Capitolo 1

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Nel primo morto ammazzato andò a inciampare per sua disgrazia il giovane Tommaso Grassino detto Maso.

Stava declinando una gelida notte dei primi di dicembre, una di quelle notti veneziane in cui l’acqua dei canali sembra sublimarsi in goccioline e vagare per le calli a intridere gli abiti dei passanti. Ancora col buio, Maso aveva lasciato con rincrescimento il letto tiepido nella casa dei genitori dietro campo San Polo; con le mani in tasca stava percorrendo nella semioscurità la ruga del Ravano per raggiungere il ponte di Rialto. Era diretto nel cuore del sestiere di Cannaregio, alla tessitura di seta di calle Venier dove lavorava come apprendista.

Non c’era ancora quasi nessuno in giro, solo qualche fornaio che rientrava dopo il lavoro avvolto nel tabarro e alcuni patrizi semiubriachi dopo una notte di gioco d’azzardo al Casìn dei nobili di campo San Barnaba, che si apriva poco lontano.

Si sentivano i richiami dei garzoni di bàcari e taverne mandati avanti dai padroni a rimuovere le imposte sulla calle e ad accendere il fuoco nei camini. Erano in attesa delle prime ondate di verdurieri e pescatori che sarebbero venuti a scaldarsi con un sorso di vino prima di scaricare le barche intorno al grande mercato di Rialto.

Maso procedeva svelto per la strada ben nota e fischiettava una barcarola stonando con sentimento quando, forse per il freddo pungente, forse perché era uscito di fretta, lo prese un bisogno impellente di urinare.

Svoltò a destra per l’intrico di callette dietro San Silvestro, superò un sottoportico rischiarato dagli ultimi guizzi del moccolo sotto il tabernacolo della Vergine e mosse due passi nell’oscurità di un piccolo cortile. Il suo piede andò a urtare una massa indistinta abbandonata a terra. Si chinò incuriosito e all’ondeggiante luce del candelotto si trovò a fissare due occhi sbarrati e una lingua sporgente, una faccia stravolta da una smorfia di terrore che era senza equivoci il terrore della morte.

«Aiuto!» gridò Maso con voce strozzata. Poi, in un crescendo: «Aiuto! Qui c’è un morto! Qualcuno mi aiuti!». Ma non si decideva ad alzarsi, continuava a reggere quella testa abbandonata e non udì nemmeno lo scalpiccio di passi affrettati per la calle.

Due mani lo afferrarono per le spalle e lo inchiodarono al muro, una voce roca urlò: «Che hai fatto, disgraziato?». Un’altra, stridula questa, rispose: «L’ha ammazzato!».

Si raccolse gente in men che non si dica. Arrivarono alcuni garzoni delle taverne vicine; qualcuno di loro portava una lanterna. I più curiosi si fecero largo chinandosi sul morto. Uno esclamò: «Poveretto, è stato strangolato».

«Gli sbirri, chiamate gli sbirri» urlò una voce d’uomo. Era alto e grosso, forse un facchino del mercato.

«Andrebbe giustiziato qui, subito» proponeva un altro con una vocetta stridula. Aveva la testa a pera incassata nelle spalle e due gambette corte e arcuate. Alludeva al povero Maso che assisteva stralunato.

Le case intorno si erano d’improvviso svegliate. Imposte sopra le teste sbattevano, lumi si accendevano, donne avvolte in scialli si affacciavano.

«È proprio morto?» chiedeva una vecchia dall’alto.

«L’ha strangolato» rispondeva qualcuno, «ma gliela faremo pagare…»

In mezzo a tale bailamme Maso terrorizzato balbettava: «Un momento, non sono stato io; l’ho trovato così…». Nessuno gli dava ascolto.

Era sempre più spaventato, strattonato qua e là da alcuni giovani che si erano assunti il compito di consegnarlo alla giustizia, mentre intorno al morto la folla, proveniente dalle vie intorno e attirata dal baccano, uomini e donne sommariamente abbigliati e passanti incuriositi, si era ingrossata fino a invadere il cortile e la calle.

«Largo, fate largo» si udì finalmente. Era arrivata la giustizia sotto le spoglie di quattro sbirri in divisa, completi di bandoliere e stivaloni e muniti di lanterne. Mentre due di loro prendevano in consegna il povero Maso che al vederli tirò un sospiro di sollievo, gli altri spostarono il cadavere nella calle e lo osservarono con attenzione. Era sorta un’alba lattiginosa, chiara quanto bastava per valutare la situazione.

«È un patrizio» osservò una guardia. «Ha giacca, mantello e calze di seta.»

Il collega osservò: «Però deve essere di quelli poveri: guarda i rammendi sulla camicia e la parrucca tarlata». Era vero, la vittima aveva un aspetto trasandato.

«È stato strangolato» continuò il primo. «Ha ancora una corda intorno al collo. E ha tentato di difendersi, ha un pugnale stretto in mano. Guarda!» aggiunse. «Il pugnale è sporco di sangue; deve aver ferito il suo assassino.»

Bisognava allontanare la folla e prendere una decisione. Gli sbirri non sapevano che fare: a Venezia non si trovavano cadaveri in strada tutti i giorni, anzi per loro quattro era il primo in cui si imbattevano e la cosa li impressionava non poco.

«Toccherebbe ai fanti della Quarantìa Criminale» fece osservare saggiamente il più giovane, tale Antonio.

«Ma adesso qui ci siamo noi, non possiamo perdere la faccia» replicò un altro. «Vediamo intanto di disperdere la folla.»

Non fu facile convincere la gente eccitata a tornare alle proprie occupazioni, ma alla fine le guardie rimasero sole con Maso al cospetto del cadavere.

«Chi è?» gli chiese il più anziano, un certo Luigi Biasio. «Perché l’hai ucciso? Volevi derubarlo?»

«Non ho ucciso nessuno» si difese il giovane; era più pallido del morto. «Non ho mai visto questo signore in vita mia!»

«E allora perché ti hanno trovato sopra il cadavere?»

«Stavo andando al lavoro, avevo bisogno di urinare e mi sono nascosto nel sottoportico. Quando sono inciampato nel suo corpo lui era già morto.»

Effettivamente il ragazzo, alto e allampanato, con le orecchie a sventola e il viso rotondo, stravolto per la paura e l’indignazione, vestito da operaio ma assai dignitosamente, non aveva l’aria del criminale. Bisognava comunque affidarlo a un magistrato.

E del morto che fare? Prima di esporlo al ponte della Paglia davanti alle Carceri, come era uso procedere per i corpi di sconosciuti, era opportuno fare qualche ricerca.

Uno sbirro si assunse il compito di convocare alcuni bottegai dei dintorni per un eventuale riconoscimento. E fu uno di loro, tale Zorzòn, titolare di una botteguccia di generi vari, che lo riconobbe. «È Marino Barbaro» rivelò, «si tratta di un barnabotto che abita dietro Ca’ Rezzonico, poco lontano da qui. Non ha mai denaro in tasca e mi ha lasciato un bel po’ di debiti. Beato adesso chi rivede i miei soldi! Però che brutta fine…»

Già, un barnabotto, convennero gli sbirri, uno dei nobili impoveriti che vivevano di espedienti e abitavano i quartierini messi a disposizione dalla Repubblica nella vicina parrocchia di San Barnaba. Così si spiegava il suo abbigliamento raffazzonato.

Non restava altro da fare, per il momento, che riportarlo a casa sua, e due di loro, Luigi Biasio e il giovane Antonio, improvvisata con un lenzuolo una barella, si accinsero a trasportare il morto, mentre gli altri, Giuseppe e Momo Serpieri, legate le mani a Maso, si diressero verso Rialto da dove, per le calli eleganti dette le Mercerie, avrebbero raggiunto Palazzo Ducale e le vicine Carceri Nuove.

 

La città si andava risvegliando. Davanti all’Erbarìa, ai piedi del palazzo dei Camerlenghi, si affollavano sul Canal Grande peote da carico, zattere, burchi, caorline colme delle verdure delle isole che venivano man mano disposte sui banchi del mercato da venditori intabarrati. Si incrociavano nell’aria gelida esortazioni e richiami, voci rauche, dialetti dei dintorni, qualche ritornello di canzone.

Poco lontano i bragozzi di Chioggia e Pellestrina, spinti a remi da robusti pescatori in cappotto e berretto di lana, approvvigionavano la Pescheria. Dalle ceste scorreva sui banchi un torrente argenteo e guizzante di sarde, soglioline, sgombri, tra il rosso di gamberi e triglie e il nero delle anguille. Le voci umane salivano in alto e si intrecciavano allo stridio degli uccelli.

Arrivavano i primi clienti, popolane con la sporta appesa al braccio, vecchietti impazienti di incontrare qualcuno con cui scambiare due parole, qualche frate elemosiniere.

Oltre il ponte, sulla riva del Vìn, i facchini scaricavano le botti incrociandosi con comitive di giovani patrizi avvolti nei mantelli, il passo ondeggiante, gli occhi segnati, che tornavano da una notte di bagordi abbracciati a donne pesantemente truccate.

Maso, curvo in mezzo agli sbirri, passato il primo sollievo per lo scampato pericolo di essere fatto a pezzi dalla folla, non vedeva e non sentiva nulla, viveva un incubo. Come poteva capitargli una cosa simile, lui che era un bravo apprendista, che non aveva mai fatto male a nessuno? Non era possibile che lo accusassero di omicidio, era tutto un equivoco, presto lo avrebbero liberato.

Passato il ponte, all’altezza della chiesa di San Salvador, Giuseppe si fermò di botto strattonando il povero Maso fino a farlo inciampare. «Di’ un po’, Momo» chiese al collega, «la furàtola del Gatto Nero è aperta. Che ne pensi di scaldarci con un bicchiere di bianco?» E così dicendo aprì la porta dell’osteria che dava sulla calle.

I tre avanzarono nello stanzone illuminato soltanto dalle fiamme del vasto camino. Nel semibuio si scorgeva appena la sagoma del bancone centrale sul quale pendevano da una grossa trave del soffitto prosciutti e salami. I pochi clienti seduti ai tavoli non erano che ombre indistinte. Maso ne fu sollevato perché non avrebbe sopportato di farsi vedere in ceppi.

«Te la bevi anche tu un’ombra de vìn?» gli chiese Giuseppe.

Maso scosse la testa, il groppo in gola non gli permetteva di inghiottire. Mentre gli sbirri davano fondo con gusto a una brocca di vino e a un piatto di pesciolini fritti dall’odore appetitoso, il giovane continuava a rimuginare sulla propria situazione. E i suoi genitori? Chi li avrebbe avvisati?, si chiedeva. I poveretti non avrebbero mai creduto alle accuse, ma cosa avrebbero potuto fare? Loro forse ben poco, ma di sicuro sarebbe intervenuta a difenderlo la signorina Renier, la padrona della tessitura, che lo conosceva bene. Lei era una donna colta, una donna d’affari; sapeva a chi rivolgersi.

Il terzetto riprese la strada lungo le Mercerie. I negozi di moda erano ancora chiusi ma la folla si stava infittendo: impiegati che raggiungevano gli uffici, artigiani diretti verso i laboratori, venditrici di frittelle bollenti, serve dirette al mercato inseguite da gondolieri sfaccendati. Maso non vedeva nulla, teneva gli occhi bassi temendo di incontrare qualche conoscente, mentre pensava a come cavarsela. Ma sì, era sicuro che la signorina Chiara Renier lo avrebbe aiutato; lei era così abile e istruita.

Al pensiero della padrona della tessitura di seta per cui lavorava, Maso quasi cominciava a mettersi tranquillo, quando, sbucando in piazza San Marco, Giuseppe, in vena di spirito macabro, diede uno strattone alla corda che lo legava e gli indicò le colonne sulla riva tra le quali avvenivano le esecuzioni capitali. «Lì finirai» esclamò ridendo. «Fra Marco e Todaro.» E Maso si mise a singhiozzare come un bambino.