Capitolo 9
Palazzo Corner parato a lutto spiccava da lontano sul Canal Grande. Drappi di velluto nero bordati d’oro pendevano dai finestroni rinascimentali e si riflettevano oscillanti nell’acqua in scure pennellate. Il grande stemma di famiglia che sovrastava la porta sul canale era velato anch’esso da un paramento nero.
Accompagnato da Daniele Zen, Marco sbarcò dalla gondola e salì i gradini che portavano attraverso una triplice arcata al grande atrio a terreno pavimentato di marmi variopinti e arredato con due semplici cassapanche.
Aveva scelto le prime ore della mattina per far visita alla famiglia del defunto allo scopo di evitare la folla degli invitati che avrebbe invaso il palazzo dopo le esequie.
«Tu, Nani, sai quello che devi fare» bisbigliò al gondoliere che si affrettava in direzione delle stanze di servizio. «Andiamo» aggiunse rivolto a Zen mentre affrontavano lo scalone.
Al primo piano li riconobbe il maestro di casa che indossava una livrea nera e fece loro strada attraverso una teoria di sale. Gli ambienti spaziosi, ideati nel Cinquecento dal Sansovino, conservavano l’austerità di quel secolo: alti soffitti a travi dipinte, arredi severi, pareti coperte da enormi arazzi. I finestroni erano stati schermati in segno di lutto e solo qualche candelabro illuminava il cammino.
Nel salone centrale era allestita la camera ardente. Piero Corner giaceva su un solenne catafalco dorato al centro della stanza. La fiamma di quattro grossi ceri scavava ombre danzanti sul volto immobile. Su una panca a destra del feretro una fila di suore salmodiava le preghiere del rosario, un gruppo di visitatori bisbigliava accanto a una finestra, due anziane cameriere singhiozzavano a testa bassa addossate a un tavolo da muro.
Marco e Daniele si accostarono alla salma raccogliendosi in meditazione. Il Corner, composto nella pace della morte, appariva un bel giovane dai lineamenti regolari, abbigliato in una velàda di seta blu ricamata d’argento; una mano pietosa aveva rialzato il merletto della camicia candida fino a nascondere il segno violaceo che la corda dell’assassino aveva impresso sul collo.
Un altro giovane in quel momento stava attraversando la sala per raggiungere il catafalco. Zoppicava leggermente. Marco lo riconobbe: era Dario Corner, il fratello minore del morto, molto somigliante a Piero ma di corporatura più massiccia, con un viso molle di colorito pallido, malsano. Viste da vicino spiccavano rossastre sul volto le cicatrici lasciate da un vaiolo giovanile. Aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto molto.
Marco e Daniele gli si avvicinarono mormorando frasi di circostanza. Lo abbracciarono a turno.
«Che tragedia!» li interruppe Corner tergendosi gli occhi con un fazzoletto di pizzo. «Come faremo ora senza di lui? Era il capo della famiglia: nostro padre è morto da qualche anno. Piero si era sposato da poco, aveva una bimba di due mesi. Mia cognata è distrutta. Ma lei, Pisani» soggiunse guardando Marco con diffidenza, «è qui per le indagini sull’omicidio?»
«Sono qui per rendere omaggio alla famiglia» precisò Marco, «e vorrei porgere le mie condoglianze anche a sua madre e alla vedova.»
«Mia madre non è in grado di ricevere nessuno, la deve scusare, un colpo così, e all’improvviso… Forse domani se la sentirà di vederla. Però mia cognata è in camera con la bambina e la vostra visita le farà piacere.» Fece cenno a un servitore di annunciare gli ospiti. «Scusatemi se non vi accompagno» aggiunse. «Una brutta caduta mi rende doloroso salire le scale.» E indicò la fasciatura a un ginocchio.
Eleonora Corner, già vestita per il funerale, il bel viso contratto dal dolore, li accolse nella grande stanza da letto del secondo piano. Era accanto alla culla dove la sua piccola, rosea e ignara, dormiva placida fra i merletti. Al vederli proruppe in singhiozzi, appena soffocati dal fazzoletto di trina bianchissima che reggeva in mano e contrastava col nero dell’abito.
«Eccellenza Pisani» esclamò levando gli occhi gonfi di lacrime, «lei deve trovare chi ha fatto questo. Eravamo così felici, io e Piero. Chi può avere voluto distruggere la mia famiglia?»
Marco era scosso. Il dolore di quella giovane donna era autentico e gli risvegliava i ricordi della sua tragedia. Anche Eleonora, come sua moglie Virginia, veniva da una ricca famiglia di Padova. Era appena uscita dal collegio quando Corner l’aveva conosciuta e sposata, e da allora, come aveva saputo, si era trasformato in un marito irreprensibile.
«Lei sa se aveva nemici, qualcuno che lo minacciasse?» la interrogò col maggior tatto possibile.
«No, era benvoluto da tutti, anche dai domestici che lo piangono come fosse stato un loro parente…» rispose Eleonora con un filo di voce.
«Qualche amico con cui aveva rotto i rapporti? Un servitore licenziato?» La domanda era apparentemente fuori luogo, ma Marco pensava al racconto della Zanetta, la venditrice di abiti usati della casa di Barbaro. Lei aveva parlato di una ragazza sedotta da Piero alcuni anni prima e rispedita a casa. La serva di Barbaro, a sua volta, ricordava un contadino che aveva proferito minacce all’indirizzo del barnabotto. E c’era la corda, la stessa corda grossa e sfilacciata che aveva strangolato entrambi gli uomini e quindi collegava i due delitti. Ma la storia della servetta era avvenuta prima che Corner si sposasse. Eleonora non ne sapeva nulla.
La donna infatti scosse la testa riprendendo il suo pianto silenzioso.
Intervenne Daniele. «Suo marito, signora, aveva degli affari in corso, per esempio un grosso acquisto che interessava anche qualcun altro? Oppure non le ha mai parlato di sospettare qualche conoscente di passare informazioni riservate a un’ambasciata straniera? Aveva rapporti con qualche turco?» La Serenissima, indulgente verso molti tipi di reati, era severa nei confronti delle spie.
«No! Piero mi raccontava tutto e la sua vita non aveva ombre, non c’erano rivali, non conosceva segreti scottanti, me ne avrebbe parlato. È stato ucciso per derubarlo, ne sono sicura, e voi dovete trovare chi è stato.»
Marco e Daniele si accomiatarono. Nessuno dei due le ricordò che la borsa di ducati trovata addosso al cadavere escludeva una rapina.
Fuori dal palazzo, nella calle e nel vicino campo San Moisè, si stava già radunando la folla che avrebbe accompagnato la salma alla sepoltura nella chiesa dei Santi Apostoli, dove era collocata la tomba di famiglia.
I Corner avevano fatto le cose in grande. Stavano arrivando i rappresentanti delle Corporazioni delle Arti e quelli delle Scuole di carità con i gonfaloni; erano già presenti le delegazioni dei principali conventi e i preti delle parrocchie vicine. C’era qualche magistrato in toga e Marco riconobbe alcuni membri di famiglie patrizie e numerosi senatori. Erano tutti in attesa di prendere posto sulle gondole del corteo funebre che, parate a lutto, stavano convergendo sul palazzo.
In un angolo del campo si erano dati convegno uomini e donne del popolo decisi a godersi lo spettacolo, mentre alcuni mendicanti si erano posizionati vicino alla porta di servizio in attesa delle donazioni che la famiglia avrebbe fatto in memoria del defunto.
Salutando a cenni i conoscenti, Marco e Daniele si disposero ad aspettare Nani di ritorno dalla sua missione nei quartieri della servitù.
Il gondoliere aveva trovato senza fatica la strada delle cucine. Lì era tutto un fervore di attività. Nel camino più grande si arrostiva allo spiedo un grosso cinghiale sotto le cure attente di un garzone che lo ungeva a ogni giro di manovella con un ciuffo di penne d’oca. Sul lungo tavolo di legno alcune servette spiumavano pernici e capponi, alcuni galletti già spennati pendevano dal soffitto attaccati a uncini. Due camerieri lucidavano energicamente alcuni grandi piatti d’argento.
In una stanza adiacente, dalle pareti ridondanti di padelle e calderoni di rame, il capo cuoco disponeva su una teglia la pasta dei biscotti da cuocere al forno, mentre gli aiutanti squamavano grossi pesci su una mensola di marmo sotto la finestra.
Nani scorse subito il suo uomo: era il gondoliere, vestito con la livrea della casata, seduto mogio in un angolo, con la testa fasciata. Basso e tarchiato, aveva un viso tondo cosparso di efelidi.
«Salute a te» si presentò. «Sono il domestico dell’avogadore Marco Pisani, che è in visita dai padroni. Ci sarebbe qualcosa da bere?»
«Elvira, porta da bere!» gridò il gondoliere a una giovane che, scorgendo Nani, si precipitò sorridente con un bicchiere di vino.
«Chi è questo bel ragazzo, Beppino?» domandò ardita.
«Eri tu che accompagnavi il povero Corner?» lo apostrofò Nani senza darle retta. «Che cosa ti è successo?»
«Ohi ohi, mi fa ancora un male…» sospirò Beppino accarezzandosi la testa. «Cosa vuoi che ti dica. Ero lì, come sempre la domenica, che era l’unica sera della settimana che il padrone andava al Ridotto. Saranno state le due di notte, io ero vicino alla gondola, c’era buio pesto perché la luce del lampione non raggiunge la riva.»
«E allora?»
«Allora a un certo punto ho sentito un fruscio vicino, mi sono voltato, e mi è arrivata una legnata in testa. Ohi, povero me…»
«E dopo?»
«Dopo mi sono svegliato sulla gondola, legato e imbavagliato come un salame, e ho dovuto aspettare fino alla mattina che mi trovassero gli sbirri. Oh, povero il mio padrone!»
«Era da molto che lavoravi per lui?»
«No, è da quando si è sposato. Il gondoliere di prima è stato licenziato dalla signora madre, e sono arrivato io.»
«Perché è stato licenziato?» incalzò Nani.
«Chi lo sa? Io prima non c’ero. Quello che sa tutto ciò che succede in casa è Matteo, quel vecchio seduto vicino al camino più piccolo.» Nani scorse un uomo anziano in abito da cameriere, con una testa di capelli bianchi bene acconciati che rimestava in un calderone sul fuoco.
«Però tu» continuò, «non avevi notato niente di strano, qualcuno che seguiva il tuo padrone, magari anche i giorni precedenti?»
Beppino si stava stancando dell’interrogatorio. «Ma l’avogadore sei tu o il tuo padrone?» si risentì. «Vuoi lasciarmi in pace?» Si alzò in piedi e si versò un bicchiere di vino.
Nani cambiò prontamente registro appena l’altro si fu di nuovo seduto. «Tu, Beppino, hai intenzione di servire ancora in questa casa? Perché a me non dispiacerebbe lavorare per i Corner. Con il mio padrone non posso dire di trovarmi male, ma devo trottare da mattina a sera.»
«A dire la verità, con quello che è successo mi è passata la voglia di stare qua. I Corner sono brava gente, non dico di no, ma ormai, visto che il padrone Dario ha già il suo gondoliere, io dovrei accompagnare le signore, e la cosa mi piace poco.»
«Invece a me piacerebbe» rise Nani. «Anche se le signore sono in lutto, andranno lo stesso a visitare le amiche, che di sicuro hanno cameriere carine… Ma il morto, che tipo era?» insistette.
«Be’, tutto casa e famiglia» continuò Beppino. «Però era un tipo allegro, con la battuta pronta, ma ultimamente era cambiato.»
Nani fu pronto a cogliere la palla al balzo. «Cambiato come? Da quando?»
«Da poco, dalla settimana scorsa, quando è morto quel suo amico, quel Barbaro. Era rimasto impressionato. Io avevo un bel dirgli che era stato uno sbaglio di persona, che a Venezia non ci sono assassini in giro per le calli, ma lui aveva proprio paura. Sembrava che se lo sentisse. Ed è morto allo stesso modo…»
«Non ti ha detto di chi aveva paura?»
«Non ero mica il suo confidente. Ma tu chi sei? Uno sbirro?»
Nani capì che da Beppino non c’era altro da sapere e si accomiatò. Lo investì un acuto odore di spezie quando passò vicino al tavolo dove un garzone pestava nel mortaio. Si avvicinò al camino davanti al quale il vecchio Matteo continuava a rimescolare nel calderone.
«Cosa bolle lì dentro?» esordì.
Il vecchio si voltò e gli piantò in faccia due occhi chiari acuti e curiosi. «Sono le fave che si distribuiscono ai poveri in occasione delle cerimonie funebri. Ma tu chi sei?»
Nani si presentò. «Parlavo adesso con Beppino» continuò. «Lui vuole andare via e a me non dispiacerebbe lavorare in questa casa.» Il pretesto era buono per fare domande. «Che gente sono i padroni?»
«E chi lo sa? Adesso qui tutto cambia» sospirò il vecchio avvicinando una sedia per Nani. «Io ero il cameriere personale del vecchio padrone, che è morto sei anni fa. Allora si rigava diritto. Il figlio Piero, morto il padre, si è dato alla bella vita, e sua madre lo proteggeva. Ha un caratterino, la signora Francesca… Mi ha relegato qui in cucina perché ogni tanto mi permettevo di rimpiangere i bei tempi di suo marito. So io cosa mi è toccato di vedere… meglio non parlare!»
«Che spreco mettere in cucina lei, una persona così distinta» lo adulò Nani.
«Eh, piuttosto che licenziarmi e campare in un ospizio… Non sono più giovane. Chi mi prenderebbe?»
«Ma cosa faceva il povero Piero? Chi frequentava? Forse l’ha ucciso qualche giovinastro del suo giro?»
«No. Da quando era sposato, ed è ormai un anno, aveva messo la testa a posto.»
«E prima?»
Matteo sedette sulla panca davanti al fuoco e si deterse il sudore con un fazzolettone. «Eh, prima… prima beveva, giocava e andava a donne. E non si accontentava delle cortigiane. Non si salvava nessuna. Ostesse, mogli di negozianti, perfino le cameriere di casa.» Esitò impercettibilmente. «Ci sono state anche brutte storie…» Scosse il capo. «Aveva fatto comunella col suo gondoliere, un certo Biagio, un cattivo soggetto, che la signora ha licenziato quando Piero si è sposato. E con lui c’erano sempre altri due.»
«Uno di loro non era quel Barbaro che è stato ucciso proprio come lui giovedì scorso?»
Matteo lo scrutò di nuovo con curiosità. «Ma come sei informato! Perché ti interessa tanto?»
«Si fa per parlare, sono curioso. Poi è una bella coincidenza che siano morti allo stesso modo.»
«Però ormai non si frequentavano più; sarà stata appunto una coincidenza.»
«E quell’altro, quel Biagio, come è finito?» incalzò Nani.
«Per quanto ne so, sua madre aveva un bàcaro vicino al fondaco dei Turchi. Starà con lei.»
«Ma qualche anno fa non c’è stata una storia con una cameriera?» Nani doveva scoprirsi per carpire al vecchio le informazioni che Pisani aspettava da lui.
«Ne sai più di me.» Matteo lo scrutò con sospetto, poi scrollò le spalle e si alzò per dare un’altra mescolata, quindi versò due bicchieri di bianco. Ne offrì uno a Nani e scolò l’altro in una sola sorsata. «Che caldo a stare accanto al fuoco! Tu vuoi sapere della cameriera. Non dovrei dire niente perché la padrona ha messo tutto a tacere alla svelta, ma visto come mi hanno trattato… Sì, c’è stata una storia. Lei si chiamava Lucietta Segati, era di Dolo; sarà stato tre anni fa. Era proprio prima di Natale. Veniva sempre in cucina a piangere, diceva che il padrone si approfittava di lei. Cose che capitano. Poi un bel giorno è scomparsa, sarà tornata a casa.»
«Allora la morte del padrone potrebbe essere stata una vendetta d’onore.»
Il vecchio scosse il capo. «Dopo tre anni? Poi Lucietta era figlia di contadini. Come vuoi che i suoi parenti siano capaci di venire a Venezia e di uccidere con tanta abilità? Sono poveracci, abituati a subire abusi. Si saranno rassegnati presto.»
Li interruppe la giovane Elvira che recava un vassoio. «Chiacchieri con tutti e non con me» osservò guardando Nani con malizia. «Vuoi un dolce?»
Nani si infilò in bocca un pasticcino. «Sai com’è, sto aspettando il mio padrone.»
«E si informa perché vuole venire a lavorare da noi» tagliò corto Matteo.
«Ma adesso chi eredita?» continuò Nani appena la ragazza si fu allontanata. «Chi sarà il nuovo padrone?»
«Naturalmente il signor Dario. Gli è andata bene.»
«Perché?»
«Per via della legge. Suo fratello ha avuto una bambina due mesi fa, e nelle famiglie nobili le femmine come si sa non ereditano se c’è un parente maschio. La piccola avrà la sua bella dote, ma il patrimonio va allo zio.»
«Già. E che tipo è questo Dario?»
«Un buono a nulla. Ha già avuto la sua parte di eredità alla morte del padre, e non era poca cosa. Ma ha la mania di fare investimenti come i nobili di una volta. Solo che non è capace. Pare che si sia mangiato una bella fetta del suo patrimonio. A noi servi queste cose non le dicono, ma ogni tanto qualcuno ha sentito la vecchia signora urlargli dietro insolenze.»
Interessante, meditò Nani. Si era fatto tardi e Pisani e Zen lo aspettavano. Si congedò da Matteo, buttò un bacio a Elvira che stava lavando alcuni recipienti e raggiunse il padrone fuori dal palazzo.