Capitolo 16

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La laguna era ancora immersa nel buio della notte quando la gondola di Marco attraccò a Fusina, là dove il canale del Brenta sfociava nel mare, e scaricò i suoi passeggeri all’approdo del Burchiello. Chiara era avvolta nella pelliccia e aveva le mani infilate in un manicotto, la vecchia Marta si era imbacuccata in un mantello grigio con il cappuccio e l’avogadore, per una volta, indossava i guanti.

«Mi raccomando, Nani» disse Marco rivolto al giovane gondoliere, «sono le sette del mattino. Prevedo che saremo di ritorno tra dodici ore. In giornata però hai un compito: devi cercare l’osteria di Biagio, il servo di Corner. Tutto quello che ti posso dire è che si trova dalle parti del fondaco dei Turchi. Poi avverti l’avvocato Zen che indaghi un po’ nei caffè per capire che tipo è Labia e dove lo posso incontrare senza insospettirlo. Ora che sono morti quei due, sarà nervoso. Sono certo che mi può raccontare qualcosa di interessante.»

«Sarà fatto, padrone» assentì Nani tutto serio. Si era sorbito da poco una risentita ramanzina per avere chiacchierato di Chiara con le donne di casa.

«Torna a prenderci questa sera alle sette, e dopo cena mi farai rapporto.»

«Oh povero me!» si rammaricò Nani. «Proprio questa sera dovevo andare a palazzo Priuli. Si festeggia il compleanno della cameriera della signora, la Caterina, quella biondina che ride sempre.»

«Vorrai dire che sei invitato nelle cucine…»

«Sempre palazzo Priuli è. Non fa lo stesso se vi racconto quello che ho scoperto quando torno a prendervi e vi riaccompagno a casa?»

Cosa replicare? Marco conosceva per sentito dire quelle feste nei locali dei domestici, dove si mangiava, cantava e ballava. La servitù si divertiva parecchio e non si lesinava sul vino. «D’accordo, Nani, ci vediamo qui alle sette, poi andrai per i fatti tuoi.»

«Viva il mio paròn» esultò il giovane. «È il migliore del mondo!» E vogò via dopo una scappellata all’indirizzo di Chiara.

 

I tre salirono ridendo sul battello. La vecchia Marta avrebbe voluto prendere posto nell’anticamera della servitù, ma Marco non glielo permise. Si accomodarono in uno dei salottini tappezzati di seta dove una vetrata permetteva la vista sull’esterno. La governante reggeva un cesto coperto da un tovagliolo a quadretti. «Sono le provviste per la colazione» spiegò. «In campagna non si sa mai cosa si trova da mangiare.»

«Lei è fatta così» sorrise Chiara. «Come una chioccia.» Si era scostata la pelliccia e alla luce tremolante delle lanterne appariva un po’ arrossata dal freddo, gli occhi brillanti e ridenti.

Marco avvertì un frullo al cuore. Avrebbe voluto baciarla, tenerla stretta fra le braccia. Chissà se anche lei… Meglio che ci fosse Marta, pensò. Chiara aveva una reputazione da difendere e Marta occupava il posto della madre che non c’era più. Sorrise, uno dei suoi sorrisi obliqui, un po’ amari.

Quest’uomo mi piace, pensava intanto Chiara, mi sto abituando alla sua compagnia. Chissà che intenzioni ha… non vorrei che rovinasse tutto. L’altra sera ho sbagliato a farlo entrare nella mia stanza, non voglio immaginare cosa avrà pensato; per fortuna c’era Marta in casa. Ma d’altra parte è un Pisani ed è anche un avogadore, uno dei personaggi più illustri di Venezia, anche se vive con semplicità. Cosa ci farebbe con un’artigiana come me? Capisco che lo interesso, ma sono una borghese, e un Pisani è sempre un Pisani. Meglio che non mi faccia illusioni…

 

Il Burchiello intanto si era affollato. Negli altri salotti del battello avevano preso posto un gruppo di sacerdoti che chiacchieravano fitto fitto e una dama elegante con la cameriera. Tre studenti dell’Università di Padova stavano abbandonati sulle poltrone, ancora assonnati. Un gruppetto di giocolieri, destinati a intrattenere i viaggiatori, si truccava in un angolo.

All’esterno, sull’alzaia, comparvero due grossi cavalli da tiro che furono aggiogati all’imbarcazione, e il Burchiello si mosse nella prima luce del giorno.

Marco ammirò, come ogni volta che percorreva il Brenta, il lavoro titanico degli antichi abitanti di Venezia che avevano rinforzato le rive con milioni di pali strappati alle foreste dell’entroterra. Il fiume non straripava più e le paludi che lo fiancheggiavano erano diventate fertili campi.

Il paesaggio invernale aveva una sua severa bellezza. Pioppi e acacie rispecchiavano sull’acqua i rami scheletrici, i salici si curvavano a sfiorare la corrente. Le bacche rosse del biancospino erano una nota di colore nella campagna dormiente.

«Eccoci alla chiusa di Moranzani» osservò Chiara quando le porte di legno sul fiume tirate da grosse funi si chiusero alle spalle del battello. L’acqua del bacino prese a salire rapidamente. Marta, che aveva fatto quel viaggio solo una volta sul barcone notturno destinato al popolo e alle merci, guardava tutto a bocca aperta.

Il Burchiello riprese il viaggio tra le anse del fiume e presto cominciarono ad apparire le ville, splendide costruzioni che da un paio di secoli la nobiltà veneziana si faceva edificare a ridosso dell’acqua, nelle vicinanze dei possedimenti agricoli.

«Ecco villa Foscari, la Malcontenta» osservò Marco. «Non è grande ma è tra le più armoniose delle oltre quaranta che costeggiano il fiume. Anche noi Pisani ne abbiamo una: ti ci porterò.»

«Peccato che in questa stagione le ville siano chiuse» replicò Chiara, «perché non è tempo di villeggiatura. So che dentro sono magnifiche.»

Marta tossicchiò. Si mise a osservare lo spettacolo dei giocolieri che lanciavano in alto e riprendevano cinque palle rosse alla volta. Poi toccò a un cantante che si esibì in una vecchia canzone veneziana accompagnandosi con la chitarra.

A Oriago il battello fece sosta all’osteria Sabbioni, proprio sulla riva, e Marco e Chiara scesero a scaldarsi con un bicchiere di vino. Il locale era vasto e buio, col soffitto a travi. Un allegro fuoco ardeva nel camino e sotto la cappa erano appesi alcuni calderoni da cui usciva un profumo invitante.

«Mi piace viaggiare con te» osservò Marco carezzando la mano di Chiara. La ragazza non si ritrasse. «Lo sai però» continuò, «che quando arriveremo a destinazione conto su di te per far parlare Lucietta Segati. Naturalmente io non dirò chi sono. Mi presenterò come il capitano degli sbirri.»

Chiara sorrise. «Tu uno sbirro! Non ci crederà nessuno! E io chi dovrei essere?»

«Mah, un’amica, la mia fidanzata…» e la guardò con intenzione. Chiara sotto quello sguardo arrossì e Marco si sentì di nuovo un frullo al cuore. «L’importante è che tu aiuti la ragazza a raccontarmi ciò che le è successo in casa Corner. Potrebbe essere la giovane che è apparsa nella tua visione.» Era la prima volta che Marco alludeva alla serata in casa di Chiara.

«Ma allora un poco ci credi» osservò lei. «E, a proposito, lo sai che hai dimenticato l’arma del delitto da me?»

«La corda, sì, passerò a prenderla.»

Il viaggio riprese. Subito dopo Oriago apparvero villa Mocenigo, appena costruita, e la grande villa Gradenigo affrescata da Benedetto Caliaris, fratello del più celebre Veronese. Poi villa Widmann e villa Valmarana con la splendida rimessa per barche, la barchessa, luogo di feste campestri. Un branco di quattro oche passeggiava sull’alzaia dondolandosi pomposamente.

Il Burchiello sostò nuovamente mentre l’acqua si alzava nella chiusa di Mira, oltre la quale le costruzioni si susseguivano. «Quella» enumerava Marco accennando a destra, «è villa Contarini. Di fronte c’è la fabbrica che produce candele per tutta Venezia. Poi c’è villa Corner, vicino a un monastero di carmelitani. L’altra è villa Fini ed ecco villa Velluti, che appartiene al famoso cantante sopranista, e più oltre si vede villa Grimani.»

Erano giunti a Dolo, la loro meta, e il Burchiello accostò alla riva davanti alla locanda La Posta dove era previsto il cambio dei cavalli. Chiara svegliò Marta che si era appisolata ed entrarono nel locale. Marco avrebbe voluto ordinare il pranzo ma la governante fu irremovibile: «Chissà cosa ci darebbero da mangiare! Basta ordinare il vino che il resto l’ho portato io». E si diede da fare a spacchettare polpettone ai pinoli e arrosto di vitello.

Marco mangiò di gusto. «Lo sai, Marta, che la tua cucina non ha niente da invidiare a quella della mia Rosetta?» osservò.

«Ah, eccellenza, vuole farmi un complimento. Io sono una vecchia governante, non mi metto a competere con la cucina di casa Pisani» si schermì. Ma tra sé stava considerando che quel patrizio era molto simpatico. Se solo avesse saputo che intenzioni aveva con la sua Chiara…

Con una carrozza a nolo attraversarono il paese, costeggiando i mulini ad acqua e lo squero, il piccolo cantiere dove si costruivano le imbarcazioni fluviali. Giunsero nel centro della cittadina, davanti alla chiesa dall’alto campanile.

Al prete che si fece loro incontro nel buio della navata Marco chiese della famiglia Segati.

«Sono miei parrocchiani» ammise il sacerdote. «L’anno scorso hanno cambiato casa. Prendete quel sentiero tra i campi, dietro la chiesa, e proseguite fino a un canale. Procedete a destra per mezzo chilometro e troverete la casa.»

 

Era una piccola casa colonica isolata in mezzo ai campi, affiancata da una stalla sovrastata da un granaio. Sull’aia c’era silenzio. Un vecchio era chino su un filare di cavoli nell’orto accanto all’edificio.

Marta rimase vicino alla carrozza mentre Marco e Chiara attraversavano l’aia inondata da un pallido sole ed entravano in cucina dalla porta aperta.

«E voi chi siete?» li apostrofò un uomo seduto davanti a un fiasco di vino. Indossava casacca e calzoni lisi di fustagno, era giovane ma col naso gonfio e arrossato dei bevitori abituali. I capelli scarruffati gli cadevano sugli occhi.

«Sono un capitano delle guardie» si presentò Marco. «Devo vedere Lucia Segati.»

«Cosa ha combinato quella stupida? Deve essere nella stalla; è lì da almeno un’ora solo per cambiare la lettiera alle bestie. Crede di fare ancora la cameriera in un palazzo, quella sfaticata, sempre col suo marmocchio attaccato alle gambe.»

Marco e Chiara si scambiarono uno sguardo interrogativo mentre riguadagnavano l’aia. «Almeno è viva» osservò Marco a voce bassa. In quel momento usciva dalla stalla una donna di età indefinibile in avanzato stato di gravidanza. Reggeva un forcone con una mano e con l’altra trascinava un bimbetto riluttante di circa due anni.

«Sono io Lucia Segati» si presentò. «Quello in cucina è mio marito.» Vista da vicino si capiva che era giovane, ma i segni della fatica avevano scavato il suo volto. Una crocchia di capelli neri era malamente fermata in cima alla testa. «Per servirvi, eccellenza» aggiunse accennando un inchino come aveva appreso in casa Corner.

Quali tristi vicende avevano trasformato quella che doveva essere stata una graziosa cameriera in una donna sciatta e invecchiata anzitempo?, si domandò Marco. «Dobbiamo parlarti di quello che ti è capitato in casa Corner» esordì. «Non c’è un posto tranquillo?»

«Lucia!» si udì la voce alterata del marito. «Ho finito il vino! E non perdere tempo, che c’è da preparare il pastone per le galline.»

La ragazza si affrettò goffamente in cucina a servire l’uomo, poi guidò gli ospiti nell’orto, tra i filari. Il vecchio si avvicinò a loro senza dire parola. «Mio padre» lo presentò Lucia. «È stato lui a insistere perché dopo la disgrazia mi sposassi.» Sospirò.

«Quando mi è tornata a casa era disonorata, incinta» si intromise il vecchio. Si capiva che doveva essersi ripetuto la scusa più e più volte. «Si è fatto avanti questo Momo, era un bracciante, uno abituato a lavorare… ho creduto di fare bene.»

«Vogliamo cominciare dall’inizio?» propose Marco che non ci capiva niente.

Chiara lo interruppe. «Quando sei tornata a casa?» chiese rivolta a Lucia.

«È stato più di due anni fa, a gennaio del 1750; ero incinta.» Abbassò lo sguardo. «Eravamo disperati. Però i Corner mi avevano dato una somma per farmi la dote.»

«Io ero stato a Venezia» la interruppe il padre. «Volevo che quel disgraziato che l’aveva sedotta la sposasse, come si usa da noi. Non mi hanno ricevuto, quei superbi. Ho anche inveito sotto casa del compare, quel Barbaro. Anche lì nessuno mi ha dato retta.»

Marco sorrise all’idea che il primogenito dei Corner acconsentisse a sposare una cameriera.

«E della dote che avete fatto?» insistette Chiara. Voleva mettere i due a loro agio prima di cominciare con le domande più delicate.

«Erano un bel po’ di ducati» riprese il vecchio. Si grattò la testa e allungò una mano per fare una ruvida carezza al bambino che si teneva stretto alla gonna lacera della madre. «In primavera si vedeva già che la Lucia era incinta, le chiacchiere giravano, e si è presentato quel Momo. Mi ha proposto di sposare la ragazza e di dare il suo nome al bambino. Lui era un bracciante povero in canna, ma con i soldi della dote potevamo prendere in affitto questo terreno che è dei padri Barnabiti e comprare anche gli attrezzi per lavorarlo e le bestie. Io ho convinto la Lucia e si sono sposati.»

«Bel matrimonio!» commentò la ragazza. «Appena ammogliato, Momo ha smesso di lavorare e non fa che bere. A mio padre e a me tocca tutto il lavoro, anche in queste condizioni…» E si toccò il ventre prominente. «E al bambino mai una carezza.»

«Luciaaa…» si udì nuovamente la voce roca di Momo. «Non stare a perdere tempo! C’è da lavorare!»

Marco si voltò e si diresse a passo deciso in cucina. «Sentimi bene» esclamò afferrando Momo per la casacca e alzandolo di peso dalla seggiola. «Tu stai ostacolando il lavoro della giustizia e per questo io posso portarti in prigione.» Il giovane sbiancò e si mise a tremare. «Ma non è tutto: se vengo a scoprire che campi a spese della dote di tua moglie, che ti ubriachi e fai lavorare lei e che tratti male lei e il bambino, in base alla legge 348 del Maggior Consiglio io ti spedisco a remare sulle galere per tutta la vita. E ricordati che d’ora in avanti sarai tenuto d’occhio senza che tu te ne accorga!»

Aveva parlato a voce alta e Chiara, quando le fu di nuovo vicino, gli rivolse uno sguardo interrogativo.

«Ho solo inventato una legge» spiegò Marco a bassa voce ridacchiando. «Non c’è ma dovrebbe esserci, e vedrai che in ogni modo funzionerà.»

Era tempo di entrare in argomento. «In casa Corner cosa ti è successo esattamente?» chiese Chiara.

La ragazza si mise a piangere. «Perché siete venuti ora a farmi queste domande?»

Toccò a Marco raccontare della morte dei due giovani e delle indagini in corso.

«Non penserete che siamo stati noi…» implorò il vecchio atterrito.

«Assolutamente no» lo rassicurò Pisani, che invece ci aveva pensato. «Ma tutto quello che emerge sul comportamento di Corner e Barbaro ci può essere utile. Quindi» concluse rivolto a Lucia, «vorremmo conoscere la tua storia.»

«Morto…» mormorava Lucia come tra sé. «Piero Corner è morto.» E istintivamente accarezzò il bambino.

In quel momento, sul volto del piccolo, Marco notò gli zigomi alti e il naso aristocratico di Francesca Corner. Ecco il figlio maschio che Piero non ha avuto da sua moglie, gli venne da pensare.

«Era da un po’» continuò Lucia asciugandosi una lacrima, «che il signorino Piero mi aveva messo gli occhi addosso. Allungava le mani quando passavo, mi bloccava in cucina quando non c’era nessuno e cercava di baciarmi, cose così. Io non gli ho mai dato retta; sapevo che certi padroni si approfittano delle ragazze e bisogna stare attente. La sera mi chiudevo a chiave in camera. Ma una notte, era metà novembre, ho sentito delle voci che ridevano fuori dalla porta; ho riconosciuto il signorino Piero e l’amico Barbaro, sembravano ubriachi. Poi la chiave che girava nella toppa: ne avevano trovata una che andava bene. Mi sono rifugiata sotto le coperte…» Lucia scoppiò a piangere.

Chiara la strinse a sé in uno slancio spontaneo. «Vuoi che ne parliamo fra noi?»

«No, no, ora mi passa. Ero sola contro tre, perché poi è arrivato anche Biagio, che mi ha sempre fatto un po’ paura. “Sai cosa voglio, te l’ha raccontato la mamma cosa fanno gli uomini alle puttanelle come te?” ha detto Corner. Io non sapevo niente… mi sono messa a strillare, ma Biagio mi ha chiuso la bocca mentre Barbaro mi spogliava.» Al ricordo Lucia si era fatta rossa, ma continuò coraggiosamente. «Poi Corner mi è venuto addosso mentre gli altri mi tenevano. Io piangevo. “E mettiti in mente una cosa” mi ha detto alla fine, “se vai a lamentarti in giro, specie con mia madre, ti faccio trovare in camera dei gioielli e ti spedisco in prigione come una ladra.”»

«È stata l’unica volta?» chiese Marco.

«Purtroppo no» ammise la donna abbassando gli occhi. «Da quel momento Corner si è messo a farmi visita da solo ogni tre o quattro notti. Io ero terrorizzata. Poi quando mi sono accorta di essere incinta non ce l’ho più fatta. “Chissà di chi è il bambino” ha commentato lui. “Tutti sanno che di notte esci per andare coi gondolieri.” Così mi sono fatta coraggio, sono andata dalla padrona e le ho raccontato tutto.»

E brava la signora Corner, pensò Marco, che diceva di non sapere nulla. «E lei?» chiese ad alta voce.

«La signora non è sembrata troppo meravigliata. Mi ha fatto un po’ di predica come se fosse colpa mia, poi mi ha invitato ad andarmene con un gruzzolo. Così mi sono accontentata di Momo, ma ormai non fa che bere.»

«Sono sicuro» la confortò Marco, «che da ora in avanti si comporterà meglio.»

«Tu, Lucietta…» era Chiara che si rivolgeva d’improvviso alla ragazza, «…hai mai posseduto un mantello rosso, rosso scarlatto?»

Lucia spalancò gli occhi alla strana domanda. «Io un mantello di scarlatto? No, mai. Costano troppo per me.»

Al ritorno sull’aia trovarono Momo intento a rovesciare nel letamaio la paglia sudicia prelevata dalla stalla. «Sei stanca, Lucia» apostrofò la moglie. «Vuoi sederti in cucina mentre io finisco il lavoro?»

Marco gli indirizzò un’occhiata tagliente. «Ricordati che ti faccio controllare. Al primo sgarro ci vediamo in carcere!»