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Dopo aver riesaminato le simulazioni elaborate dal team di Ginevra, Emily alzò lo sguardo. «Credo che potremmo essere operativi entro domattina.»

Loomis beveva del tè. Anche se era passata ormai una settimana, si godeva ogni sorso esprimendo commenti entusiasti. «Non sembri contenta.»

«Sai bene il perché.»

«Sono preoccupato per le modifiche che abbiamo apportato ai cannoni di particelle. Non è certo un lavoro accurato.»

«Proprio così. In condizioni normali, avremmo dedicato un anno o due solo alla progettazione, avvalendoci del contributo di decine di esperti.»

Lui strinse i pugni, poi d’un tratto stese le dita e girò il palmo delle mani verso l’alto, mimando il gesto di un mago. Voilà! Emily aveva dimenticato che era un suo vezzo.

«Non ci rimane che premere il pulsante e vedere cosa succede», disse lui.

Emily si alzò dalla postazione di lavoro allestita nel centro ricreativo. «Forse faremmo meglio ad aspettare.»

«Mi rendo conto che sei preoccupata per John, ma conosci l’opinione degli alti papaveri del governo. Dobbiamo procedere, e subito.»

«Sì, ma sarò io a premere il pulsante, come dici tu. Se mi rifiuto, non possono farci nulla.»

«È davvero quello che vuoi? Anteporre i tuoi interessi personali al bene di tutti?»

«Senti da che pulpito!» Emily si precipitò fuori della stanza e si rifugiò in bagno, dove si sciacquò il viso e si guardò allo specchio, cercando di calmarsi.

Quando tornò in mensa, Loomis aveva in mano delle armi. «E queste? Le ho trovate a terra.»

«Be’, alcune persone erano armate il giorno dell’ultimo riavvio. Le guardie dell’MI5 e anche Anthony Trotter, credo.» Emily prese le armi e le sistemò sotto un tavolo, in un angolo della sala.

Poi si scusò con Loomis per aver perso il controllo.

«No, hai ragione. Per me, l’egoismo è diventato uno stile di vita. Non sono stato sempre così e spero che tu riesca a ricordare l’uomo che ero. Suppongo di essere cambiato nel momento in cui ho ucciso mia moglie, privando i miei figli della madre e i genitori della figlia. E suicidarmi è stato come suggellare la mia vigliaccheria.»

«Paul, per favore...»

«No, lasciami finire. Purtroppo sono diventato un esperto in materia. Non puoi resistere all’Inferno, se non sei concentrato sulla sopravvivenza e sui tuoi bisogni primari. Io sono stato più fortunato di molti altri. Mi hanno ceduto subito a Stalin e, sebbene in pratica fossi uno schiavo, godevo di certi privilegi, perché le mie conoscenze non erano considerate solo un bene di prima necessità. Mi sarei potuto rifiutare di lavorare per quel mostro, che voleva il mio aiuto per fabbricare armi destinate a causare dolore e morte. Avrei potuto tentare di fuggire. Ma non l’ho fatto. Ho pensato solo a me stesso. Perché ti confesso tutto ciò? Perché tu non sei come me. Sei una persona meravigliosa e altruista, non c’è un grammo di egoismo in te. Per salvare il mondo dalla rovina premerai quel pulsante, anche se ciò significasse lasciare il tuo amore all’Inferno.»

«Hai ragione, farò la cosa giusta. Ma sbagli a credere che all’Inferno regni l’egoismo. Ho incontrato persone che hanno rinunciato al proprio tornaconto in favore di un bene più grande. La prima volta che sono arrivata là, sono stata salvata da un gruppo di donne che si prendevano cura l’una dell’altra. E anche Garibaldi e i suoi sostenitori sono per me fonte d’ispirazione. È vero, ci sono persone orribili che fanno cose orribili, e probabilmente quella è la norma, ma io preferisco pensare alla bontà che può esistere anche nelle persone che hanno ceduto al male. Mi stai ascoltando, Paul? C’è ancora del buono in te.»

Loomis si prese la testa tra le mani e scoppiò in un pianto disperato.

Lei gli si avvicinò e lo strinse in un lungo abbraccio.

«Farò in modo di renderti fiera di me», disse lui. «E di rendere fieri di me anche i miei figli. Non sarà facile, lo so. Mi restano ancora venti, forse trent’anni prima di morire e tornare all’Inferno. E, anche se li trascorrerò tutti in prigione, cercherò di fare del bene, con il mio lavoro, le mie ricerche. Troverò il modo.»

«Ne sono sicura.»

Com’era ormai loro abitudine, si unirono a Dirk e Duck per il pranzo, scaldando nel microonde del cibo surgelato. Erano seduti accanto al letto dei ragazzi, mentre sul televisore, con il volume abbassato, scorreva un video della Disney.

Emily affrontò la questione che li preoccupava di più: «Ho riferito a Mr Wellington il vostro desiderio di rimanere qui».

«Cos’ha detto?» domandò Duck, annusando un piatto di cannelloni.

«Che il governo ha stabilito di far tornare all’Inferno il maggior numero possibile di dannati, prima di chiudere definitivamente il passaggio.»

«E quindi? Cosa significa?» chiese Dirk.

«Che non potete restare.»

«Ma noi non vogliamo!» protestò Duck. «Ci piace questo posto! Hai parlato con Delia?»

«Non direttamente, no», ammise Emily. «Ma Mr Wellington mi ha detto che Delia ha parlato bene di voi.»

Dirk puntò il cucchiaio di plastica verso Loomis. «Tu invece non torni indietro, vero?»

«No, io no.»

«Paul ha delle conoscenze molto speciali, che gli hanno permesso di fare un patto», spiegò Emily.

«Anche noi siamo speciali», protestò Duck. «Dirk sa preparare la migliore birra di Dartford e io so... so... be’, io so aiutarlo!»

Emily sorrise. «Allora, non posso promettervi niente, ma domani saremo molto occupati. Magari non avremo tempo di assicurarci che voi due lasciate l’edificio e raggiungiate i soldati ai margini della zona di confine.»

«Faccio sempre fatica a capire cosa dici, Miss Emily», affermò Dirk.

Duck gli diede una leggera gomitata allo stomaco. «Sta dicendo che possiamo restare!»

 

 

Quella notte, Emily non chiuse occhio: non voleva dormire. Per riposarsi, si sdraiò su uno dei materassi che lei e Loomis avevano preso dalle celle e trascinato nella sala controllo. Ma restò vigile, nel caso John fosse tornato.

Alle sei svegliò Paul, preparò il tè e controllò lo stato di raffreddamento dei venticinquemila magneti collocati nel tunnel del MAAC. Durante la notte, l’elio liquido aveva abbattuto la temperatura dei magneti a 4,5K, ovvero -268,7 ºC. Se tutto fosse proseguito come previsto, nel giro di due ore lei e Loomis avrebbero dovuto avviare il protocollo di raffreddamento finale per raggiungere 1,7K, pari a -271,5 ºC, la temperatura vicina allo zero assoluto necessaria per accelerare i protoni di uranio fino alla massima energia di collisione.

«Nessuna traccia di John?» domandò Loomis.

Lei scosse la testa e cominciò a elencare le voci della check list.

Alle sette in punto, aprirono il collegamento video con Ginevra, dove il team del Large Hadron Collider era pronto a seguire le attività del MAAC e a offrire la propria collaborazione a distanza.

Alle otto, Emily si collegò in videoconferenza con il primo ministro Lester e i membri del governo a Manchester, con Ben Wellington nella sede dell’MI5, con il personale militare della base SAS di Credenhill e con il Drone Warfare Centre della RAF a Waddington.

«Dottoressa Loughty, siamo in grado di rispettare i tempi previsti?» volle sapere il primo ministro.

«Sì. Una volta ricevuta l’autorizzazione finale, entro due ore accenderemo i cannoni di particelle.»

«Funzionerà?»

«Non lo so. Come ho già avuto modo di spiegare, non siamo sicuri che le modifiche che abbiamo apportato al sistema d’iniezione e ai cannoni di particelle siano adeguate. E, se anche lo fossero, non è certo che saremo in grado di eliminare definitivamente gli strangelet. È tutto basato su modelli teorici.»

Lester annuì con espressione cupa. «È stata sincera, ma speravo in una risposta più netta.»

«Anch’io», replicò lei.

«Ci sono obiezioni ad autorizzare il riavvio?» chiese il primo ministro ai partecipanti alla videoconferenza. «No? MI5? No? Credenhill, i vostri sono in posizione?»

«Sì, siamo in posizione, signor primo ministro», rispose il maggiore Gus Parker-Burns, l’ufficiale al comando del 22º Reggimento SAS. «Abbiamo tre squadre di supporto di tre uomini ciascuna, nelle zone di confine di Leatherhead, Dartford e Sevenoaks. Riteniamo probabile che la truppa schierata a Upminster sia stata sopraffatta dai dannati tre settimane fa. Purtroppo, inviare una squadra di supporto non sarebbe né sicuro né utile.»

«RAF di Waddington, voi cosa dite?» chiese Lester.

«Il nostro intero contingente di droni Reaper e Predator è in volo sopra l’area metropolitana di Londra, e abbiamo anche il supporto di venti droni dell’aeronautica degli Stati Uniti», rispose il generale di brigata. «Le zone di confine sono sotto controllo.»

«Se il riavvio del collisore non portasse al risultato previsto, e anzi dovesse aggravare il problema, i droni sarebbero la nostra prima difesa. Sono già armati?»

«Sì, signor primo ministro. I Reaper sono equipaggiati con missili Brimstone, mentre i Predator con gli Hellfire.»

«Mr Wellington, a lei è spettato il gravoso compito di autorizzare il lancio dei missili», proseguì il primo ministro. «Adesso è il mio turno di assumermi personalmente questa responsabilità.»

«Capisco, signor primo ministro», replicò Ben.

«Un’altra cosa, Mr Wellington, il pacco è stato consegnato a Leatherhead?»

«Sì, signor primo ministro. È nelle mani della squadra d’estrazione.»

Lester annuì. «È chiaro a tutti che, se oggi venisse definitivamente chiuso il passaggio tra il nostro mondo e il loro, centinaia o forse migliaia di dannati resteranno qui a Londra. Sarà imperativo catturarli tutti e, in un secondo momento, decidere il destino di ognuno di loro. Comunque ce ne occuperemo in seguito. Qualcuno ha altro da aggiungere?»

Emily annuì un paio di volte. «Vi ricordo che non abbiamo notizie di John Camp e di Trevor Jones, né delle persone presenti in questo laboratorio in occasione dell’ultimo riavvio del MAAC.»

Il primo ministro fissò il monitor con aria grave. «Ci è ignoto il destino degli altri, ma ci è stato riferito il comportamento che non esito a definire eroico di Mr Camp e di Mr Jones. Conosco le conseguenze della decisione che stiamo per prendere, e le conosce anche lei. Quindi le chiedo, dottoressa Loughty, ha qualcosa da obiettare se iniziamo il conto alla rovescia di due ore a partire da adesso?»

Emily chiuse gli occhi. «Nessuna obiezione.»

 

 

Alla periferia di Leatherhead, il sergente al comando della squadra di estrazione batté le nocche contro i vetri oscurati della Land Rover.

Malcolm Gough scese dall’auto e andò ad aprire lo sportello dalla parte opposta della vettura. I soldati erano a conoscenza della natura del pacco che dovevano prendere in consegna, tuttavia furono intimoriti dalla vista di re Enrico in farsetto e mantello.

«Questa è la vostra scorta, maestà», spiegò Gough.

Per qualche istante, Enrico osservò la scena attorno a sé. A ovest c’era una gran quantità di veicoli, personale militare e d’emergenza. A est sorgeva il centro abitato. Voltandosi verso il fiume Mole, esclamò: «Dunque è così che appare Londra, oggi».

«Sì», rispose Gough. «Ora credo che vi faranno attraversare quel ponte.»

«Esatto, signore», confermò il sergente, mentre fissava con gli occhi spalancati il sovrano.

«Mi chiedo cosa troverò dall’altra parte», fece Enrico.

«Siete stato via un bel po’ di tempo», osservò Gough.

«Proprio così. Dubito di essere ancora re, laggiù. Sono quasi certo che Cromwell e Suffolk si siano contesi la mia corona come galli in un pollaio. Chissà se il vincitore si schiererà contro di me oppure acconsentirà umilmente a deporla di nuovo sul mio capo.»

«Sono curioso anch’io, maestà.» Poi il professore sorrise. «Ma non abbastanza da seguirvi.»

«Credo che vi mancherò, Gough.»

«Ne sono certo, maestà. Più di quanto possiate immaginare. È stato un immenso privilegio poter trascorrere del tempo in vostra compagnia.»

«Se mai doveste allontanarvi dalla virtuosa vita dello studioso, allora forse v’incontrerò di nuovo, quando sarà la vostra ora.»

«Spero che ciò non accada, maestà.»

I tre uomini della squadra SAS si avvicinarono per condurre Enrico verso il ponte.

Il professore filmò la scena con il cellulare, finché i soldati e il re non scomparvero alla vista. Poi chiamò la moglie. «Torno a casa.»