12

Heath non era molto interessato a Leatherhead. Dopo l’attacco ai soldati, aveva guidato la banda verso nord. Verso Londra. Fedeli alle proprie abitudini da erranti, lui e i suoi cinquanta uomini si nascondevano durante il giorno per spostarsi di notte. L’A24 non esisteva ancora ai suoi tempi, eppure l’istinto gli aveva suggerito di seguirla, attraversando Epsom e Mitcham, fino a Wandsworth. La prima notte avevano fatto irruzione in una grande casa di campagna, dove avevano massacrato una famiglia di sette persone che aveva ignorato l’ordine d’evacuazione. E, se non fosse stato per una dispensa ben fornita, sarebbero diventate cibo per cannibali. La seconda notte si erano introdotti in diverse villette a schiera, ma nessuna abbastanza grande da nasconderli tutti. In quell’occasione avevano banchettato con carne umana. L’eroinomane aveva lasciato la banda e nessun altro aveva familiarità con il mondo moderno: Heath, un uomo del XIX secolo, era stato uno degli arrivi più recenti all’Inferno. Per puro caso avevano scoperto come usare gli interruttori della luce e i rubinetti, e la funzione dei frigoriferi.

«A cosa serve?» aveva chiesto Monk, premendo il pulsante dello sciacquone del water.

«Potrebbe essere una specie di cesso», aveva risposto Heath.

«E che cos’è?»

«Non importa. Cagate in giardino e smettetela di farmi domande.»

Dormivano durante il giorno e scorrazzavano al calar delle tenebre. La terza notte si erano trovati sulla sponda meridionale del Tamigi, a Battersea.

Heath guardò il panorama del XXI secolo sulla riva opposta e inalò gli odori salmastri. «Non è come lo ricordavo. C’era un sacco di attività ai miei tempi, ma non come ora.»

«Io non riconosco niente», commentò Monk, grattandosi la barba ispida, sconcertato dalle luci di un aereo che sfrecciava nel cielo notturno.

«Il tempo non si ferma mai», replicò Heath. «Le cose cambiano. Perché diavolo siamo stati riportati indietro?»

«Ci è stata data una seconda possibilità, ecco cosa penso», affermò un errante.

Pensando alla carneficina di cui si erano resi responsabili da quando erano tornati sulla Terra, Heath replicò: «Credo che non finiremo in Paradiso nemmeno la prossima volta».

«Dove andiamo, allora?» chiese Monk.

«Laggiù.» Heath indicò il cuore della città, sull’altra sponda del fiume. «Ecco dove andremo.»

 

 

Per quasi una settimana, Dirk e Duck non uscirono quasi mai dalla loro casetta. Più di tutto, temevano che Cromwell potesse tornare per avere notizie su re Enrico. Il consigliere aveva lasciato a Dartford un manipolo di soldati, nel caso in cui il sovrano fosse riapparso all’improvviso. I soldati non avevano creato nessun problema ai due fratelli, tanto più che Dirk aveva lasciato bere loro tutta la birra che aveva, promettendo che sarebbero stati i primi ad assaggiare il nuovo barile in preparazione. Ma Cromwell era di tutt’altra pasta. Il suo volto scuro e la lingua tagliente li spaventavano a morte, perciò volevano essere ben nascosti, se fosse arrivato al villaggio. Tirarono avanti grazie alle scorte di carne secca e mangiarono tutte le radici che avevano. Uno dei loro vicini, un vecchio che aveva qualche gallina, entrò dalla porta sul retro per vedere se avevano della birra da vendere. Quella di Dirk era la migliore in circolazione e valeva quanto le monete di rame.

«Ancora qualche giorno. Sto preparando due barili. Uno per gli uomini del re e uno per me e mio fratello. Come stanno i tuoi polli?»

«Belli ruspanti.»

«Non ne hanno rubato nessuno?»

«Non con i soldati in giro. Almeno tengono lontana la feccia.»

Gli erranti non venivano spesso a Dartford. C’erano bottini più ricchi altrove. Il problema erano gli spazzini, uomini come la loro vecchia nemesi, Brandon Woodbourne, non abbastanza depravati da unirsi a una banda d’erranti, eppure troppo aggressivi per vivere in un villaggio o in una città.

«Nessuna traccia di Woodbourne?» chiese Duck, la fronte aggrottata per la preoccupazione. Woodbourne aveva vari conti in sospeso con loro, e Duck viveva nella paura che prima o poi mettesse in atto le sue perenni minacce di fargliela pagare per avergli negato un pollo tempo addietro.

«Non l’ho visto, ma pare che ieri girasse qui attorno», rispose il vecchio.

«Hai delle uova?» domandò Duck. «Mi piacerebbero proprio delle uova fritte.»

«Potrei averne qualcuna da parte.»

«Faremo così», propose Dirk. «Tu ci dai quattro belle uova e in cambio noi ti daremo un boccale di birra del nuovo barile.»

Il vecchio stava riflettendo sul baratto, quando sentirono delle grida arrivare dalla strada. Si affacciarono alla porta d’ingresso e videro alcuni abitanti del villaggio che indicavano qualcosa e parlavano concitati.

«Cos’è questo trambusto?» gridò Dirk.

«I soldati», lo informò un uomo. «Li ho visti dirigersi verso casa di Alfred e poi sparire. Erano lì e poi non c’erano più!»

Il vecchio era in piedi dietro i fratelli e gridò dritto nelle loro orecchie: «Non hai bevuto, vero?»

Duck si massaggiò l’orecchio destro. «Mi farai diventare sordo, vecchio!»

«Come potremmo essere sbronzi?» replicò l’uomo in mezzo alla strada. «Stiamo tutti aspettando che Dirk prepari un nuovo barile, proprio come te.»

Il pensiero delle uova svanì con la stessa rapidità dei soldati, e i fratelli cacciarono via l’uomo dei polli.

«Penso di sapere cos’è accaduto», affermò Duck.

«Credi siano finiti dov’eri tu?»

«Proprio così.»

«Allora dove sono quelli che sono stati barattati con loro?»

«Hai ragione», rifletté l’altro. «Ogni volta che qualcuno di noi è stato mandato lì, qualcuno di loro è finito qui. Però non c’è nessuno al loro posto.»

I fratelli passarono il resto della giornata e parte della serata a discutere sul da farsi. Ognuno dei due cercava di far valere le proprie ragioni.

«Qui siamo mezzi affamati», commentò Duck. «Non puoi immaginare com’è squisito il loro cibo. Ti ho detto della pizza, vero?»

Dirk rispose che era stufo di sentir parlare di quelle focacce piatte.

«Sì, ma non ti stuferesti di mangiarle. E torte e frutta succosa e tanto altro ancora. E video su sirene e abitanti delle nevi. E...»

«E ti sei dimenticato che ti hanno tenuto rinchiuso e ti hanno mandato indietro quando non servivi più.»

«Non mi dispiaceva essere rinchiuso. Molto meglio del giorno in cui ho vagato libero. Voglio provare ad attraversare», insistette Duck. «La mia Delia si prenderà cura di me. E ascolta quello che ti dico, Dirk: lo farò anche senza di te. Ma noi siamo fratelli e vorrei averti al mio fianco.»

Scese il crepuscolo. Mentre Dirk era intento a controllare i barili, Duck camminava avanti e indietro nella loro piccola casetta e ogni tanto apriva le imposte per sbirciare la strada buia. Alla fine non riuscì più a trattenersi. «Fratello, ti voglio un mondo di bene, ma devo andare. Se fossi stato lì e avessi visto le cose che ho visto io, verresti con me.» Poi strinse Dirk tra le braccia, lo baciò sulla guancia e uscì.

S’incamminò lentamente lungo la strada che portava alla casa di Alfred. Mentre si avvicinava al punto in cui i soldati erano stati visti per l’ultima volta, sentì alle spalle il rumore di un altro paio di piedi che sguazzava nel fango.

«D’accordo, vengo con te», disse Dirk. «Lo sai, vero, che ruberanno tutta la mia birra?»

«Hanno birra di ogni genere dove stiamo andando. In bottiglia, in lattine di metallo, in qualunque modo ti piaccia. Vieni, dammi la mano, così non saremo separati durante il viaggio.»

Avanzarono tenendosi per mano.

All’improvviso si trovarono sulla linea di servizio di un campo da tennis. Alla loro destra c’erano i bassi edifici del complesso del MAAC, illuminati dalle luci di sicurezza.

Dirk iniziò a tremare, ma Duck lo rassicurò dicendo che andava tutto bene, anzi più che bene. Era perfetto. Sapeva esattamente dove si trovavano, proprio vicino alle meraviglie che aveva decantato.

«Ma è una gigantesca gabbia», gridò il fratello, tendendo la mano per toccare la rete metallica. «Una volta ho visto un orso rinchiuso in una gabbia come questa, e quella bestia non ha fatto una bella fine.»

«Si chiama campo da tennis. È un gioco che fanno nei tempi moderni.»

«Dentro una gabbia?»

«Vieni con me. Vedi quelle costruzioni laggiù? E lì che tengono tutte quelle cose buone da mangiare. Bussiamo alla porta: quando vedranno che il vecchio Duck è tornato, di sicuro ci faranno entrare. Però dobbiamo procedere con prudenza, perché potremmo imbatterci nei soldati che hanno attraversato il passaggio prima di noi.»

I terreni attorno al MAAC erano bui, ma il cielo notturno era luminoso.

Dirk, incantato, indicò la luna crescente e l’Orsa Maggiore. «Guarda, Duck! Le stelle! All’Inferno non le abbiamo viste nemmeno una volta.»

«E aspetta che sia mattino!» replicò Duck. «Vedrai anche il sole. È uno spettacolo emozionante.»

Duck stava conducendo il fratello verso il laboratorio, quando sentirono il cancello del campo da tennis aprirsi scricchiolando.

Una figura massiccia iniziò a correre verso di loro.

Duck restò paralizzato dal terrore e in pochi secondi l’uomo li raggiunse.

Duck era troppo spaventato per pronunciare quel nome, ma Dirk non aveva paura. «Woodbourne. Sei tu.»

«Guarda un po’ chi c’è, Duck e Dirk.»

«Ti prego, non farmi del male», lo supplicò Duck, cadendo in ginocchio. «La prossima volta ti darò tutti i polli che ho. Giuro che lo farò.»

«Non riesco a credere di essere tornato indietro un’altra volta.» Gli occhi neri di Woodbourne riflettevano la luce della luna. «Non ti preoccupare, povero stronzo, ho cose più urgenti da fare che vendicarmi. Avete visto se ci sono guardie?»

Duck si alzò. «Nessuna. Né quelle moderne né gli uomini del re.»

«Gli uomini del re sono qui?»

«Un intero plotone, o almeno così ci è stato detto», rispose Dirk.

«Strani tempi, ma non mi lascerò scappare quest’occasione. Io me la svigno. Non dite di avermi visto, o la prossima volta che le nostre strade s’incroceranno taglierò la testa a tutt’e due.»

«Terremo la bocca chiusa», promise Duck. «Dove vai?»

Woodbourne non rispose. Si lanciò attraverso il prato e scomparve nell’oscurità.

«Dio, quanto mi spaventa quell’uomo», confessò Duck. «Me la sono quasi fatta nei pantaloni. Sono contento che se ne sia andato. Non mi fido per niente.»

Duck cercò di aprire la porta da cui passava con Delia quando andavano a fare due passi fuori del laboratorio. Era chiusa a chiave.

«E adesso?» chiese il fratello.

Duck gli disse di rimanere lì, poi raccolse un sasso dalle aiuole e lo scagliò contro il vetro.

Dirk ridacchiò, commentando che bisognava essere proprio stupidi per fare una porta di vetro.

Mentre entravano, Duck chiamò le due persone che conosceva meglio, Delia e Barry, una delle guardie di sicurezza. «Delia, sono tornato. Barry, ci sei?» Guidò il fratello per i corridoi vuoti e bui, rischiarati solo dalle luci di sicurezza gialle e dai segnali luminosi rossi che indicavano le uscite.

«Qui dentro è come un castello», commentò Dirk. «Ma non uno di quelli vecchi e puzzolenti.»

«È immenso, vero? Seguimi. Ti faccio vedere dove mi tenevano.»

La porta della prigione costruita per rinchiudere i dannati era spalancata e le celle erano sbloccate. Duck si affrettò verso la sua stanza e, quando il fratello lo raggiunse, gli mostrò con entusiasmo tutte le comodità: il letto, il televisore, la doccia e il gabinetto. Tirò lo sciacquone più volte, spiegando il meraviglioso effetto ora-c’è-ora-non-c’è-più.

«E adesso la parte migliore. Ti faccio vedere dove tengono da mangiare.»

La cucina era dietro l’angolo. Ai detenuti il cibo veniva portato su un vassoio, ma Delia a volte lo aveva accompagnato nella dispensa per prendere qualche merendina. Erano rimaste ancora molte provviste: biscotti e cracker, minestre in barattoli con le linguette che Duck aveva imparato ad aprire, bibite in lattina, bottiglie di birra, burro d’arachidi, gelatina, pancarrè. E, per finire, nel freezer, il vero pezzo forte: barattoli di gelato. Prese quello al cioccolato e ne offrì una cucchiaiata al fratello.

«Cosa devo farci?» chiese Dirk, annusandolo.

«Lo lecchi e poi lo mastichi.»

Dirk gli diede una leccata. Fece un largo sorriso e ripeté il gesto, finché sul cucchiaio non ne rimase più.

«Cosa ti avevo detto?»

«È una meraviglia. Posso averne ancora?»

«Puoi prenderlo tutto. Io mangerò questo bianco. Ce li portiamo nella mia stanza e ti faccio vedere i miei video preferiti sulla macchina della televisione.»

 

 

Delia stava provando a rilassarsi con l’aiuto di una fumante tazza di cioccolata calda. Dopo il suo ritorno sulla Terra, si era trasferita a casa della madre, nei Cotswolds. L’anziana donna era ancora lucida e avrebbe potuto comprendere il calvario della figlia, ma lei aveva preferito non rivelarle niente. E in fondo la madre era abituata a sentirla parlar poco del suo lavoro. Delia si era limitata a dirle che il suo ultimo incarico l’aveva stremata. Eppure, mentre si affaccendava per la casa, la donna continuava a sbirciare preoccupata la figlia, che sembrava sempre inquieta e trascorreva gran parte del suo tempo, anche troppo in verità, a guardare fuori della finestra, rosicchiandosi le unghie.

«Stanno accadendo cose spaventose, a Londra», mormorò la madre, angosciata, guardando il telegiornale del mattino.

«Sì, spaventose.»

«Immagino che i tuoi colleghi siano coinvolti.»

«È probabile.»

Il telefono squillò. L’anziana prese la chiamata e passò il ricevitore a Delia. «È un certo Wellington, chiama da Londra.»

Delia posò la tazza di cioccolata.

«Come stai?» domandò Ben.

«Insomma», rispose lei con voce piatta.

«Be’, ci vuole tempo. Senti, mi dispiace disturbarti. Ho provato a chiamarti sul cellulare, ma non hai risposto. L’ufficiale di servizio aveva il tuo numero secondario. Hai lì il computer?»

La donna andò a prenderlo in camera. In casa della madre non c’era il wi-fi, perciò usò la connessione del cellulare per scaricare il file che Ben le aveva inviato.

«Gesù... Di quand’è?»

«Circa un’ora fa. Sono scattati gli allarmi silenziosi e abbiamo dato una rapida occhiata. Loro erano lì.»

«Chi non muore si rivede», commentò Delia.

«Esatto. Sai dirmi chi è l’altro?»

«Suo fratello, Dirk.»

Il video mostrava la vecchia cella di Duck. I due ragazzi erano sdraiati fianco a fianco sulla branda, a mangiare gelato. Guardavano La sirenetta.

«Abbiamo tracciato il profilo di Duck e siamo abbastanza sicuri che non costituisca una minaccia», spiegò Ben. «Ma volevamo capire se quest’altro può creare problemi.»

«No, è innocuo. Spero che non sia richiesta la mia presenza lì per far loro da babysitter. Non me la sento, nello stato in cui mi trovo.»

«No, per carità. Hai fatto più che abbastanza. E non sarebbe possibile nemmeno se lo volessi: il MAAC è off limits, quindi non potremmo andarci comunque. Ci limiteremo a tenerli d’occhio e vedremo cosa faranno quando avranno esaurito le scorte di viveri.»

«Duck mangia come un lupo», spiegò Delia. «Come stanno John, Emily e Trevor?»

«Sono partiti in missione con uno squadrone del SAS. Devono trovare Paul Loomis e chiudere i passaggi interdimensionali.»

«Oh, Dio...» Iniziò a piangere e riagganciò senza salutare.

 

 

Per tutta la notte, un flusso incessante di dannati si materializzò all’esterno del MAAC. Erano quasi tutti uomini e venivano da Bexley e Gravesend, le città dell’Inferno vicine al villaggio di Dartford. Tutti avevano percorso la strada fangosa vicino alla casetta di Dirk e Duck, convinti dai racconti di un passaggio miracoloso che li avrebbe riportati nel mondo che avevano lasciato all’istante della morte.

Quando arrivavano sulla Terra, trasportati in modo rapido e indolore, si aggiravano storditi sui campi da tennis, cercando di assimilare la bizzarra visione di terreni ben curati, luci elettriche, edifici moderni, recinzioni di sicurezza e automobili parcheggiate. Nessuno si avvicinò alla porta in frantumi che conduceva all’interno del laboratorio. Attraversavano il parcheggio e si dirigevano verso la città, facendo irruzione nelle case lungo la strada per razziare cibo e bevande. L’area attorno al MAAC era stata evacuata, eppure alcuni residenti avevano ignorato gli ordini ed erano rimasti. Quando si trovavano faccia a faccia con i dannati, rimpiangevano quella scelta. Sebbene non si cibassero di carne umana come gli erranti, non si facevano certo scrupoli a uccidere.

Mentre i dannati correvano qua e là in uno stato d’incontenibile euforia, Brandon Woodbourne agì in modo ponderato e mirato. Fece irruzione solo nelle abitazioni abbandonate con un’auto nel vialetto o nel box, alla ricerca delle chiavi. Alla fine, in un’elegante villetta trovò quelle di una Volvo e una mannaia in cucina. Poco dopo già guidava verso ovest, lungo strade familiari. Era sorpreso dalla mancanza di traffico rispetto alla sua ultima visita sulla Terra. Si mise a premere i pulsanti sul cruscotto nella speranza che la radio prendesse vita. Dopo qualche tentativo, l’abitacolo fu riempito dalla voce di un uomo che stava avvertendo i residenti di Londra e delle contee limitrofe che non erano riusciti a fuggire di restare in casa, sbarrando porte e finestre. La BBC informava che le chiamate d’emergenza erano in aumento, ma che nella maggior parte dei casi i soccorsi non erano in grado d’intervenire.

Woodbourne continuò a guidare, chiedendosi se lei fosse ancora lì e cosa le avrebbe detto se l’avesse trovata.

 

 

Come il cane che torna dove ha seppellito l’osso, Heath guidò la banda attraverso le strane, oscure e in gran parte deserte strade di Londra, a est, verso Shoreditch. Durante il tragitto, s’intrufolarono nei pochi locali pubblici ancora aperti, massacrando i proprietari e violentando mogli e figlie. Pieni di birra e di gin, si fecero sempre più audaci, sfondando a calci le porte e le finestre di appartamenti e negozi, rubando argento, gioielli e monete, senza toccare le banconote, di cui ignoravano il valore. In realtà non sapevano cosa farsene del bottino. Ma molti erano stati ladri sulla Terra e il furto ce l’avevano nel sangue. Monk emerse da una cabina armadio con indosso la giacca di uno smoking e una collana di perle, facendo sbellicare dalle risate Heath, ubriaco come sempre.

Nel corso del XIX secolo, l’East End di Londra, e Shoreditch in particolare, erano stati il centro dell’industria dell’artigianato e del tessile. Da ragazzo Heath era un pastore, poi un giorno ne aveva avuto abbastanza dei calci e dei pugni che il padre gli dava per ogni più piccola disobbedienza ed era fuggito a Londra, dove aveva trovato un lavoro accanto ai puzzolenti tini per la tintura. Mentre con il tempo si trasformava in un vero duro, che preferiva il crimine alla cenciosa rispettabilità degli operai, la sua decadenza morale procedeva di pari passo con il declino di Shoreditch, che era diventato l’epicentro della malavita e della prostituzione della scena londinese. Un uomo come lui era perfetto per un posto come quello e, mentre piacevoli ricordi turbinavano nel suo cervello febbricitante, cercò di dare un senso alla geografia del moderno borgo di Hackney. «Non me lo ricordavo così», affermò, girando su se stesso sul marciapiede, alla testa del suo branco di erranti ubriachi. «È tutto fuori posto.»

«Se non lo ricordi tu, figurati io», replicò Monk, mettendosi a urinare sul posto. «Ai miei tempi, che erano molto prima dei tuoi, mi avventuravo di rado a Londra. Che cosa stai cercando?»

«Il mio vecchio nascondiglio. Io e i miei compagni ci rintanavamo nella cantina di un edificio vicino alla linea ferroviaria. Voglio ritrovarlo, se non è stato demolito. Mi ricordo bene quel posto. Bei ricordi.»

«Be’, allora troviamolo», lo esortò Monk, incamminandosi a zigzag. «Guarda là, una taverna!»

Non ci fu certo bisogno di convincere gli altri. Nel giro di qualche minuto avevano già fatto irruzione in un altro pub con le persiane sbarrate, rubando bottiglie dal bar. Heath aspettava fuori, cercando un punto di riferimento che lo potesse aiutare. Poi lesse il nome della strada sul muro di un edificio. «Cazzo! Shoreditch High Street. So dove siamo. Monk! Vieni fuori di lì. Andiamo da quella parte!»

 

 

Benona Siminski era sconvolta. Gli ultimi due mesi erano stati terribili e, proprio quando pensava che le cose non sarebbero potute andare peggio, il peggio accadde. La sua adorata figlia Polly aveva la febbre alta. Due mesi prima, erano rimaste ostaggio di un dannato, Brandon Woodbourne, finché questi non aveva ucciso due poliziotti e una donna dei servizi sociali. In seguito, era stata interrogata dagli agenti dell’MI5, che avevano minacciato di espellerla dal Paese se si fosse lasciata sfuggire una sola parola di quello che avevano definito «il gesto sconsiderato di un folle».

«Se Woodbourne è pazzo, perché v’interessa sapere cos’ha detto e fatto?» aveva chiesto.

Non le avevano dato una risposta. Era una questione di sicurezza nazionale.

«E perché su internet c’è il suo certificato di morte, risalente al 1949?»

Quel tipo di documenti online non era affidabile, le era stato detto.

«Bene, non m’interessa», aveva concluso Benona. «Terrò la bocca chiusa. Purché lasciate in pace me e mia figlia.»

Essere lasciate in pace, però, non era stato sufficiente. Restavano le cicatrici emotive. Polly si era chiusa in se stessa. Si rifiutava di tornare a scuola e la notte aveva gli incubi. Benona si era dovuta licenziare dal lavoro con la ditta di pulizie per restare a casa la sera. Sentiva la figlia gridare nel sonno e anche lei faticava a dormire. L’insonnia le logorava i nervi. Se la prendeva con gli assistenti sociali e gli psicologi che la scuola aveva assegnato a Polly. Alla fine era stata etichettata come un genitore in difficoltà e aveva fatto richiesta di un sussidio. Era a corto di denaro.

Poi i guai erano arrivati a Londra. Benona sapeva meglio di chiunque altro di cosa fossero capaci i dannati e aveva paura. I suoi vicini di Glebe Road, a Hackney, avevano seguito gli ordini di evacuazione. Lei aveva pensato di tornare in Polonia, ma non aveva i soldi per il volo, così era rimasta rintanata nel suo modesto appartamento in uno stabile senza ascensore vicino ai binari della ferrovia. Poi, la catastrofe. Polly si era presa una delle sue solite otiti. Il dottore non rispondeva alle chiamate e la guardia medica era chiusa. Polly strillava per il dolore e la febbre continuava a salire. Benona doveva trovare degli antibiotici.

«Tesoro, tu resta qui. Non aprire la porta a nessuno. Vado a prenderti le medicine.»

«Mamma, ti prego, non lasciarmi.»

«Tornerò prima che tu te ne accorga. Sdraiati sul divano a guardare la TV, okay?»

Benona baciò la figlia e presto si ritrovò su Kingsland Road, alle due del mattino.

La strada era deserta, come sempre a quell’ora. Era abituata a girare sola a notte fonda, quando finiva di pulire gli uffici in centro. Ma c’era qualcosa nell’aria immobile che la riempiva di terrore. La farmacia Kingsland era buia, come tutti i negozi. Sapeva che sarebbe stato inutile, ma provò ad aprire la porta. Era chiusa, ovviamente. Un’insegna di metallo era stata lasciata fuori del take-away cinese lì accanto. Benona la sollevò sopra la testa e, chiudendo gli occhi, colpì con forza la vetrina della farmacia. Scattò l’allarme. Fece un passo indietro per controllare se si fossero accese le luci nell’appartamento al piano superiore, ma le finestre rimasero buie. Dopo aver utilizzato l’insegna per levare i frammenti di vetro, s’intrufolò nel negozio. Con l’allarme che le suonava nelle orecchie, trovò l’interruttore della luce e andò sul retro.

Si ricordava il nome dell’antibiotico che era stato prescritto a Polly in passato, così iniziò a cercarlo tra le file di flaconi di plastica. Amoxicillina. Trovò un grosso barattolo da cinquecento pastiglie e, per qualche istante, pensò di prendere solo la dose che le serviva, ma il pensiero di Polly da sola la convinse a prenderle tutte e battere in ritirata.

Uscì dalla finestra rotta con la schiena rivolta alla strada, cercando di evitare il vetro tagliente del davanzale, ma, prima che il secondo piede toccasse terra, avvertì quell’odore che aveva sperato di non sentire mai più.

Lentamente si voltò e si ritrovò a fissare le facce rozze e lascive di Heath e di cinquanta erranti ubriachi.