chiesto chi ero, perché elemosinavo da mangiare… doveva avere capito che non ero come gli altri mendicanti. Ha saputo che ero stata cameriera e che mi era capitata la disgrazia di essere licenziata per le maldicenze delle colleghe, e si è messo a ridere. “Da me” ha detto, “non c’è niente da rubare, e nemmeno da ubriacarsi. Ho bisogno di una serva; avrai un pagliericcio in cucina e pasti regolari.” Così sono andata con lui. Ma adesso dove finirò?»
«Di questo parleremo dopo. Chi era Marino Barbaro? Aveva parenti ancora vivi?»
«No, era solo al mondo. È stato sfortunato nella vita, come me.» Dagli occhi le colò qualche lacrima. «Ogni tanto mi raccontava dei suoi nonni che avevano terre e una villa nel Padovano, ma stavano sempre a Venezia e si facevano derubare dall’intendente. I suoi genitori sono morti che era ancora piccolo, e lui è stato allevato all’Accademia dei Nobili alla Giudecca, a spese dello stato. Quando ha avuto diciotto anni è uscito e gli hanno assegnato questa casa.»
Una storia come tante, considerò Pisani. «Di che cosa viveva?» tentò di indagare.
«Giuro davanti a Dio…» e Lucia toccò un crocefisso di legno che portava al collo, «…che di preciso non l’ho mai saputo. Credo che facesse qualche commercio di antichità: col suo nome riusciva a farsi invitare in alcune case importanti.»
«E si metteva in tasca l’argenteria.»
«No, non lo so. Mi risulta invece che ogni tanto qualche suo giovane amico voleva vendere, che so, un quadro, una porcellana, ed era lui che si incaricava di andare da un antiquario. Poi spesso lavorava al Casìn dei Nobili qui vicino… Sa come succede, doveva tenere il banco sempre animato.»
«Era un giocatore?» incalzò Marco.
«Giocare gli piaceva, sì, anche per conto suo; di quando in quando arrivava con qualche ducato in tasca, più spesso tornava a casa disperato e senza un soldo. Sa, doveva anche pensare ad andare ben vestito, altrimenti non avrebbe potuto entrare alle sedute del Maggior Consiglio.»
Marco represse un sorriso pensando agli abiti raffazzonati che giacevano nella stanza accanto. «Aveva donne?»
«Solo la signora Lucrezia, che credo gli fosse affezionata. Non so altro.»
La vecchia rispondeva prontamente, si capiva che desiderava collaborare e farsi alleati quei signori potenti.
«Chi erano i suoi amici?»
«Non li ho mai visti, non li portava certo in questa casa.»
«Quindi erano gente altolocata» si intromise Zen.
«No, non lo so. Con me non parlava di queste cose.»
Marco scambiò un’occhiata con Daniele. Anche la vecchia Lucia, come già Lucrezia, a parlare degli amici di Barbaro si chiudeva come un riccio. Per il momento non era il caso di insistere. Pisani aveva già progettato come raccogliere le informazioni che gli servivano.
«Ma tu non hai mai assistito a discussioni, magari in strada, non hai mai sentito chiacchiere? Mai visto nessuno che gironzolasse qua intorno? Se qualcuno lo ha ucciso doveva avere buoni motivi» continuò.
«Una volta, molto tempo fa» si sforzò di ricordare la donna stringendo gli occhi, «è venuto a cercarlo un uomo. Sembrava un contadino… parlava di sua figlia, si è messo a urlare in mezzo alla strada. Io mi sono chiusa in casa e lui è andato via.»
«E di recente?»
La donna sembrò mettere ordine nei ricordi, prese a stropicciarsi il grembiule. «L’unica cosa che mi viene in mente… ma è una sciocchezza… In queste ultime settimane ho visto due o tre volte un pezzo d’uomo, un turco con il turbante, passare per le fondamenta. Ci ho fatto caso perché, sa, il fondaco dei Turchi è distante da qui e di quella gente non se ne vede molta. Ne ho anche accennato al padrone, ma lui non ci ha badato.»
«E adesso, Daniele, sai cosa dobbiamo fare» sospirò Marco alzandosi e calzando i guanti.
L’amico lo imitò. La vecchia li guardava stupita, gli occhi stretti a fessura, il mento proteso in avanti.
Rientrarono nella stanza del morto, aprirono la finestra sul gelo della sera e si misero a frugare con disgusto tra i suoi effetti personali. Qualche moneta nelle tasche, fazzoletti usati, biancheria sudicia, da tutto esalava un fetore sgradevole che si mescolava a quello che ormai si diffondeva dal cadavere. Su un tavolaccio che fungeva da scrivania, Daniele trovò alcune carte che lo incuriosirono.
«Guarda, Marco. Cosa ti fanno venire in mente queste annotazioni?»
Marco lesse a voce alta: «Dogaressa 12 aprile-24 settembre; Airone 15 maggio-28 ottobre; Sirenella 28 marzo-15 ottobre… E ce ne sono altre. Sembrano le date di arrivo e partenza delle navi, le mude. Che se ne faceva Barbaro? Come le ha avute?».
In fondo alla cassa un fascio di fogli attirò la loro attenzione. Uno di loro recava il disegno dello spaccato di una galera, un altro di un arpagone, una piccola ancora; altri ancora mostravano la forma di alcune vele e la sagoma di quello che poteva essere l’affusto di un cannone. C’era uno schizzo che recava la dicitura Forni vecchi e l’ultimo disegno sembrava copiato in fretta da una mano maldestra. Raffigurava uno strano natante composto da due scafi paralleli tenuti insieme da un cilindro, che terminava in due ruote dentate. Dal corpo del cilindro uscivano quattro bracci rotanti che finivano con pale draganti, mentre una piccola zattera tra i due scafi era chiaramente destinata a raccogliere il materiale che cadeva dalle pale. I due si guardarono in faccia.
«Non ho mai visto una macchina di questo genere» considerò Marco. «Si tratta certamente di una draga cavafango, ma è diversa dalle solite.» Le draghe a Venezia erano usate per tenere sgombri i canali dai rifiuti e per ripulire dal fango di deposito le vie d’acqua di passaggio delle navi nel porto.
«È un caso di spionaggio» osservò sottovoce Zen. «Questo disgraziato…» e si voltò un attimo per gettare un’occhiata alla salma, «… si preparava a vendere documenti dell’Arsenale a qualche potenza straniera.»
«Già. Barbaro era in un gioco grosso. Forse dovremmo avvertire gli Inquisitori.»
«Aspetta» lo consigliò Daniele. «Prima accertiamoci del valore di queste informazioni. Si può sentire all’Arsenale.»
Con i documenti sotto il braccio, Marco prese congedo dalla vecchia.
«Che ne sarà di me, eccellenza?» si mise a piangere lei. «Voi che siete persone importanti trovatemi una sistemazione, magari in un convento. Alla mia età chi volete che mi prenda a lavorare?»
«Ci penseremo» la rassicurò Pisani. «Ora chiudi la porta e non fare entrare nessuno. Hai denaro per mangiare?» E senza aspettare risposta mise alcune monete in mano alla donna.
«Che Dio vi benedica.» Lucia si inchinò. E voleva baciare la mano che Marco nascose in fretta in una tasca.
Marco e Daniele sentivano ancora le sue querimonie mentre scendevano la scala e tornavano a respirare l’aria pura delle fondamenta.
Camminarono un poco in silenzio, alla luce delle lanterne. «Non mi è venuto in mente» considerò a un tratto Daniele, «ma avrei potuto prendere la mia gondola.»
«Non fa male un po’ di moto» obiettò Marco. «Che ne pensi di quella vecchia?»
«Non è certo una persona amabile ma di sicuro non sa nulla, l’unica cosa che la preoccupa è la sua sorte.»
«È sgradevole, certo» convenne Pisani, «ma anche lei ha il diritto di vivere. Ne parlerò a mia madre, che cura tutta una serie di opere di beneficenza, perché la sistemi in qualche convento.» Si fermarono su un ponticello a guardare l’acqua scura. «Non ti nascondo» riprese, «che questo caso mi turba. Tutta quella miseria, una casa da topi, la sporcizia. Come può una città che è stata la prima al mondo per civiltà e ricchezze permettere che i suoi cittadini si riducano in queste condizioni? Mi dirai che i mendicanti ci sono dappertutto, che sono la feccia dei più deboli che tutte le società buttano ai margini, ma da noi due secoli fa non c’erano, e men che mai di nascita aristocratica. Noi siamo Venezia, la Serenissima. Perché tante delle nostre famiglie nobili sono finite in rovina? Perché tanti vecchi si ritrovano come quella Lucia? Sembra che un cancro ci corroda, noi, i muri dei palazzi, le rive dei canali. Tu non hai paura della fine del nostro mondo?»
Daniele scosse la testa. «Ne avrei paura» considerò, «se il nostro fosse il migliore dei mondi possibili, ma non lo è, Marco, non lo è. Siamo ancora troppo attaccati al passato, alle tradizioni, alle passioni. Ci facciamo trasportare troppo dai sentimenti. Vedi, io credo che noi uomini abbiamo una grande forza, la forza della ragione, che da sola può indicarci le strade nuove, il progresso che migliora le condizioni di vita, i principi economici per portare benessere a tutti…»
«Sei un illuminista, Daniele» sorrise Marco. «Sì, anch’io ho letto i filosofi inglesi e francesi. Sono idee interessanti, ma io mi chiedo: se un giorno i francesi venissero qui a diffondere le loro idee, a metterle in pratica, avremmo un mondo migliore, dove la gente non patirebbe più la miseria, dove non ci sarebbero più ingiustizie, dove la ragione, la loro ragione, trionferebbe? Io ne dubito.»