4

Malcolm Gough accavallò e scavallò nervosamente le lunghe gambe. Stava aspettando da più di un’ora in una sala d’attesa del Royal London Hospital. L’intero piano era stato evacuato, non c’era nessuno in giro. Un mese prima, l’MI5 lo aveva convocato d’urgenza, costringendolo a interrompere una lezione a Cambridge per venire proprio in quell’ospedale, dove aveva avuto l’incontro più strano della sua vita. Un tale John Camp, che si stava riprendendo da un intervento chirurgico, gli aveva fatto diverse domande su Enrico VIII, come se si trattasse di una persona viva e vegeta. Alla fine di quell’incontro, Gough era sconcertato e confuso, però aveva firmato l’Official Secrets Act e non aveva potuto parlarne con nessuno, nemmeno con la moglie.

Quella mattina aveva ricevuto una telefonata da Ben Wellington, che gli chiedeva di raggiungerlo a Londra entro sera per una consulenza urgente.

«Non posso proprio», aveva risposto lui.

«Temo che non abbia scelta», aveva replicato Ben. «È una questione di sicurezza nazionale.»

«Sono un professore di storia», gli aveva ricordato Gough.

«Lo so.»

«Ha qualcosa a che fare con quello che sta succedendo a Londra?»

«Sì.»

«Non vorrete ancora una consulenza sui Tudor, vero?» aveva domandato, tra il serio e il faceto.

«Proprio così. Una macchina passerà a prenderla a casa sua alle cinque. Per favore, prepari il necessario per stare fuori la notte, e porti anche giacca e cravatta. Incontrerà la regina.»

La porta della sala d’aspetto si spalancò all’improvviso: Gough vide John Camp, ben rasato per la prima volta in un mese, entrare deciso. Indossava un elegante blazer blu, pantaloni grigi e una cravatta rossa a strisce. Gli abiti erano perfetti, mentre la sua faccia appariva stanca.

«Avevo il sospetto che ci saremmo rivisti», esordì Gough.

«Come sta, professore?»

«Ero perplesso quando ci siamo lasciati dopo il nostro incontro e lo sono ancora.»

«Quanto a questo, cercheremo di aiutarla a capire.»

«Davvero?»

«Immagino che abbia seguito i notiziari.»

«Certo. È preoccupante. E tutte quelle dichiarazioni confuse delle autorità non aiutano certo a infondere sicurezza.»

John si sedette di fronte a lui. «Purtroppo non è una situazione facile da spiegare.»

«Quel tizio, Giles Farmer, è andato in televisione a dire cose assurde. Ha parlato del collisore del MAAC, di extradimensioni, portali e roba del genere.»

John si sporse in avanti. «Più o meno ci ha azzeccato.»

«Sul serio?»

«Però non ha idea di cosa sia quella dimensione. Lei è pronto ad ascoltare la verità? Quando gliela rivelerò, la sua vita non sarà più la stessa.»

«Immagino che me la dirà in ogni caso.»

John annuì e sorrise. «Lei è un uomo di fede, professore?»

«Non vado in chiesa, ma credo in un essere superiore.»

«E che ne pensa dell’Inferno e del Paradiso?»

«Be’, che siano astrazioni utili per motivare certi comportamenti.»

«Non so niente del Paradiso, professore, ma posso assicurarle che l’Inferno esiste. Non è un’astrazione.»

Camp parlava già da diversi minuti, quando si fermò per domandare al professore, che era impallidito, se si sentisse bene. Gough chiese dell’acqua, così John lo lasciò e tornò con una bottiglia presa dal frigorifero della sala infermieri.

«Suppongo che adesso mi dirà che laggiù ha incontrato re Enrico», gracchiò Gough.

«Sì. E non solo lui.»

John elencò altri personaggi. Cromwell. L’imperatrice Matilde. Robespierre. Barbarossa. Re Pietro. Himmler. Stalin.

A ogni nome, lo sguardo di Gough si faceva più incredulo. «Ma è assurdo», esclamò il professore, scuotendo la testa con vigore. «A prescindere dal fatto che io le creda o no, a questo punto mi domando perché io sia qui.»

«Perché sa più cose su Enrico VIII di chiunque altro.»

«Ma che importanza ha, visto che il governo deve affrontare così tante questioni ben più urgenti?»

«Perché lui si trova nella stanza in fondo al corridoio.»

«’Lui’ chi?»

 

 

A Leatherhead, un’unità della 3a Brigata Commando dei Royal Marines presidiava il ponte sul fiume Mole. Era arrivata lì solo un’ora prima, per rimpiazzare un gruppo di agenti della polizia del Surrey. Il sottotenente Jack Venables puntò il binocolo per la visione notturna verso il centro della città, poi lo abbassò per strofinarsi gli occhi stanchi. Gli sembrò che uno dei suoi caporali stesse sonnecchiando e lo rimproverò, invece l’uomo aveva la testa china su una mappa che stava studiando con l’ausilio di una torcia.

«Scusa», disse Venables. «Continua pure.»

Il sergente Callum Ferguson, con gli occhi incollati al binocolo, avvertì Venables che c’erano segni di attività. «Quattro soggetti in avvicinamento. A trecento metri. Stanno correndo.»

Venables ordinò agli otto uomini della sua squadra di tenersi pronti e ricordò loro le regole d’ingaggio.

«Può ripetere come facciamo a distinguere un civile dai nostri obiettivi?» chiese un soldato semplice, aggiungendo all’ultimo momento: «Signore».

Venables era irritato dal tono irriverente del soldato, tuttavia con pazienza riconobbe la difficoltà e la natura bizzarra della loro missione. «Ascoltate. In questa faccenda siamo l’ultima ruota del carro, me compreso. Non mi hanno detto molto più di quello che si sente in televisione. Comunque, durante il briefing di questo pomeriggio, il tenente colonnello ha lasciato chiaramente intendere che la città è stata invasa da alieni non identificati, che possono essere riconosciuti dall’odore sgradevole.»

«Quindi dovremmo annusargli le ascelle prima di sparare?» insistette il soldato.

«Chiudi quella cazzo di bocca, Saunders», abbaiò il sergente.

Un altro soldato sollevò la testa dal mirino del fucile. «Non le hanno detto da dove arrivano?»

«Il tenente colonnello è stato evasivo, ma ho avuto la netta impressione che non stessimo parlando di omini verdi provenienti da Alpha Centauri, né di profughi del Medio Oriente. Sergente, la loro posizione?»

«Duecento metri. Si stanno avvicinando.»

«La mia ragazza mi ha mandato un SMS», intervenne il caporale. «A quanto pare è stato detto che vengono da un’altra dimensione.»

«Anche la tua ragazza deve venire da un’altra dimensione, per uscire con te», scherzò Saunders.

«Adesso piantatela!» ordinò il sottotenente. «Sono a cinquanta metri, puntate i riflettori.»

Colpite dalla luce dei fari, le quattro figure che stavano avanzando si fermarono, riparandosi gli occhi con la mano.

«Royal Marines», urlò il sergente per superare il fragore del fiume. «Avvicinatevi lentamente, tenendo le mani sopra la testa.»

I due uomini e le due donne obbedirono, avanzando lungo Bridge Street. Poco prima di raggiungere il ponte, i soldati li videro guardare a sinistra, come se fossero stati messi in allarme da qualcosa che veniva da Minchin Close, una strada buia e senza uscita. All’improvviso una delle donne gridò, mentre una figura scura sbucata dal vicolo l’afferrava, iniziando a trascinarla via dalla luce.

«Che cazzo succede?» urlò Saunders.

Gli altri tre civili abbassarono le braccia e cominciarono a correre verso il ponte.

«Quali sono gli ordini?» gridò il sergente a Venables.

«Restate ai vostri posti!» rispose il sottotenente. «Non siamo autorizzati a entrare in città.»

«Ma hanno rapito una donna!» esclamò Saunders.

«Ne ho sotto tiro uno», affermò il caporale, seguendo con il fucile la figura verdognola che appariva nel mirino.

«Non sei autorizzato a intervenire», gli ricordò Venables. «Dobbiamo rispettare gli ordini.»

Nel frattempo, i due uomini e la donna erano arrivati sul ponte: il sergente ordinò loro di sedersi in mezzo alla strada con le mani sotto le gambe. Erano giovani e sembravano sotto shock. La donna piangeva disperata, mentre gli uomini continuavano a guardarsi alle spalle, per accertarsi di essere davvero al sicuro.

«Controllate che non abbiano armi», ordinò il sergente ai suoi marine.

«Hanno preso Sarah», gemette uno dei due uomini. «E voi non avete fatto nulla!»

Saunders perquisì il giovane con la barba: quando ebbe finito, lo annusò.

«Che cosa sei, un maledetto cane?» inveì l’altro. «La gente là fuori sta morendo, implora l’aiuto della polizia e dell’esercito. E tu te ne stai qui al sicuro, annusandomi come un idiota!»

Saunders lo ignorò. «L’odore è normale.»

Il sottotenente Venables si avvicinò e fece perquisire gli altri due. «È tutto a posto, potete alzarvi.» Li guardò negli occhi e disse: «Abbiamo l’ordine di non intervenire finché le autorità non sapranno con cosa abbiamo a che fare. A quanto mi risulta, migliaia di civili hanno dato ascolto agli avvisi che abbiamo diramato per tutto il giorno e sono fuggite. Voi sarete portati in un centro di evacuazione a Dorking».

La donna gli sputò in faccia, imprecando.

Venables si pulì la saliva dalla guancia. «Mi dispiace che la vostra amica sia stata aggredita. Non c’era nulla che potessimo fare. Ditemi cosa sta succedendo nel centro della città.»

Il secondo giovane parlò con voce calma: «Siamo rimasti nascosti quasi tutto il giorno nell’appartamento di Sarah, poco distante dal centro commerciale. La gente scappava, ma noi eravamo troppo spaventati per muoverci. Dalle finestre abbiamo visto cose orribili. Orribili. Abbiamo sentito gli altoparlanti, ma non avevamo il coraggio di andarcene da lì. Mezz’ora fa sono entrati fracassando la porta sul retro, così siamo fuggiti dall’ingresso».

«Che cosa avete visto?» chiese il sottotenente.

«Gente fatta a pezzi», rispose l’uomo. «Sono bestie, nient’altro che bestie. Abbiamo visto persone mangiate vive.»

 

 

John accompagnò Gough lungo il corridoio fino a una stanza sorvegliata da alcuni agenti dell’MI5.

«È pronto?»

«Non ne sono sicuro», rispose Gough.

John bussò e aprì la porta. Era una comune stanza d’ospedale, identica a quella in cui lui stesso era stato ricoverato un mese prima. Un uomo corpulento con la barba corta e lunghi capelli grigi striati di rosso era steso sul letto. Indossava solo un accappatoio di spugna che lasciava scoperte le gambe violacee coperte di cicatrici. Era immerso nella lettura del libro di Gough, Vita e morte di Enrico VIII, ma lo mise subito da parte, esclamando: «Eccovi qui! John Camp, l’uomo che mi ha fatto prigioniero. Sono molto contrariato».

«Non vi trattano bene, maestà?»

«Non mi hanno servito né vino né birra. Mi hanno portato solo acqua e una bevanda pessima che pizzica il naso e ha un sapore disgustoso.»

John guardò la lattina di bibita e sorrise.

«E cosa sarebbe quello?» Enrico indicò il cibo intatto sul vassoio vicino a lui.

«Si chiama sandwich.»

«Anche quello è disgustoso. Dove sono i miei abiti?»

«Penso che li stiano lavando.»

«Maledizione a voi. Non erano sporchi.»

«Immagino abbiano voluto disinfestarli prima che incontriate la regina.»

«Che cosa vuol dire ’disinfestare’?»

«Be’, eliminare cimici e pidocchi.»

«Come osate! Io non ho i pidocchi!» gridò il re.

«È solo una precauzione. Vorrei farvi conoscere lo studioso che ha scritto il libro che state leggendo. Maestà, vi presento Malcolm Gough. Probabilmente sa più cose su di voi di chiunque altro.»

Gough sembrò barcollare sulle lunghe gambe da trampoliere e John temette che sarebbe svenuto. «Io... io non so cosa dire... È tutto reale? Sta accadendo davvero?»

«Volete darmi un pizzicotto, signore?» gli domandò Enrico. «Questo vi soddisferebbe?»

«No, no. È solo che...» balbettò il professore, mentre le ginocchia gli cedevano.

John lo afferrò e lo sorresse, mentre allungava una mano per prendere una sedia. «Vi dispiace se il professore si siede?» chiese al re.

«Niente affatto. Se mi aveste usato la cortesia di portarmi un boccale di birra, glielo offrirei.»

«Beva un po’ d’acqua, professore», disse John, riempiendo un bicchiere.

L’uomo bevve con avidità, poi con un cenno della mano fece capire che si era ripreso. «Scusatemi», iniziò con voce roca. «Vorrei che capiste quanto sia straordinario per me questo momento. Non sapete quante volte ho sognato di avere una macchina del tempo, per poter viaggiare nel passato e conoscervi, parlarvi.»

«Non siete il solo a essere sconcertato e stupito, studioso», ribatté il sovrano. «Dopo tutti questi secoli mi sono abituato agli orrori dell’Inferno, ma l’incontro dei nostri due mondi mi ha lasciato turbato, lo ammetto.»

«Mr Camp mi ha chiesto di farvi alcune domande», spiegò Gough.

«Che genere di domande?»

«Domande sulla vostra vita e sulla vostra epoca.»

«A quale scopo?»

Gough guardò Camp in cerca d’aiuto.

«La situazione è questa», intervenne John. «Io so chi siete. Non ho bisogno di prove, perché ero in Britannia con voi. Ma tra un paio d’ore vi accompagneremo dalla regina, e le persone a capo del governo vogliono essere certe che voi siate davvero Enrico VIII e non un impostore. Dopotutto, non assomigliate molto all’immagine ritratta sulla copertina del libro del professore.»

«Holbein!» esclamò Enrico. «È stata un’esperienza terribile posare per lui. Le sue flatulenze rendevano l’aria nella mia camera nauseabonda come quella di una cella di putrefazione. In ogni caso, non è facile mantenersi robusti all’Inferno. La corporatura che vedete è quella che avevo da giovane.»

Gough si schiarì la voce e gli fece la prima domanda: «Avete nominato Hans Holbein. Anna Bolena lo aveva incaricato di disegnare una coppa per lei. Sapete dirmi che cosa era inciso su quella coppa?»

Enrico ruotò le gambe sopra il letto, mettendo in mostra per un istante le sue notevoli parti intime, prima di chiudere l’accappatoio. Aggrottò la fronte, pensieroso, e spiegò che era difficile ricordare un simile dettaglio dopo cinquecento anni.

«Posso passare ad altro», propose Gough.

«Era un falcone», affermò Enrico all’improvviso. «Un falcone appollaiato su un letto di rose.»

Gough si girò verso John e annuì.

«Voi avete svolto un ruolo significativo per Cambridge, la mia università», proseguì Gough. «Sapete dirmi quale?»

«Già, ho letto nel vostro libro che siete uno studioso del Trinity. Volete che vi racconti la sua origine?»

Gough annuì di nuovo.

«I college di Cambridge erano ricchi e possedevano molte terre, ma tra le altre cose custodivano anche dei sentimenti cattolici. Poiché mi stavo impadronendo delle proprietà del clero, i direttori di diversi college chiesero alla regina, Caterina Parr, di convincermi a non espropriare i beni dell’università e a non chiuderla. Così, per ragioni di economia, ho unito due college, Michaelhouse e King’s Hall, e un certo numero di ostelli, fondando il Trinity. Sono lieto che esista ancora.»

«Anche questo è esatto», confermò Gough. «Nel 1513, eravate al comando dell’esercito inglese durante l’invasione della Francia, dove avete conquistato alcune città. Sapete dirmi quali?»

«Lo ricordo come fosse ieri. Thérouanne e Tournai. Furono piccole vittorie, ma gloriose per il giovane uomo che ero a quel tempo.»

«Grazie», disse Gough. «Adesso vorrei farvi una domanda che ho sempre sognato di porvi. La richiesta d’invalidare il vostro matrimonio con la regina Caterina d’Aragona si fondava sulle sue precedenti nozze con vostro fratello. Lo stato civile della regina era un punto cruciale nella petizione che avete inviato al papa. Spero di non offendervi, ma posso chiedere se Caterina era davvero vergine quando l’avete sposata?»

Enrico guardò il professore in cagnesco. John pensò che Gough sarebbe fuggito dalla stanza terrorizzato, invece il re iniziò a ridere fragorosamente dandosi delle pacche sulla coscia nuda.

 

 

Un elicottero Merlin Mk4 della RAF, dotato di telecamere ad alta risoluzione per la visione notturna, si avvicinò a Leatherhead da sud. L’equipaggio era composto da tre ufficiali di volo e due tecnici delle telecomunicazioni.

Il pilota chiamò il sottotenente Venables, che aveva sentito il rumore delle pale ancora prima che la voce del pilota lo raggiungesse attraverso le cuffie.

Dopo essersi scambiati i saluti di circostanza, il pilota spiegò: «V’invieremo le immagini in tempo reale. Le interessa qualcosa in particolare?»

«Lo Swan Shopping Centre e Bridge Street, vicino alla nostra posizione.»

«Ricevuto. Restate in attesa.»

L’elicottero scese velocemente sopra il posto di blocco dei Marines: Venables aprì il notebook per connettersi al portale delle comunicazioni della RAF. Sullo schermo apparvero le immagini stabilizzate del cavalcavia.

Il Merlin sorvolò a bassa quota la città e si avvicinò al centro commerciale. Venables scorse una persona uscire da un edificio, agitando freneticamente le mani per chiedere aiuto. Poi, in North Street, un assembramento di una trentina di uomini sollevò gli occhi al cielo, senza sventolare le mani né fare altri segnali.

Venables fece uno screenshot e chiamò il suo sergente. «Credo che siano la feccia che ha scatenato l’inferno là dentro.»

«Perché non ci autorizzano a entrare in azione? Daremmo loro una bella lezione.»

«Piacerebbe anche a me, ma ci tengono al guinzaglio. A quanto pare, anche se il comando sa chi sono quegli uomini e cosa vogliono, si guarda bene dal dirlo.»

«Se mia moglie e i miei figli fossero lì dentro, non riuscirebbero certo a tenermi qui buono buono», concluse il sergente.

L’elicottero continuò a tracciare cerchi sempre più stretti, fino a trovarsi quasi sopra il centro commerciale e l’ampio parcheggio multipiano.

Venables studiava le riprese delle telecamere e, quando le immagini iniziarono a ruotare all’impazzata, alzò lo sguardo, allarmato. Da lontano, lui e il resto della squadra videro l’elicottero avvitarsi e poi abbattersi sul tetto del parcheggio, esplodendo in una palla di fuoco.

 

 

Il pilota del Merlin sbatté le palpebre, incredulo.

Era immerso nel buio. L’elicottero era scomparso. Anche il casco e la tuta di volo erano scomparsi. Sentì le urla del resto dell’equipaggio mentre precipitava verso la morte.

Cinque corpi con le ossa spezzate giacevano in un vicolo dietro una fila di casette basse in un’altra Leatherhead, una piccola città nella Britannia, all’Inferno.

 

 

Il primo ministro Lester terminò la telefonata con il presidente Jackson e alzò il volume del televisore installato nello schienale della Jaguar di servizio. Un giornalista della BBC trasmetteva dalla Borsa di New York, dove erano state sospese le contrattazioni dopo il drammatico crollo dei mercati americano ed europeo. Lester si rivolse al capo di gabinetto, che era seduto accanto a lui. «Stasera dobbiamo rilasciare una dichiarazione per calmare le acque, altrimenti questo casino sarà niente in confronto a ciò che accadrà.»

«Vuole che le chiami il cancelliere?»

«Solo quando sapremo cosa dire. Dobbiamo dare ulteriori spiegazioni su quello che sta succedendo. Ma fin dove possiamo spingerci? È questo il problema.»

«Fin dove vogliamo, parola ’Inferno’ esclusa, direi.»

«Già.» Abbassò il volume del televisore e le sirene dei motociclisti della scorta penetrarono nell’auto insonorizzata.

Il telefono del capo di gabinetto squillò. «Una chiamata da Parigi. È il presidente Rembert.»

«Quanto ci vuole per Windsor?» chiese il primo ministro all’autista.

«Dieci minuti, signore.»

«Va bene, passamelo.» In quel momento, il suo cellulare privato squillò. Guardò il nome sullo schermo e rispose. Dopo una breve conversazione, concluse la chiamata dicendo: «Abbiamo appena perso un elicottero della RAF sopra Leatherhead».

 

 

Il primo ministro fu scortato nella Garter Throne Room. La regina era seduta su una delle poltrone imbottite allineate di fronte al trono rosso riccamente decorato, collocato su una piattaforma rivestita di moquette. Stava giocherellando con i guanti. Quando Lester entrò, esclamò: «Ah, è qui».

«Sua maestà, come sta?» domandò lui, tendendole la mano.

«Sono molto addolorata per gli eventi di oggi, come può immaginare. Inoltre mi è sembrato un gesto vile lasciare Londra per trasferirmi qui, nel castello di Windsor.»

«Finché non capiremo meglio come agire, è la soluzione più prudente», rispose Lester, sedendosi accanto a lei. «Windsor al momento dovrebbe essere un posto sicuro. Se le cose dovessero degenerare, il mio consiglio è che si sposti a Balmoral.»

«Affronteremo quest’argomento più tardi, Peter. Ora i miei pensieri sono rivolti all’uomo che sta per arrivare. Lei è assolutamente certo che sia chi sostiene di essere?»

«Per quanto incredibile, sembra che sia proprio lui. Abbiamo diversi elementi che lo confermano. Il primo è il professor Malcolm Gough di Cambridge, uno dei massimi studiosi dei Tudor. Afferma che solo re Enrico, o un esperto di re Enrico, avrebbe saputo rispondere in modo corretto alle domande che gli ha posto. Se a questo aggiungiamo la testimonianza di Mr Camp e della dottoressa Loughty, abbiamo importanti prove indiziarie. Il secondo elemento a sostegno è di carattere scientifico. Nel pomeriggio i medici hanno eseguito un test del DNA. Sebbene non si conoscano discendenti di Enrico VIII ancora in vita, è stato possibile confrontare le sue caratteristiche genetiche con quelle di diversi individui che discendono da sua sorella, Margaret Tudor. L’analisi dei risultati conferma la linea di parentela.»

«Potreste analizzare anche il mio DNA», affermò la regina. «Credo che sia il mio proprozio di dodicesimo grado.»

«Possiamo farlo, certo», concordò il primo ministro.

«Be’, non so proprio cosa pensare», proseguì la regina. «Ho scambiato due parole con l’arcivescovo di Canterbury. È un po’ meno incredulo di molti altri circa l’esistenza di un luogo chiamato Inferno, ma è comunque sbalordito.»

«Lo immagino...»

«Intanto che aspettiamo, perché non mi aggiorna sugli ultimi sviluppi?»

«Abbiamo isolato Leatherhead, Sevenoaks, Dartford e Upminster, oltre a due complessi residenziali già compromessi, Iver e South Ockendon. Temiamo perdite ingenti, in particolare a Leatherhead. E un elicottero Merlin della RAF è appena precipitato, sempre a Leatherhead: il ministero della Difesa sta valutando l’opportunità di avviare un’operazione di ricerca e soccorso.»

«Santo cielo», esclamò la regina con un forte sospiro. «Ho saputo che il figlio di Jeremy Slaine è uno dei ragazzi scomparsi dalla scuola di Sevenoaks.»

«Sfortunatamente, sì.»

Un funzionario reale bussò alle pesanti porte della sala del trono e annunciò l’arrivo degli ospiti. Subito un contingente di addetti alla sicurezza della regina entrò in fila nella sala, schierandosi lungo le pareti.

«È necessario?» chiese la regina.

«È una saggia precauzione, maestà», rispose il primo ministro.

Un uomo entrò da una porta laterale, aprì un treppiede e vi fissò una videocamera.

«Mi hanno suggerito che sarebbe stata una negligenza da parte nostra non immortalare questo evento per i posteri», spiegò la regina.

«Sono d’accordo, anche se dubito che queste riprese verranno mai mostrate in pubblico», osservò Lester.

«Questo lo decideremo poi», tagliò corto la regina. Si alzò, andò a sedersi sul trono con il monogramma ricamato e indossò i guanti bianchi.

Rimasero in attesa. Poi le porte si riaprirono e tre uomini entrarono nella sala. Nessuno fece caso a Malcolm Gough e a John Camp. Tutti gli occhi erano puntati sull’uomo al centro, alto quanto gli altri due.

Enrico indossava gli stessi abiti che aveva a Dartford, quando John lo aveva preso in ostaggio. Mentre si trovava al Royal Hospital, erano stati fotografati, ispezionati e scrupolosamente puliti da una tintoria di Londra specializzata nel lavaggio di costumi di scena. Si trattava di un completo da caccia, non certo il più elaborato che possedeva, e tuttavia piuttosto vistoso. La tunica che arrivava al ginocchio, indossata sopra una camicia bianca con la scollatura tonda, era finemente decorata con disegni a rilievo in porpora e oro. Si apriva sotto la vita, rivelando la sfrontata protuberanza di una brachetta gialla, che catturò lo sguardo della regina per un secondo. Enrico aveva un paio di morbidi stivali da equitazione alti, calzoni cremisi aderenti, un ampio mantello marrone bordato di pelliccia che ricadeva sulla tunica e un cappello piatto a tesa larga ornato di piume. Gli erano state proposte diverse acque di colonia, e lui ne aveva scelta una dal profumo di gelsomino e rosmarino con cui si era cosparso generosamente.

Enrico lanciò un’occhiata fugace alla magnificenza della sala, con le pareti rivestite di pannelli di legno, l’alto soffitto dagli stucchi dorati, i ritratti della regina e dei suoi predecessori da Giorgio I in avanti. Ma, con rispetto, riservò la sua attenzione alla regina.

Sembrò intuire fino a che punto gli fosse consentito avvicinarsi. John e il professore fecero qualche passo indietro.

Enrico si tolse il cappello e, senza fare l’inchino, disse: «Vostra maestà».

John notò che le mani della regina, giunte in grembo, tremavano.

Recuperando l’abituale compostezza, la regina rispose: «Vostra altezza reale, non trovando parole più adeguate, vi darò semplicemente il bentornato al castello di Windsor».

«Sebbene sia notte, le vostre meravigliose illuminazioni mi hanno mostrato che il palazzo è assai cambiato dai miei tempi», osservò Enrico. «Lo trovo splendido, in verità.»

«Vi prego, accomodatevi», lo invitò la regina.

«Vi ringrazio.» Con il cappello fece un cenno verso la videocamera. «Si tratta di una qualche sorta di arma?»

Sedendosi con il professore accanto a lui, John gli spiegò che quella macchina serviva a registrare le sue parole e la sua immagine. Il re si strinse nelle spalle con indifferenza.

«Vorrei presentarvi il primo ministro del Regno Unito, Peter Lester», proseguì la regina.

Lester pronunciò un breve discorso di benvenuto, ma Enrico aveva occhi solo per la regina.

Quando il primo ministro si sedette, il re osservò: «Questo raffinato studioso, mastro Gough, è stato il mio tutore nelle ultime ore. Egli mi ha istruito sullo stato del governo di vostra maestà. In verità, conosco bene il vostro regno e molti dei monarchi ritratti in questi dipinti. Studio sempre con diligenza le cronache dei nuovi arrivati nel mio dominio. Lo faccio da circa cinquecento anni».

«Ammetto il mio enorme stupore nell’apprendere dell’esistenza del posto da cui venite, mio buon re», rispose la regina. «È difficile coglierne tutte le implicazioni teologiche e scientifiche. Ed essere seduta qui a parlare con uno dei più grandi protagonisti della storia inglese, be’, mi turba profondamente.»

«Potete ringraziare quest’uomo, John Camp, per la mia presenza. È stato lui a farmi prigioniero e a portarmi in gran segreto da voi. Ma anch’io gli devo gratitudine perché oggi, nel vostro ospedale reale, ho guardato fuori della finestra e ho visto qualcosa che pensavo di non rivedere mai più: il sole.»

La regina si rivolse a John. «Le sono grata per il servigio che ha reso e per il suo coraggio. Ma di questo parleremo al momento opportuno.»

John annuì, chinando il capo.

Poi la regina disse ancora a Enrico: «Devo riconoscere che sono rimasta sorpresa nell’apprendere che, dopo la vostra morte, siete stato inviato nel vostro attuale regno».

«Inferno», precisò Enrico. «Potete chiamarlo con il suo nome. Vi posso assicurare che nessuno ne è stato più sorpreso di me, perché non una sola volta ho ucciso o mutilato un uomo con le mie mani. E, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la grandezza e la gloria dell’Inghilterra.»

«So che avete avuto una giornata difficile e faticosa. Ma ci sono così tante domande che vorrei porvi riguardo a... sì, lo dirò, riguardo all’Inferno.»

Enrico sorrise raggiante e si rilassò sulla poltrona: divaricando le gambe con noncuranza, mise in mostra la braghetta. «Non c’è nulla che mi farebbe più piacere. Ho saputo che non siete mia discendente in linea diretta, tuttavia siete una regina d’Inghilterra e io provo nei vostri confronti un’affinità e un affetto che riscaldano il mio vecchio cuore e confortano la mia anima dannata. Domandate quello che desiderate, e io cinguetterò le mie risposte come un uccello liberato dalla gabbia e restituito alla sua verdeggiante foresta.»