Capitolo 13
Vi giuro che è la più bella donna di Venezia! Non ne ho mai viste così. E poi elegante, una vera signora!»
«Signora, signora… E secondo te una signora abita nei dintorni della chiesa dei Gesuiti e dirige una tessitura?»
«Non è la nascita che conta! La signorina Chiara Renier può dare dei punti a tante gentildonne.»
Era mattina presto e Nani battibeccava con Rosetta nella cucina di casa Pisani, al mezzanino del palazzo. L’ambiente era chiaro e luminoso, scrupolosamente pulito, il sole illuminava i piatti di peltro appesi alle pareti. A quell’ora lo stufato borbottava già su un fornello spandendo un odore invitante e un cesto di frutti di mare sgocciolava appeso a un gancio sul lavandino di rame. I due domestici, il vecchio Martino e Giuseppe, erano usciti e Nani faceva colazione in compagnia delle donne, Rosetta e la cuoca Gertrude. Platone, ancora un po’ arruffato per le avventure della notte, leccava una tazza di latte.
L’argomento era la serata del padrone. Nani non ce l’aveva fatta a stare zitto e descriveva Chiara con dovizia di particolari.
«Aveva un mantello foderato di pelliccia e un abito di velluto. Una meraviglia. I capelli poi, oro puro, una cascata di riccioli, e due occhi, due occhi… pezzetti di cielo! Sapete che ha parlato a lungo anche con me?» Nani allungò il collo compiaciuto per gettare un’occhiata prudente al giardino allo scopo di controllare che il padrone non fosse ancora sceso.
«Più che una signora mi sembra una grande sfacciata» intervenne Gertrude che stava spennando immusonita una pernice. Piccola e rotonda, dimostrava più dei suoi ventinove anni a causa del naso largo e schiacciato e del mento sfuggente.
«Eh, Gertrude, lo sappiamo che hai un debole per il padrone» la canzonò Rosetta, «ma non è roba per te.»
Gertrude diventò rossa come un gallinaccio. «Io non l’ho conosciuta, ma la signora Virginia, che Dio l’abbia in gloria, quella sì che era una gran dama! Basta guardare il quadro!»
Nani le diede sulla voce. «Ma non penserai che il padrone stia sempre solo a guardare un quadro. Ha diritto anche lui di farsi una famiglia, non dovrà sempre pensare al lavoro!»
«Certo» lo interruppe Rosetta, «quel poveretto non ha fatto altro in vita sua che lavorare. Sono dodici anni che è fedele alla memoria della buonanima, è ora che anche lui ricominci a vivere. Ma questa donna è un’artigiana; sarà anche proprietaria di bottega, ma il padrone non poteva scegliersi una nobile?»
«La signorina Renier» la difese Nani, «è meglio di quelle smorfiose viziate cresciute nei palazzi, capaci solo di dare ordini e di spettegolare.»
«Eh, a te basta che una ti faccia i complimenti… E chi dice che è una cosa seria?»
«Appunto» intervenne Gertrude. «Al padrone le donne corrono tutte dietro; sarà una di quelle.»
Nani stava per replicare quando si udì cigolare il cancello del giardino. Si affacciò alla finestra.
«Ehilà, c’è il padrone?» Era la voce tonante di Daniele Zen.
«Si accomodi, avvocato, mando subito a chiamarlo.» E mentre Rosetta si avviava ad avvertire Marco, Nani fece strada all’ospite nella sala.
Pisani stava scendendo in quel momento, sbarbato e profumato, pronto a recarsi a Palazzo. Aveva sostituito i soliti stivali con calze di seta e scarpe di capretto.
«Marco, mi devi salvare» lo implorò Daniele abbracciandolo, con gli occhi sorridenti che smentivano la gravità dell’invocazione.
«A tua disposizione. Nani, porta un caffè.» Sopra un panciotto di broccato per lui insolito, Marco indossò la velàda che teneva buttata su una spalla e si accomodò davanti a un tavolino del salotto.
«Mi hanno invitato a pranzo i Santelli, la famiglia di Maddalena» spiegò intanto Zen sedendosi a sua volta.
«La tua fidanzata…»
«Non ancora. Sono qui per questo. La scusa è che mi vogliono far conoscere un loro cugino che è attaché all’ambasciata di Costantinopoli; secondo loro è addirittura il braccio destro del bailo, il nostro ambasciatore. Ma ho ragione di temere che mi vogliano incastrare, è come ufficializzare un rapporto che in realtà non esiste. Non so che scusa trovare per rifiutare, si offenderebbero. Ma se vieni tu io non mi comprometto e tu mi aiuti a portare la conversazione su argomenti generali. Inoltre saranno così contenti di avere a tavola un avogadore che si dimenticheranno dei maneggi. Solo tu puoi salvarmi.»
«Non si direbbe che tu sia innamorato… Comunque va bene. Mi vedi così azzimato perché oggi in mattinata devo vedere i tre Inquisitori.»
Pisani infatti si era deciso a chiedere un colloquio ai potenti magistrati perché con la morte di Corner, che era un patrizio, a giudicare il colpevole, se mai l’avessero trovato, sarebbero stati gli Inquisitori e non più la Quarantìa Criminale. Ormai era il momento di aggiornarli sulle indagini in corso, e in ogni caso era meglio tenerli buoni. Senza contare quei fantasmi turchi, che continuavano ad aggirarsi sullo sfondo della vicenda… Qualora si fosse trattato di spionaggio era opportuno che gli Inquisitori ne fossero messi al corrente al più presto.
«Però prima di vederli ho deciso di chiedere consiglio al nostro Principe» continuò Pisani. «Vorrei che mi suggerisse cosa rivelare e cosa tacere. Tutto questo per dirti che ora devo andare ma per pranzo sarò libero.»
«Sapevo che mi avresti salvato.» Daniele si alzò accingendosi a congedarsi; era visibilmente sollevato. «Ti passo a prendere a Palazzo.»
«Sì, ma in cambio nel pomeriggio vieni con me dai Corner. Devo interrogare la madre di Piero ed è meglio farlo alla presenza di un avvocato» scherzò Marco.
«Avvocato tuo o suo?»
«Mio, mio, dicono tutti che la signora non è un carattere facile.»
La sala degli Scarlatti e quella dello Scudo, dove campeggiava lo stemma di famiglia del doge regnante Francesco Loredan, erano affollate di gentiluomini in parrucca e calze di seta e di magistrati in toga. Ma appena l’alabardiere ebbe comunicato che l’avogadore Pisani chiedeva di essere ricevuto, Marco si vide introdurre nella sala Grimani dove entrò a passo spedito tra i mormorii di disapprovazione dei convenuti.
«Finalmente un viso amico» esclamò il doge alzandosi dal suo scranno e stringendo il giovane tra le braccia. «Vieni a trovarmi raramente, eppure lavori qui vicino! Lasci troppo solo questo povero vecchio che è circondato da una marea infida di cortigiani pettegoli e avidi!»
Marco accennò un inchino. «Non voglio disturbarla troppo, Serenissimo Principe. Ma lei sa che per gli affari gravi oso sempre avvalermi della sua esperienza.»
«Ma quanti complimenti!» scherzò Loredan prendendo Marco sottobraccio e guidandolo verso i seggioloni antichi di fronte al camino. «Non ricordi più quando mi chiamavi “zio Francesco”?»
I Loredan erano da sempre amici intimi dei Pisani, e Francesco, che prima di divenire Doge si era dedicato con successo alla mercatura allontanandosi raramente da Venezia e rifiutando sempre gli incarichi diplomatici, era spesso ospite nel palazzo dei Pisani, dove intratteneva lunghe conversazioni col senatore Teodoro.
Aveva visto crescere i ragazzi, in loro compagnia aveva fatto lunghe cavalcate durante le villeggiature sul Brenta e non mancava mai ai ricevimenti della signora Elena.
«Tua madre come sta?» chiese infatti subito.
«Oh, mia madre è sempre vivace e piena di energia, specialmente ora che ha i nipotini da accudire. Lei si ricorderà, Principe, che anche quando mio fratello e io eravamo piccoli non ci affidava mai alle cameriere, ma provvedeva di persona alla nostra educazione.»
Il doge sorrise e il viso si increspò in una ragnatela di rughe. Era di costituzione esile e delicata. «Eh, gran donna tua madre, e una delle più belle di Venezia, dove, come si sa, si trovano le più belle donne d’Europa. Avessi conosciuto anch’io una donna come lei! Invece sono rimasto celibe, e ora, prigioniero in queste quattro stanze…» e indicò con un gesto circolare la sala dal magnifico soffitto azzurro e oro, «…sono disperatamente solo.» Si era fatto triste.
Marco lo capiva molto bene: rappresentante ufficiale della Serenissima, il doge assisteva a tutte le riunioni dei maggiori organi dello stato, ma non aveva alcun potere oltre al proprio voto, era solo il primo servitore della Repubblica. Chiuso nel Palazzo, da cui poteva uscire raramente, e circondato solo dai membri dei Collegi e della burocrazia, trovava il massimo appagamento nelle cerimonie ufficiali e nei banchetti, dove appariva con le insegne della dignità, il corno ducale, il mantello d’oro, la spada, il seggio, circondato dai gonfaloni e preceduto dalle otto trombe d’argento. E per la cerimonia dello Sposalizio del mare appariva a prua del Bucintoro, l’imbarcazione tutta d’oro che il mondo gli invidiava, con gran seguito di peote, gondole, caorline parate a festa.
Ma tutte quelle solennità le doveva pagare di tasca sua. E non era più nemmeno tanto ricco, dato che i Loredan avevano speso un capitale per la sua carriera pubblica, e nemmeno stimato, perché le critiche e i malumori che avevano accompagnato il regno del suo predecessore Pietro Grimani, il doge poeta, avevano finito per investire anche la sua persona.
«Fermati un poco, Marco» continuò Loredan, «ti faccio servire una cioccolata.» E scosso un campanello, diede ordini al cameriere che si era prontamente materializzato.
«Ma fuori è pieno di gente che sta aspettando…» obiettò Marco.
«Che aspettino» replicò Loredan. «Di solito sono io che devo stare ai loro comodi.»
Sorseggiando la bevanda aromatica, il vecchio doge e il giovane avogadore si avvicinarono al finestrone che dava sul cortile animato da un vivace andirivieni di funzionari, segretari, magistrati, militari.
«Cos’è che ti turba, Marco» ruppe il silenzio Loredan, «e che ti ha portato da me?»
«Avrà saputo» cominciò Pisani, «della morte di quei due patrizi, Barbaro e Piero Corner…»
Loredan annuì. «Certo, sono stati strangolati. Mi pare di capire che sia un caso di tua competenza e che tu, come al solito, invece di lasciare che a indagare sia la polizia, ti dai da fare di persona. Lo so, lo so» continuò il doge interrompendo le spiegazioni di Pisani. «E non credere che non ti dia ragione. Gli sbirri non sono preparati per fare indagini: è una vecchia lacuna della nostra amministrazione. Raccontami tutto.»
Marco percorse con chiarezza tutta la vicenda, soffermandosi sul continuo apparire, nelle testimonianze, della presenza di un turco misterioso e sui disegni trovati da Barbaro, specie quello del progetto segreto della draga cavafango. «Tra poco» concluse, «ho un appuntamento con i tre Inquisitori che devono essere informati perché Corner non era uno qualunque. Ma non so se è il caso di adombrare la possibilità di un reato di spionaggio di cui non sono nemmeno sicuro… Anzi, come le ho raccontato, sto seguendo anche altre piste.»
Il doge scosse la testa. «Hai ragione, Marco. Gli Inquisitori vedono spie dappertutto. Inutile metterli in allarme, tanto più che il materiale era ancora a casa del Barbaro, quindi non è caduto in mano a nessuna spia.»
«Non vorrei essere responsabile di un incidente diplomatico con la Sublime Porta…»
«Appunto» concluse Loredan. «Taci su tutta la vicenda del materiale dell’Arsenale e sui turchi. Tu continua a indagare da solo e vediamo cosa succede. Io intanto cercherò di capire se ci sono timori della presenza di una spia straniera a Venezia.»
I tre Inquisitori in toga e parruccone aspettavano Pisani nella sala del Tribunale Supremo seduti sugli scranni di legno. Era con loro Messer Grando, il capo della polizia, avvolto in un lungo mantello nero.
Come ogni volta che vi si recava, Marco si sentì soffocare dall’ambiente cupo, appesantito dai cuoi a fregi dorati che rivestivano le pareti. E come ogni volta alzò gli occhi al soffitto per ricrearsi un attimo ammirando i teleri del Tintoretto.
L’incontro fu cordiale. L’avogadore Pisani era noto per le sue eccentricità ma era benvoluto dai più temibili magistrati della Repubblica perché non metteva in discussione la loro autorità e, bisognava riconoscerlo, assicurava alla giustizia un bel numero di criminali.
Pisani riassunse i fatti: il ritrovamento del cadavere di Barbaro il giovedì precedente, cioè la mattina del 7 dicembre, poi la morte di Corner la notte tra domenica e lunedì, le modalità che inducevano a pensare a un unico assassino, come la corda usata in entrambi i delitti. Raccontò la vita precaria del barnabotto e accennò alla giovinezza dissipata del patrizio, ma tacque la storia della cameriera sedotta, omise gli strani legami tra le vittime e il gondoliere Biagio e non fece parola di Paolo Labia, che non sapeva ancora che ruolo avesse. E soprattutto non aprì bocca sui documenti di Barbaro.
«Lei, Pisani, ha sempre il vizio di cercare le prove da solo?» gli chiese sorridendo Antonio Condulmer.
«Sì, sono convinto che in molti crimini l’ambiente giochi un ruolo importante. Inoltre…» e qui si rivolse a Messer Grando, «…in questo caso mi devo muovere nel mondo dell’aristocrazia, devo interrogare gente che mai si confiderebbe con gli sbirri.»
«Certo, certo» convenne il capo della polizia. «Ma se ha bisogno di aiuto conti sempre su di noi.» In realtà non era affatto scontento che fosse Pisani ad accollarsi un’indagine così scabrosa.
«Quando pensa di istruire il processo?» chiese Pietro Fontana che aveva seguito distrattamente, come al solito, l’esposizione dei fatti.
«Non ne ho idea» ammise Marco. «Come ho detto prima, non ho ancora scoperto un colpevole. Se si trattasse di omicidi per rapina potrei indagare negli ambienti della malavita, incaricare la polizia» spiegò accennando a Messer Grando. «Ma qui sono stati uccisi due patrizi che erano amici fra loro, e le modalità dei delitti sono identiche, quindi sono propenso a credere che ci sia un movente preciso dietro le loro morti. Una volta scoperto il movente, forse una vendetta, forse rivalità in amore o affari, chissà, allora potrò individuare l’assassino.»
«Non è un compito facile» concluse Condulmer. «Siamo nelle sue mani, Pisani. Ci pare che non sia ancora il caso di portare la questione davanti al Consiglio dei Dieci.»