Capitolo 7
Le notizie su Piero Corner arrivarono da sole e inaspettate, e in tutta Venezia ebbero l’eco di una cannonata.
Lunedì mattina presto, era l’undici dicembre, Marco trovò il segretario Tiralli visibilmente turbato, che lo attendeva davanti alla porta del mezzanino alle Procuratie Vecchie.
«Eccellenza.» Il giovane aveva l’affanno come se avesse fatto una corsa. «Una grande disgrazia! Tra poco tutta Venezia lo saprà! È accaduta una terribile disgrazia…»
«Dimmi cosa è successo invece di agitarti» sbuffò Marco.
«Ecco, questa mattina, circa un’ora fa, il lumaio che spegne le lanterne all’alba ha rinvenuto sotto un portico il cadavere del patrizio Piero Corner, dei Corner della Ca’ Granda. Pare che sia stato strangolato con una corda, proprio come Marino Barbaro. Tornava dal Ridotto. Il suo gondoliere era poco lontano, sulla gondola, legato e imbavagliato.»
«Dov’è?» esclamò Marco. «Cosa si sa?» Si trattava proprio dell’amico di Marino Barbaro indicato a Nani dalla bottegaia.
«Il cadavere è ancora dove è stato trovato; gli sbirri hanno preferito che lo vedesse subito un magistrato, e siccome lei è sempre il primo ad arrivare…»
«Tu hai provveduto ad avvertirmi senza perdere tempo» concluse Pisani. «Bravo! Ma dove si trova?»
«Poco lontano da qui, sotto il portico del Fondeghetto della Farina, dove c’è l’Accademia di Pittura. Ho pensato che se è morto come Barbaro i due delitti potevano essere collegati.»
«E hai pensato bene. Andiamo.»
Pisani aveva trascorso un fine settimana inquieto. Le ipotesi sul misterioso omicidio di Barbaro si mescolavano nella sua mente all’immagine di Chiara Renier, che ritornava più spesso di quanto avrebbe mai supposto. Diamine, non era più un ragazzino, da perdere la testa dietro una donna, e la sua vita sentimentale si giovava felicemente dei favori della bella Annetta, la ricamatrice che da qualche anno frequentava in un appartamento dalle parti di San Rocco; una compagnia piacevole, che non gli creava turbamenti.
Chiara invece lo intrigava, non aveva mai incontrato una donna così vivace e di spirito. Doveva cercare il modo di rivederla, ma non sapeva come fare.
La domenica precedente si era svegliato dopo un sonno agitato. Ricordava di avere sognato Virginia che lo salutava allontanandosi verso campi di luce. Aveva cercato invano di chiamarla e si era svegliato nel cuore della notte madido di sudore.
Si era trascinato per tutto il giorno fra studio e salotto leggiucchiando e meditando. Più volte aveva preso in mano alcune pratiche senza riuscire a concentrarsi. Il ricordo di Chiara gli tornava in mente di continuo e rievocando la sua immagine si era sorpreso a sorridere. Più volte Rosetta, incrociandolo, l’aveva guardato con sospetto senza dire nulla.
La sera si presentò a cena dai suoi nel bel palazzo gotico di famiglia sul Canal Grande. Con il maestro di casa che gli trotterellava dietro a fatica, salì velocemente l’imponente scalone fino al piano nobile, attraversò a passo spedito lo sfarzoso pòrtego affacciato sul Canale e trovò la famiglia riunita nel salotto preferito, quello il cui soffitto era stato dipinto dal Tiepolo con l’aereo affresco dell’incontro tra Venere e Marte.
«C’è lo zio!» urlarono a una voce i due figli di suo fratello vedendolo entrare nella stanza e correndogli incontro.
«Cosa ci hai portato?» chiese Stefano, il maggiore, un angioletto biondo di sei anni.
Marco porse ai bimbi un pacchetto di dolci. Erano i biscotti della Rosetta, famosi per la loro squisitezza.
«Prima a me che sono più piccolo» pretese Carlo, che era un terremoto robusto come un torello.
Sedata la disputa, ebbe inizio la cena nella vicina sala rossa dove, ai lati del camino, era esposta una famosa collezione di porcellane e vetri antichi.
Marco sedeva di fronte a suo padre e non poté fare a meno di notare che la mano gli tremava un poco reggendo la forchetta. Sta invecchiando, si rammaricò, anche lui che è stato uno dei più brillanti senatori della Repubblica e ambasciatore in Inghilterra e in Spagna.
Teodoro Pisani, che sfiorava gli ottant’anni, era ancora una figura imponente, ma aveva perso molto del piglio deciso che lo aveva reso uno dei personaggi più importanti di Venezia, e il suo sguardo appariva a tratti appannato.
La madre Elena, molto più giovane, elegante in un abito blu di merletto illuminato da una collana di perle, parlava con vivacità. «Sono i bambini che mi tengono allegra» osservò a un certo punto. «Ma a volte penso a te, Marco. So che non dimenticherai mai tua moglie, ma non progetti qualche volta di rifarti una vita?»
A Marco venne in mente una volta di più il volto di Chiara Renier. «Ci vuole la donna giusta, mamma; non è facile» si schermì.
«Sei troppo complicato» replicò sua cognata, una bellezza veneziana dalla pelle rosea e i capelli ramati. Era in attesa del terzo figlio. «Guarda Giovanni come si dà da fare.» E sorrise indicando il ventre prominente.
Chiamato in causa, Giovanni protestò scandalizzato. «Ma che dici, Rossana, i figli li manda il Signore…»
«Con molti aiuti da parte tua» replicò la moglie tra l’ilarità generale.
«Quasi dimenticavo» interloquì sua madre quando si rifece silenzio. «Quest’anno il nostro ricevimento tradizionale è fissato per il 26 dicembre, il giorno di Santo Stefano. Mi renderebbe felice che tu non venissi solo.»
«Certo, mamma, porterò Daniele Zen» scherzò Marco.
«Sai quello che voglio dire. Sarà una bella serata. Pensa che ha accettato di cantare per noi il celebre coro del conservatorio dei Mendicanti. E ho invitato anche alcuni artisti, come il Tiepolo che è tornato dalla Baviera. Forse sarà presente Rosalba Carriera, anche se ormai non esce quasi più. Che peccato che a una così grande artista sia stato tolto il dono della vista! Poi avremo i soliti amici di famiglia, e perfino Carlo Goldoni.»
Mentre si dirigeva sul luogo del ritrovamento del cadavere, Marco ripensava con una certa malinconia alla sera prima, a suo padre che invecchiava, ai nipotini, alla palese felicità di suo fratello; lui invece si sentiva uno sbandato.
Sulla banchina davanti agli imponenti edifici della Zecca e dei Granai di Terranova contrariamente al solito non c’era nessuno, le bancarelle di alimentari appoggiate al muro apparivano deserte, le ceste dei polli giacevano abbandonate in un angolo. Anche le gondole attraccate ai pontili di legno erano vuote. Una piccola folla variopinta era tutta raccolta verso il fondo, in prossimità della costruzione del Fondeghetto, e Marco avvicinandosi vide che molti sbirri erano impegnati a tenere a bada la gente.
Come apparve, le guardie gli aprirono la strada e Pisani, superato un ponticello, si trovò all’improvviso davanti al cadavere.
Corner giaceva supino sotto il portico, gli occhi iniettati di sangue sbarrati verso il cielo, le mani che cercavano spasmodicamente di allargare la corda che gli aveva stretto la gola. La costosa parrucca bianca era scivolata lasciando scoperta la testa rasata. Era in abito da sera; la maschera di rigore nel Ridotto era buttata in un canto.
L’avogadore si chinò, gli chiuse pietosamente gli occhi e sfilò la corda. Vide subito che era identica a quella che aveva ucciso Barbaro. La mise in tasca prima che andasse smarrita. Gli venne un groppo in gola: la morte, specie di un giovane, gli pareva sempre una tremenda ingiustizia, non sarebbe mai riuscito ad abituarsi. Ma quel cadavere significava che c’era un assassino in giro per Venezia che strangolava la gente, e toccava a lui fermarlo.
Non era necessario l’intervento di un medico per accertare le cause della morte; perciò, rivolgendosi alle guardie, ordinò: «Copritelo. Preparate una barella e portatelo a palazzo Corner. Potete andare a piedi, sono pochi passi, ma riparatelo dagli sguardi dei curiosi col suo mantello. E lasciate la corda nel mio ufficio».
Poi squadrò il segretario con attenzione: Tiralli vestiva di nero, aveva per sua natura un’aria ufficiale, era adatto per l’incarico più increscioso.
«Tu, Jacopo, vai a casa con loro» dispose. «Dovrai precederli per dare la notizia.»
Tiralli ne avrebbe fatto a meno volentieri, ma non osò replicare.
La gente cominciava a diradarsi, molti si dirigevano a San Marco o a Rialto a cercare conoscenti per divulgare l’accaduto. Fu in quel momento che Marco scorse il gondoliere di casa Corner, vestito con le insegne della famiglia, che singhiozzava seduto per terra. Gli si avvicinò. «Che cosa è successo?» chiese.
«Ohi, eccellenza, per poco non sono morto anch’io.» Le parole gli uscivano a fatica. Raccontò che la notte prima il padrone si era recato, come faceva ogni tanto la domenica, al vicino Ridotto, e lui aveva l’ordine di aspettarlo accanto alla gondola. Ma quando già si avvicinava l’ora solita del ritorno del padrone, qualcuno uscendo dalle tenebre gli si era scagliato addosso e gli aveva assestato una terribile legnata in testa. Si era risvegliato sul fondo della gondola, legato come un salame e imbavagliato. Altro non sapeva. «Quel povero padrone» continuava a singhiozzare, «lo hanno proprio voluto ammazzare!»
Era vero. Uno sbirro mostrò a Marco la borsa di Corner piena di ducati. Non si poteva parlare di rapina.
A quell’ora il Ridotto era deserto, solo qualche valletto si attardava a finire le pulizie. Pisani non era solito frequentare il locale, il gioco d’azzardo non lo aveva mai attirato. Perciò si guardò intorno con curiosità: ecco il luogo dove erano andati in fumo tanti patrimoni della Serenissima.
L’ambiente era lussuoso: il grande salone centrale dal soffitto a travi dipinte, che la sera era solitamente affollato, immetteva nelle altre stanze destinate ai diversi giochi d’azzardo; erano tutte tappezzate di damaschi preziosi e ornate di quadri e specchi, illuminate da numerosi lampadari di legno dorato a sei bracci.
Pisani aspettò vicino al tavolo del cassiere l’arrivo del direttore. Era quasi certo che non ne avrebbe ricavato informazioni utili, ma per scrupolo era meglio battere anche quella pista finché era recente.
Il direttore si era vestito in fretta e un lembo della camicia a merletti gli usciva dai calzoni. «Mi scusi, eccellenza.» E si inchinò davanti a Marco mettendosi goffamente a posto la biancheria. Era già informato del fatto. «Che disgrazia! Non posso crederci, a due passi da qui, e col suo gondoliere che lo stava aspettando appena fuori!» E intanto controllava in una grande specchiera se la parrucca era diritta. Era sui sessant’anni ma ci teneva ad apparire ancora giovane.
«Ripensi a ieri notte, signor Baldi» lo esortò Pisani. «Forse è successo qualcosa? Una lite di gioco, uno scambio di insulti? Questioni di donne?»
«Assolutamente nulla.» Baldi corrugò la fronte e sul viso la cipria evidenziò una ragnatela di rughe. «Mi ricordo con chiarezza che il povero Corner appena arrivato si è dedicato alla bassetta, poi è passato a giocare a faraone. Si divertiva, non ci sono state liti. Verso mezzanotte, se non mi sbaglio, è andato a mangiare qualcosa nella stanza dei rinfreschi. L’ho notato perché era senza maschera mentre sorbiva la cioccolata. Quindi ha ripreso a giocare. Donne? No, non Piero Corner. Una volta forse. Fino all’anno scorso ogni tanto portava qui una cortigiana. Ma da quando si è sposato, più nulla. Pareva che fosse molto innamorato della moglie. E poi da quando ha la bambina…»
«Ha una figlia?»
«Sì, è nata pochi mesi fa, lui la adorava, ne parlava con tutti.» A Baldi vennero gli occhi lucidi, e anche Marco si rattristò all’idea della piccola che non avrebbe mai conosciuto il padre. Cosa gli stava succedendo? Diventava sentimentale?
All’uscita dal Ridotto non se la sentiva di andare a Palazzo e si fermò in piazza San Marco. Alcuni gentiluomini, avvolti nei mantelli di colori vivaci, si scaldavano al pallido sole invernale mentre commentavano l’accaduto; molti allungarono il collo al suo passaggio e lo salutarono sperando che si fermasse a ragguagliarli. Anche gruppi di popolane chiacchieravano animatamente, indifferenti alle proteste dei ragazzini che tenevano per mano. Due o tre cagnetti latravano, impegnati a rincorrersi. Sullo sfondo della piazzetta emergevano le alberature di alcuni velieri che si dondolavano pigramente nelle acque del bacino di San Marco.
Pisani diede qualche moneta a un giovane perché andasse a cercare Nani ed entrò da Florian. A quell’ora era probabile che Daniele Zen avesse deciso di prendere un caffè, e infatti trovò l’amico a un tavolo in fondo alla bottega.
«Marco, cosa succede?» lo salutò l’avvocato.
Pisani lo informò minuziosamente sull’accaduto e gli illustrò le ultime indagini; la spedizione di Nani nel negozio della Zanetta suscitò l’ilarità di Zen.
«Ma adesso questo secondo omicidio pone tutto sotto una nuova luce, il caso è più complicato, perché è chiaro che le due morti sono connesse» concluse Marco.
«Ora puoi liberare quel ragazzo che gli sbirri hanno messo in carcere.»
«Già, non c’è più motivo di tenerlo lì. Credo proprio che sia un bravo giovane. Figurati…» e qui Marco esitò un attimo «…che venerdì è venuta la padrona a deporre in suo favore.»
«E com’è questa padrona?» chiese Daniele a cui non era sfuggita l’esitazione dell’amico. Lo conosceva bene.
«Oh, be’, una così, ha una tessitura di seta, la dirige da sola…»
«Giovane o vecchia? Bella o brutta?» incalzò Daniele che non gli toglieva di dosso i suoi occhi azzurri.
Marco era arrossito. «Giovane, sì, non brutta. Ma che ti importa?»
«Ti conosco, Marco. Gatta ci cova.»
«A dirtela tutta» si arrese Pisani, «è una donna che mi piace molto, ma l’ho appena vista.»
«E allora cerca di rivederla.» Daniele sapeva bene come si corteggia una signora.
«Non so come fare, non è una cortigiana, e neanche una nobildonna con cui saprei come ci si comporta. Non so nulla di lei. Ho paura di mostrarmi indiscreto» osservò Marco che in queste cose invece era timido.
«Ti stai infatuando di lei» considerò Daniele. «Sai cosa devi fare? Carica il ragazzo, quel Maso, sulla tua gondola e portalo al laboratorio.»
E fu così che gli sbirri di guardia alle Carceri rimasero a bocca aperta vedendo che l’avogadore Pisani faceva salire sulla gondola un ex indagato e si allontanava col suo gondoliere per destinazione ignota.