Capitolo 23

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La cucina di casa Sporti era un vasto stanzone squallido, al primo piano dell’edificio in fondo a calle Grimana, sul rio Tana.

Marco aveva bussato al portoncino e dopo una breve attesa gli aveva aperto una ragazza graziosa con una massa di capelli bruni e ricciuti che le ricadevano su un abitino azzurro. Era Angela, che aveva dapprima scrutato quel signore distinto con diffidenza, poi, saputo chi era, la diffidenza si era trasformata in palese imbarazzo. Era sola in casa, su un lungo tavolo erano raccolte diverse ciotole di perle di vetro di Murano che lei stava infilando in lunghe collane.

Man mano che Marco parlava spiegando lo scopo della visita, i grandi occhi neri di Angela si spalancavano esprimendo meraviglia, inquietudine e infine aperto terrore.

«Lei, eccellenza» balbettò infine, «vuole sapere che cosa è accaduto il giorno in cui Marianna è scomparsa. Ne ho già parlato a suo tempo con le guardie.»

Marco le rivolse uno sguardo inquisitore. «Ho ragione di credere che tu sappia molto di più di ciò che è riportato nei verbali.»

Angela sospirò addossandosi al tavolo. «Ho risposto a tutte le loro domande…»

«Non ti sto accusando di nulla, Angela. Ma vorrei interrogarti io. Perché tu sai qualcosa che alle guardie non hai detto, è vero?» insinuò, ricordando il racconto di Lucrezia. «Non voglio farti del male, ma la povera Marianna è scomparsa, forse è morta, e nessuno ancora ha pagato per questo delitto. Tu vuoi che sia fatta giustizia?»

«Io, sì, ecco… Ma ho paura, è una storia più grande di me.» Si guardò alle spalle con apprensione. Su una sedia c’era un involto di abiti da uomo. «Non posso parlare qui» concluse. «I miei stanno per tornare. Verrò da lei domani a Palazzo Ducale.»

«Il tempo è prezioso, Angela.» Marco sorrise. «Facciamo così: tu ora vieni a casa mia e rilasci la tua deposizione in segreto alla presenza di un avvocato. Poi ti faccio riaccompagnare qui.»

«Sì, questo lo posso fare, ma è tardi, se non mi trovano a casa i miei genitori si preoccupano.» Non pioveva più, ma il buio e la nebbia formavano sul canale una coltre impenetrabile. Angela rimase un attimo a riflettere. «Però posso lasciare un biglietto in cui spiego a mia madre che mi trattengo fuori per lavoro. Va bene.»

Mentre la ragazza scriveva due parole, si dava da fare per radunare i tizzoni sotto il camino, riordinava le ciotole di perle e si avvolgeva in uno scialle pesante, Marco notò che gli Sporti erano più poveri dei Biondini. Per quanto pulita, la cucina appariva disadorna, senza tracce di cibo, e l’atmosfera era triste, come se per i suoi abitanti la vita a un certo punto si fosse fermata. È strano, considerò, come un delitto non colpisce mai solo la vittima, ma si porta dietro una catena di esistenze spezzate. Sono sempre molte le persone per le quali le giornate non saranno più come prima.

Si diressero lungo la salizàda del rio Sant’Anna, presero a destra sulla riva del bacino e raggiunsero il ponte dell’Arsenale. Nonostante il maltempo alcune gondole erano in attesa di clienti. Pisani inviò un gondoliere all’ufficio di Zen per convocare l’avvocato. Con la ragazza salì su un’altra imbarcazione alla volta di casa sua.

 

Angela bevve avidamente la cioccolata che Rosetta aveva servito nello studio. Dopo il buio e il freddo dell’esterno la stanza bene illuminata e riscaldata calmava le sue angosce.

«Tu conoscevi bene Marianna?» chiese Daniele Zen posando la sua tazza e afferrando il taccuino per gli appunti.

L’argomento parve mettere a suo agio la ragazza, che esclamò: «Oh sì, eravamo come due sorelle, praticamente inseparabili, almeno nel tempo libero». Poi continuò: «Durante il giorno lei cuciva in bianco, un bel lavoro, che sarebbe piaciuto anche a me, ma in casa non c’erano soldi per pagarmi l’apprendistato. Così io faccio l’impiraressa, infilo le perle di vetro. Non guadagno molto, ma è meglio di niente. Mio padre è un ambulante, un arrotino che va in giro per le case. Ma la sera con Marianna ci trovavamo da lei, e la domenica eravamo sempre insieme a passeggio».

«Quindi» osservò Marco, «non era una cosa strana che quella domenica 23 maggio foste uscite insieme per andare alla fiera.»

«Era da settimane che progettavamo di andare. Non vedevamo l’ora.»

La fiera della Sensa era in effetti una grande attrazione per tutta la città. Iniziava qualche giorno prima della festa dell’Ascensione ed era l’occasione per gli artigiani, i commercianti e perfino gli artisti di Venezia per presentare i loro prodotti. Veniva gente da tutta Europa per visitare i padiglioni che un po’ alla rinfusa occupavano tutta piazza San Marco. Vi si potevano comperare lampadari, collane, specchi di Murano, cinture e guanti di cuoio impresso in oro, gioielli, parrucche, finissima biancheria orlata a tombolo, borsette a piccolo punto, cannocchiali. I più celebri tessitori esponevano rasi, velluti di lana e seta, damaschi, lampassi in un tripudio di colori. E c’erano grossi commercianti di granaglie, sale, spezie, olio, salumi, vini rari come il Cipro e la Malvasia.

Ogni giorno i padiglioni erano presi d’assalto da una folla eterogenea di ogni classe sociale: gli studiosi e gli intellettuali erano attratti dai quadri dei più celebri artisti e dai padiglioni degli stampatori che esponevano le ultime opere pubblicate. Le gentildonne sceglievano tra profumi rari, vasetti di pomate odorose, ciprie e nèi finti. Le popolane si accontentavano di nastri e zendadi o piatti di rame per ornare la cucina.

Era tutto un vociare di venditrici di frìtole il cui aroma si spandeva per l’aria, di acquaiole, di indovine che predicevano alle ragazze il grande amore, di alchimisti che gridavano gli effetti dei loro rimedi miracolosi.

Il culmine della festa era il giorno dell’Ascensione, quando davanti alla piazzetta il doge saliva sul Bucintoro riccamente pavesato, tra la folla acclamante e il tuonare dei cannoni. Preceduto dalle navi mercantili e dalla flotta da guerra e seguito da centinaia di gondole e bissone anch’esse parate a festa, il corteo solcava le acque alla volta del forte del Lido, davanti al quale avveniva la cerimonia dello Sposalizio del Mare.

Poi la fiera restava aperta nei giorni seguenti per dare tempo ai commercianti venuti da lontano di concludere gli affari.

 

«Marianna» continuò Angela, «era molto allegra perché suo padre finalmente l’aveva accontentata e le aveva regalato il denaro per comperarsi un mantello di lana scarlatta che desiderava da tempo. Era serena, canticchiava per tutta la strada.»

«C’era molta gente?» chiese Marco.

«Era domenica, domenica 23 maggio 1751, lo ricorderò finché campo. C’era folla dappertutto. Ci eravamo messe d’accordo, se fossimo rimaste separate, di ritrovarci sotto il campanile, ma cercavamo di tenerci per mano per non perderci.»

«E cosa successe?»

Angela sospirò torcendosi le mani. «All’inizio andò tutto bene. Marianna scelse il suo mantello e lo acquistò, poi ci unimmo a un crocchio di persone per guardare gli acrobati. Mi ricordo che a un certo punto comperammo le frìtole e ci fermammo a mangiarle davanti alla gabbia del leone. Poi Marianna vide l’indovina e volle farsi leggere la mano.»

«E allora?» la incoraggiò Marco. Zen non perdeva una sillaba.

«È strano che mi venga in mente solo ora. A questo episodio non avevo più pensato… Ci mettemmo in fila e, quando venne il suo turno, Marianna mostrò la mano alla maga, era una donna di mezza età tutta imbellettata, con un turbante di seta viola. Quella la prese, la esaminò e spalancò gli occhi in faccia a Marianna.»

Nel silenzio che si era fatto si udì un tonfo. Gli occhi di tutti si volsero alla libreria da cui Platone, ospite non visto, si era lanciato con la coda arruffata come avesse visto un fantasma. Ventre a terra, si diresse verso il camino e vi si acciambellò davanti.

«Continua» mormorò Marco rivolto alla ragazza.

«L’indovina guardò ancora una volta la mano di Marianna, poi la lasciò cadere come se scottasse e gridò, lo ricordo come fosse ora: “Fai attenzione, bambina, fai attenzione! C’è l’ala del corvo intorno a te! Se vedi il sole di domani sarai salva!”.»

Un brivido colse Marco. Daniele si era irrigidito.

«E Marianna?»

«Tutte e due rimanemmo perplesse, non capivamo cosa volesse dire quella donna. Corvi non ce n’erano. Il tempo era bello. Mi ricordo che Marianna si sforzò di ridere. “Quella è proprio matta” esclamò, e ci allontanammo. Ma il buonumore ormai se n’era andato, e fu proprio poco dopo che ci imbattemmo…»

«Coraggio.» Marco intuiva che si stava arrivando al momento cruciale.

«Sì.» Angela esitava, gli occhi pieni di lacrime. «Incontrammo un gruppo di giovani che cominciarono a tormentarci.»

«Cioè?»

«Presero a seguirci, commentavano tra loro a voce alta il nostro abbigliamento, l’aspetto, anche con battute pesanti. Uno in particolare ce l’aveva con Marianna, le diceva: “Non è ora che vieni con me, bella bionda? Lo so che ti piaccio”.» Angela si coprì il volto con le mani, la voce si era incrinata. «Diceva perfino: “Vieni da me che ti aiuto a slacciare quel bel corpetto. Scopriamo cosa c’è sotto questa gonna”.»

«E Marianna?»

«Era tutta rossa, cercava di scappare, ma la folla la tratteneva. Io le andavo dietro come potevo… Intanto si era fatto tardi, il sole era al tramonto, cercammo di dirigerci verso le callette dietro San Marco per tornare a casa. Trovammo un portone aperto e ci nascondemmo nell’atrio. Fu lì che le chiesi: “Ma chi è quella gente? La conosci?”.»

«Te lo disse?» Un ciocco cadde nel camino levando un volo di scintille. Platone fece un balzo e strisciò via.

«Sì. Mi raccontò che quello più insolente era Piero Corner, dei patrizi della Ca’ Granda. Lei andava ogni tanto da sua madre a consegnare la biancheria, e quello da un po’ di tempo l’aveva presa di mira, la inseguiva per le scale, cercava di toccarla, la invitava in camera sua. Gli altri erano spesso con lui.»

«Ed erano?»

«Marianna aveva saputo i loro nomi da una cameriera sua amica, una tale Elvira. Uno era Marino Barbaro, l’altro il gondoliere di Corner, un certo Biagio, e il terzo, brutto e piccolo, era un Labia.»

Angela tirò un lungo sospiro come chi si liberasse da un peso. Marco e Daniele si guardarono.

 

«Poi cosa successe?» la incoraggiò Daniele.

«Dopo venne il peggio…» Angela bevve un bicchiere d’acqua e parve prendere coraggio. «Uscimmo dal portone e pareva che i quattro se ne fossero andati. Non c’era più quasi nessuno in giro, era venuto tardi e per la calle il buio era completo. Era tempo di luna nuova. Marianna si avvolse nel mantello scarlatto come se avesse freddo. Ci dirigemmo verso campo San Zaccaria dove l’oscurità era appena spezzata da un lampione. Qui, e non me lo rimprovererò mai abbastanza, mi venne in mente che dovevo andare dalla mia madrina che abitava vicino a campo Santa Maria Formosa. Non volevo lasciare sola Marianna, ma lei non sembrava preoccupata. “Vai” mi incoraggiò. “Io devo fare solo pochi passi per raggiungere la riva degli Schiavoni, che è piena di gente; qui non c’è più nessun pericolo, quei quattro si sono stancati di seguirci. Cosa vuoi che mi capiti?”»

«E così tu te ne andasti…»

«Sapesse quante volte ci penso!» Angela proruppe in lacrime. Si fece silenzio. «Mi ero appena allontanata e stavo risalendo la calletta che porta a Santa Maria Formosa» continuò con la voce spezzata, «quando udii degli schiamazzi. Erano voci maschili, sembrava gente che avesse bevuto. Ebbi paura e mi fermai nel buio. Sentii che ridevano, si lanciavano battute, poi la voce di Marianna: “No! Aiuto!”. E quelli che ridevano più forte. Io non avevo il coraggio di farmi vedere, così la lasciai sola. Lei gridò altre due volte, poi la sua voce fu soffocata. Udii ancora dei passi pesanti, come di corsa, dei richiami sottovoce. Capii che il gruppo stava infilandosi nella calletta dove mi ero nascosta…» E a quel punto Angela si abbandonò a un pianto dirotto. «Non ce la faccio più» mormorò tra le lacrime.

Ci volle un po’ per calmarla. Marco inzuppò d’acqua un fazzoletto col quale lei si deterse il viso prima di continuare.

«Vicino a me si apriva un sottoportico e io mi nascosi dietro una colonna. Loro mi passarono vicinissimi, due reggevano Marianna che si dimenava, mi parve di scorgere che l’avevano imbavagliata e avvolta nel mantello. Sparirono nel buio.»

«E tu?» chiese Zen.

«Io a quel punto andai a casa, sperai fino all’ultimo che lei ricomparisse. Mi auguravo che anche se l’avevano… se le avevano fatto del male, poi la lasciassero andare. Sua zia, la Giannina, venne a chiedermi di lei dopo un paio d’ore. Era preoccupata, ma sperava che si fosse fermata a casa mia. Io raccontai che ci eravamo salutate in campo San Zaccaria e che non l’avevo più vista, ma il giorno dopo avevo già perso la speranza che tornasse. Non sono più stata in pace con me stessa, da allora.»

 

C’erano ancora molte cose da chiarire, ma la ragazza era sfinita. La lasciarono alle cure di Rosetta, che la ristorò con un risotto e un bicchiere di vino. Quando tornarono nello studio, Angela aveva ripreso colore.

Si sedettero di nuovo intorno alla scrivania mentre Platone, leccandosi i baffi con energia, si accoccolò tra loro su una pila di scartoffie.

Marco venne subito al punto. «Angela» tirò a indovinare, «tu l’hai confessato a qualcuno ciò che sapevi…» C’era un nome, una persona che fino a quel momento la ragazza aveva omesso di menzionare, ma ora non poteva più evitarlo.

«Non ho mai detto nulla a mio padre e mia madre, e nemmeno alla Giannina.»

«Perché hai taciuto anche con gli sbirri?»

La ragazza avvampò. «Avevo paura. Il capitano mi convocò nello stanzone degli interrogatori alle Prigioni, mi chiese solo dove avevo salutato Marianna, sembrava che avesse una gran fretta, sembrava pure che avesse bevuto.» Ah, Brusìn! Anche questa dovrai pagare, pensò Marco. «Come facevo a raccontare la storia dei giovani che ci avevano seguito, a fare i loro nomi, e quei nomi, poi. Gente importante. Se le guardie li avessero interrogati avrebbero detto che mi ero inventata tutto e quindi me l’avrebbero fatta pagare. Non avrei più avuto il coraggio di girare per Venezia, e per Marianna non potevo più fare niente.»

E questo era vero, pensarono Marco e Daniele scambiandosi un’occhiata.

«Ma poi a qualcuno hai raccontato la verità…» prese la parola l’avvocato Zen.

Angela non aveva più scampo. Bevve un bicchiere d’acqua, chinò il capo e con voce piatta cominciò: «Sapete di certo che mio fratello Giorgio era il fidanzato di Marianna. Quando ebbe notizia che era scomparsa sembrò impazzire. Girò due giorni per tutta Venezia, fermava la gente per strada, nelle botteghe. All’alba interrogava i pescatori che arrivavano a Rialto per sentire se avevano visto un corpo galleggiare in laguna. Poi cominciò a minacciare di andare dal comandante delle guardie, di fare uno scandalo».

«Ma perché non siete venuti da me?» chiese Pisani.

«Siamo gente semplice» obiettò la ragazza. «Nessuno di noi ha mai nemmeno pensato di disturbare un avogadore. Così» continuò, «i miei erano preoccupati che Giorgio si cacciasse in qualche guaio, non andava più nemmeno a bottega. Un nostro vicino che lavorava all’Arsenale trovò per Giorgio un posto di fornaio a bordo di una nave in partenza per l’Oriente. Lo dovemmo fare imbarcare quasi a forza.»

«Ma prima che partisse gli hai raccontato la verità.»

«L’ha voluto lui, ha minacciato che non sarebbe partito se non gli avessi detto tutto. Giorgio è un ragazzo sveglio, aveva capito che c’era dell’altro. Così gli feci giurare che avrebbe tenuto per sé il mio segreto, gli spiegai che se qualcuno, anche la zia di Marianna, avesse saputo la verità e si fosse confidata con altri, la voce poteva girare e io sarei stata in pericolo. Ha giurato ed è partito col nostro segreto.»

«Anche i nomi?»

«Anche i nomi.»

Nel silenzio che si fece si udiva solo il crepitio delle fiamme. Marco versò del Vin Santo in bicchieri di cristallo. Bevvero, ciascuno assorto nelle proprie meditazioni.

Fu Zen a rompere la tregua. «Ma adesso è tornato…» tirò a indovinare.

Angela fu svelta a interpretare la sua insinuazione. «Non vorrete incolparlo della morte di quei tre disgraziati!» Anche lei, come tutti a Venezia, sapeva dei delitti ed era logico che si fosse posta delle domande. «Mio fratello non è un assassino. È tornato questa estate, non è più furioso per Marianna, solo molto triste.»

«Dov’è stato tutti questi mesi?»

«Non ha raccontato molto. So che si è sistemato a Costantinopoli, dove prima ha lavorato come uomo di fatica al porto e in seguito ha trovato posto da un fornaio. Ha messo da parte un po’ di soldi, poi lo ha preso la nostalgia di casa ed è tornato.»

«Ma non abita con voi» suppose Zen a voce alta.

«No, ha trovato un alloggetto al Ghetto Nuovo, dove lavora. Da noi è rimasto poche ore, diceva che non ce la faceva a riprendere la vita di prima, come quando c’era Marianna. Del resto erano cresciuti insieme, avevano un legame strettissimo.»

«Viene spesso a trovarvi?»

«No, lo vediamo molto poco.»

«Ha saputo dei delitti?»

«Non lo so, è un mese che non si fa vivo.»

Daniele giocherellava pensoso con la coda di Platone che emetteva stizziti miagolii, Marco scarabocchiava sul taccuino. Alla fine proruppe: «In questi mesi tu, Angela, hai sempre tenuto il segreto? Non hai fatto a nessuno i nomi di quei quattro?».

«Mai. A nessuno.»

«Quindi i Biondini non hanno mai saputo ciò che è capitato a Marianna.»

«Non lo sanno. Se avessi parlato li avrei solo addolorati ancora di più.»