Capitolo 5
La trionfale porta dei Leoni e le due torri a guardia del canale si stagliavano in tutta la loro orgogliosa magnificenza contro il cielo azzurro pallido quando, la mattina di venerdì, lasciata la gondola legata a un palo, Marco seguito da Nani si accinse a entrare all’Arsenale.
Si fermò un attimo a contemplare i leoni di marmo posti a guardia del cancello, ricordando con rammarico che erano arrivati dalla Grecia quando la potenza della Serenissima era al culmine e le sue navi dominavano i mari.
Era dall’Arsenale che uscivano le galeazze, le cocche, le galere che arricchivano Venezia coi prodotti dell’Oriente e la difendevano dai nemici. Nel 1571, alla vigilia della battaglia di Lepanto, che grazie alle navi veneziane salvò l’Europa cristiana dall’invasione turca, i cantieri, i magazzini, gli uffici, gli specchi d’acqua dell’Arsenale occupavano ventisei ettari e vi lavoravano tremila operai specializzati, oltre a una numerosa manovalanza generica. In quell’anno, in vista dello scontro fatale, si produssero cento galee in due mesi, quasi due al giorno, complete di vele, sartiame, cannoni, ancore e rifornimenti per gli equipaggi.
Ma da quando la scoperta dell’America aveva spostato il baricentro dei traffici sull’Atlantico, favorendo la marineria dei paesi che vi si affacciavano, era cominciata la decadenza. La pace del 1718 aveva decretato per Venezia la perdita della Morea, e anche sull’Adriatico il primato dei traffici le era ormai conteso dall’Austria, la potenza emergente, che dal porto di Trieste esercitava una spietata concorrenza.
Di conseguenza, di nuove navi non se ne costruivano quasi più, ma l’Arsenale, che si occupava della manutenzione e dell’approvvigionamento della flotta mercantile e militare, era sempre il cuore della Repubblica, impiegava ancora millequattrocento operai e il suo accesso era sorvegliatissimo.
Infatti un arsenalotto di guardia si fece subito incontro ai visitatori ma, riconosciuto l’avogadore Pisani, si affrettò ad aprire il cancello.
«Tu, Nani, sai cosa fare; informati dalle guardie su come raggiungere le Corderie. Io» disse Marco rivolto all’arsenalotto, «desidero conferire con il patrono Alvise Cappello.» I patroni erano i patrizi che, insieme ai Procuratori e all’Ammiraglio, formavano il Collegio dell’Arsenale, il massimo organo di controllo.
Mentre Nani svoltava a sinistra costeggiando il magazzino delle vele, Marco si fermò un attimo a contemplare la Darsena Vecchia fiancheggiata dalla sfilata dei cantieri coperti, che ospitavano alcuni vascelli in riparazione, e delimitata in fondo da un ponte apribile che immetteva nell’ampia Darsena delle Galeazze.
Conosceva la strada ed entrò senza esitare nell’edificio del Magnifico Collegio; attraversò la sala d’armi al pianterreno e salì fino agli uffici della direzione senza che nessuno osasse fermarlo. Trovò quasi subito la stanza del suo amico Cappello.
«Che onore!» lo salutò il patrono alzandosi dalla sua ampia scrivania e stringendo l’amico in un abbraccio. Di media statura, un po’ sovrappeso, aveva sguardo acuto e sorriso ironico. «Non ci vediamo da molto tempo. Qual buon vento ti porta fra noi poveri lavoratori del mare?»
«Avrai saputo dell’uccisione di quel poveraccio di Marino Barbaro…» spiegò Marco troncando di netto i convenevoli.
«Sì, ieri mattina. A Venezia le notizie viaggiano in fretta: anche se Barbaro non era una persona che conta, era pur sempre un patrizio del Maggior Consiglio. Ma l’Arsenale cosa c’entra?» si incuriosì Cappello.
Marco si liberò del mantello ed estrasse da una cartella il fascio di fogli trovati a casa del morto. «Purtroppo ho bisogno di te per un’indagine molto delicata. Nulla di quello che ora ti dirò deve uscire da questa stanza prima che le mie ricerche siano finite.»
«È qualcosa che riguarda la sicurezza dello stato?» Cappello si era fatto serio.
«Potrebbe… Ora ti mostro qualcosa.» Marco spiegò sul tavolo i disegni e i documenti trovati in casa del barnabotto. «Dai un’occhiata. A prima vista sembrano documenti segreti, e questo significherebbe che Barbaro era compromesso in qualche operazione di spionaggio. Ma c’è qualcosa che non mi torna… Vorrei sapere di che si tratta prima di mettere in allarme gli Inquisitori.»
Alvise Cappello si pose un paio di spesse lenti sul lungo naso e si chinò sul tavolo a osservare attentamente i disegni; si soffermò sul foglio con le date. «Questo» esordì, «è di certo un documento senza valore. Sembra un elenco di scadenze di arrivi e partenze di navi; simili elenchi si vendono bene alle spie dei pirati dell’Adriatico. Ma non mi spiego come possa essere indicato anche il giorno del ritorno a Venezia, che non è mai certo. Gli altri sono disegni di navi, come avrai capito da solo. Non so a chi possano servire, ho l’impressione che siano disegni vecchi. Però… un attimo.» Cappello si soffermò sul disegno della draga. «Questo lo hai trovato insieme agli altri?» chiese a Marco.
«Certo. Sembra un disegno ricopiato in fretta. Anch’io ne sono rimasto incuriosito.»
Cappello si pulì meticolosamente gli occhiali con un fazzoletto trinato e li ripose sul naso. Quindi si chinò di nuovo sul foglio. «Avrai capito che si tratta di una draga cavafango. Ma non è una delle solite. Le draghe che si usano abitualmente hanno uno scafo solo e derivano dall’antico progetto di Francesco di Giorgio Martini. So che qui all’Arsenale si sta studiando un disegno di Leonardo, che rappresenterebbe un perfezionamento della macchina, ma è ancora una cosa segreta. Chi ha copiato questo schizzo? Cosa stava combinando quell’uomo?»
«Qualcosa di abbastanza grave da costringere qualcuno a ucciderlo.»
«Quindi non è stata una rapina. Quel ragazzo che avete arrestato non c’entra.»
«Infatti. Ma prima di liberarlo voglio capire su che terreno mi trovo.»
«Lasciami qualche giorno, Marco, e ti dirò ciò che vuoi sapere. Potrei convocare anche subito i direttori dei magazzini di armi, vele e ancore e i disegnatori di navi, ma per non far girare voci è meglio che mi informi di persona, con una domanda qua e una là, senza dare nell’occhio. Specialmente per quanto riguarda questo progetto, che farebbe gola a molte potenze straniere per tenere puliti i porti» concluse indicando lo schizzo della draga.
«Sono d’accordo» lo salutò Marco. «E la prossima volta che torno usciamo insieme a mangiare qualcosa alle Poste Vecie a Rialto, dove possiamo chiacchierare.»
«Magari di donne» sorrise Alvise strizzandogli l’occhio. «E ordiniamo polenta e baccalà: alle Poste Vecie sono insuperabili.»
Nani non era ancora tornato dalla sua missione e Marco si accinse ad aspettarlo vicino alla gondola.
Il giovane se l’era presa comoda, non era cosa di tutti i giorni fare un giro in quel luogo protetto che custodiva i segreti militari più importanti dello stato. Seguendo le indicazioni delle guardie, superati i magazzini del velame si accingeva a voltare a destra quando vide sulla banchina alcune ragazze che stendevano le vele ad asciugare su lunghe corde. «Come si fa a raggiungere le Corderie?» chiese per attaccare discorso.
Due di loro lo guardarono con interesse; era chiaro che non era uno del posto, e se era un estraneo doveva essere un tipo importante, per poter gironzolare lì dentro in libertà.
«Dalla parte opposta» rispose una. «E in fondo alla calle bisogna voltare a sinistra tra le Fonderie e il reparto Incatramazione: le Corderie sono di fronte.»
«Magari mi potresti accompagnare…» si fece ardito Nani rivolto alla biondina che aveva parlato. Aveva caviglie snelle e un bel sedere.
«Ora sto lavorando.»
«Me se questa sera vengo ad aspettarti all’uscita» replicò Nani con uno dei suoi irresistibili sorrisi, «possiamo andare a bere qualcosa insieme, un’ombra de vìn, così, per ringraziarti dell’informazione. Poi ti do un passaggio in gondola fino a casa.»
«Sarebbe bello» sospirò la biondina, «ma a casa ho un marito e due bambini che mi aspettano.»
Era andata male, pazienza! Nani raggiunse senza intoppi l’edificio delle Corderie e si fermò incantato. Dalla soglia abbracciò con uno sguardo il salone enorme con il tetto a capriate, sorretto da una duplice fila di possenti colonne. Dovunque ferveva il lavoro: uomini, ma soprattutto donne, le fusère, che filavano le fibre su torcitoi a pedale. Altre attorcigliavano i filati e li incatramavano oppure li avvolgevano tre o quattro per volta intorno a un’anima centrale per formare corde di spessore diverso. I canapai provvedevano ad arrotolare le corde in matasse intorno ad alti cilindri o ammucchiavano le matasse vicino all’uscita. C’erano cataste di sottili sagole, di cime più robuste e di grosse gomene per ancoraggio in attesa di essere stipate nei magazzini poco distanti. Si avvertiva un forte odore di canapa, quasi stordente, e nell’aria aleggiava un pulviscolo che ristagnava come una nuvola pesante.
Si fece avanti il capo arte Micheli e Nani si presentò e gli mostrò la corda trovata addosso a Barbaro. «Il mio padrone, l’avogadore Pisani» spiegò, «vorrebbe sapere da dove proviene questa che gli sembra di fattura insolita.»
Micheli si rigirò la corda tra le mani, l’annusò, ne provò la consistenza, ne sfilacciò un capo. «Effettivamente non è delle nostre… Dove è stata trovata?»
«Non lo posso dire» si dispiacque Nani, che ben conosceva le regole delle indagini giudiziarie.
«Sì, certo. Così a prima vista il materiale mi sembra sparto del Nordafrica, quella graminacea che nasce da certi terreni della Libia a ridosso del mare. L’intreccio grossolano mi fa venire in mente i cantieri del Levante dove lavorano per la marineria turca gli schiavi greci che sono tra i meno abili a costruire e armare navi. Vedi come si sfilaccia? Ed è una corda più grossa, e dunque meno maneggevole di quelle che si fanno qui da noi.»
Si tolse di tasca un pezzo di corda e lo mise a confronto. «Ma aspetta che consulto uno che se ne intende. Gigio» esclamò rivolto a un garzone di passaggio. «Vai a chiamare il Levantino.»
Il garzone trottò via e dopo un quarto d’ora era di ritorno accompagnato da un pezzo d’uomo vestito da marinaio che calzava guanti di pelle consunti.
«Tu, Menico» disse Micheli rivolto al nuovo venuto, «sei stato tanto tempo in Levante, hai anche lavorato per i turchi. Che mi dici di questa corda? Viene da lì?»
L’uomo la prese in mano con due dita per esaminarla meglio. Aveva un viso cotto dal sole solcato da profonde rughe e gli occhi quasi sparivano nel gonfiore delle palpebre. «Potrebbe essere» si pronunciò infine, «ma non sono sicuro.»
«Non fare caso all’abito» spiegava intanto Micheli a Nani. «È vestito da marinaio ma ora lavora a terra, qui da noi.»
«Ecco» continuò Menico. «Il materiale è senz’altro nordafricano, ma la fattura potrebbe essere turca come pure portoghese. Ora anche il Portogallo si rifornisce in Libia, e anche loro non sono bravi a intrecciare corde. Mi spiace di non poter essere più utile di così.»
Era tempo di raggiungere il padrone che forse era già in attesa. Nani riprese l’arma del delitto e facendo il cammino a ritroso raggiunse Pisani che lo aspettava con impazienza.
«Niente di preciso, paròn» esordì. «Il capo arte sembrava sicuro che fosse una corda turca, ma poi è venuto un tizio, che chiamano il Levantino perché ha navigato da quelle parti, e gli ha messo dei dubbi. Secondo lui potrebbe essere anche una corda portoghese.» E raccontò l’incontro.
«Dunque» ragionava Marco dirigendosi in gondola a piazza San Marco, «la corda è turca o portoghese. Mah… almeno siamo sicuri che non è veneziana.»
«C’è una persona che l’aspetta» lo avvertì la guardia mentre Pisani, in veste da avogadore, si dirigeva verso il suo ufficio. «È lì da un pezzo.»
Marco spalancò la porta e rimase interdetto sulla soglia, come folgorato. Di profilo, intenta a contemplare il cielo attraverso i vetri del finestrone, gli si offrì alla vista un’incantevole figura di donna. Era avvolta in un mantello di broccato di un caldo colore albicocca, da una massa di capelli biondissimi raccolti in cima al capo sfuggiva qualche ricciolo ribelle. La luce del primo pomeriggio la circonfondeva di un’aureola splendente. Si voltò e il sorriso era più splendente ancora, gli occhi avevano il colore dei fiordalisi.
«Eccellenza, mi scusi se la disturbo» esordì inchinandosi leggermente. «Sono Chiara Renier, la maestra di quel ragazzo che avete arrestato, Tommaso Grassino.» Un’ombra di preoccupazione le scese sul viso armonioso. «Vorrei sapere che cosa gli succederà, come posso aiutarlo. Sono sicura che è innocente, lo conosco bene ed è il migliore dei miei apprendisti; deve esserci stato un errore. I suoi genitori sono in uno stato…»
Marco era rimasto immobile, a bocca aperta, un’espressione stupita sul viso; temeva di inciampare nella toga se si fosse precipitato a fare accomodare la donna. Maledisse in cuor suo il parruccone, si sentiva ridicolo di fronte a tanta grazia. Infine si riscosse, accennò un sorriso.
«Prego, signora» e indicò un seggiolone davanti alla sua scrivania alla quale andò a sedersi il più disinvoltamente possibile. «Dunque, Grassino… No, anch’io sono certo che non è colpevole, ma finché non posso scagionarlo completamente è meglio che stia dov’è.» E tacque imbarazzato, temendo di cominciare a balbettare.
Chiara osservava con un po’ di apprensione il mutare delle espressioni di Pisani. Avvertì un brivido che conosceva bene. Però, mica male, si sorprese a pensare, è giovane per la carica che ricopre. Deve essere sensibile, con quel sorriso un po’ obliquo che gli illumina gli occhi; sono occhi dolci, dolci e intelligenti.
Il brivido si trasformò in un leggero pulviscolo luminoso che le danzò davanti agli occhi. Si fece forza: non era il momento di dare spazio alle sue intuizioni paranormali. Rientrò in sé.
«Sua eccellenza ha ragione» sospirò infine abbassando lo sguardo, e a Marco sembrò che si coprisse il cielo. «Lo affido alla sua benevolenza, non voglio disturbarla oltre. Metterò tranquilli i genitori.» E si alzò con un unico movimento fluido lasciando in mostra un piedino calzato di broccato e una caviglia sottile.
«Torni, torni quando vuole» si affrettò a raccomandare Marco. Dov’era andata la sua bella disinvoltura con le donne? «E io, se avessi novità, dove posso trovarla, cioè fargliele comunicare?»
«In calle Venier, vicino alla chiesa dei Gesuiti.» Chiara Renier gli scoccò un’occhiata birichina e sorrise. Aveva una bocca vibrante e generosa e un sorriso di quelli che rischiarano un giorno di tempesta. «Sono la padrona della tessitura Renier. Lo vede questo mantello?» aggiunse con una punta di compiacimento. «Produciamo noi questa stoffa, con i telai più moderni ma secondo i modelli della tradizione, e la vendiamo in tutta Europa.»
«Un mantello da regina…» azzardò Marco.
«Infatti siamo fornitori della corte di Francia e di quella di Torino.»
Una donna in gamba, e bella come un angelo. Marco si lambiccò il cervello ma così su due piedi non gli venne in mente nulla per trattenerla.
«A presto, signora» concluse con rincrescimento, e stette a osservarla mentre si inoltrava con passo leggero nel salone adiacente.
Sospirò. Cosa mai gli stava capitando? Forse era una donna sposata. Ma no, Maso aveva detto che non lo era. Forse viveva sola perché… chissà perché. Gli sarebbe piaciuto saperne di più su di lei. Con che scusa avrebbe potuto rifarsi vivo? Forse avrebbe potuto invitarla a un concerto, o a un ricevimento, di quelli che davano i suoi genitori nel palazzo di famiglia per esempio. Prima di Capodanno doveva essercene uno, non si ricordava di preciso quando. Era necessario elaborare una strategia. E questa volta le sarebbe comparso davanti senza toga e parruccone.