14
Heath era stordito: Benona era la donna più bella che avesse incontrato da quand’era tornato sulla Terra. Si leccò le labbra screpolate, come un lupo di fronte alla preda. «State indietro, gente. Lei è mia.»
Monk era così ubriaco da reggersi a malapena in piedi, ma mise una mano sulla spalla del capobanda per rivolgergli una richiesta. «Andiamo, Heath, dopo tutto quello che abbiamo passato io e te, il minimo che potresti fare è concedermi un piccolo assaggio di questo tesoro.»
«Vaffanculo», sbraitò Heath. «Ascoltate bene. Lei è solo mia. La prenderò proprio qui sul marciapiede. Subito. Come ti chiami, biondina?»
«So chi siete», rispose Benona con un filo di voce.
«Allora dimmi, chi sono io?» Heath si era avvicinato a pochi centimetri dal suo viso, con le mani che fremevano alla prospettiva di stringere quelle carni morbide.
La donna fece un passo indietro e finì contro il muro, senza ormai nessuna via di fuga. «Vieni dall’Inferno.»
«Bella e intelligente, ma non sai tutto, cara. Vengo dall’Inferno e ho intenzione di passare il resto della notte a stuprarti. E, quando mi sarò tolto tutte le voglie, ti mangerò.»
Benona chiuse gli occhi e pensò a Polly. Sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie. Poi il battito sembrò trasformarsi in uno stridio.
L’auto che stava sfrecciando lungo Kingsland Street frenò di colpo, lasciando il segno degli pneumatici sull’asfalto. Scavalcando il bordo del marciapiede, si scagliò contro gli erranti, tirandoli giù come birilli.
Heath si voltò e il sangue di uno dei suoi uomini gli schizzò sulla faccia. Alcuni di quelli che erano rimasti in piedi cominciarono a correre. L’auto si fermò in cima a una pila di corpi e ne scese un uomo che iniziò a farsi strada a colpi di coltello tra gli erranti confusi e ubriachi che non erano ancora fuggiti. Puntava verso Heath.
Prima che potesse raggiungerlo, Monk afferrò l’amico per la camicia e lo trascinò via. «Tagliamo la corda!»
Heath non era tipo da scappare davanti al pericolo, ma era troppo ubriaco e stordito per combattere. Almeno una decina dei suoi uomini era morta o ferita; gli altri si stavano dileguando lungo la strada buia. Lasciò che Monk lo trascinasse via, e presto anche lui iniziò a correre.
Benona continuava a tenere gli occhi chiusi. Era pietrificata dalla paura. Alla fine decise di sollevare le palpebre, pronta per la sua ultima visione sulla Terra.
Quello che vide fu Woodbourne, dalla cui mano cadde una mannaia insanguinata.
Si lasciò andare tra le sue braccia. «Brandon, sei tu. Grazie al cielo!»
«Dov’è Polly? È al sicuro?»
«È a casa.»
«Allora andiamoci subito.»
Peter Lester era nel suo studio al dieci di Downing Street e stava infilando dei documenti riservati nella valigetta rossa ministeriale. Provò a chiuderla, temendo di averla riempita troppo.
Il capo di gabinetto entrò e gli diede una mano. Mentre passava in rassegna le carte, osservò: «Molti di questi documenti sono su intranet, lo sa?»
«Mi piace avere copie cartacee», spiegò Lester, ispezionando i cassetti della scrivania e prendendo alcuni oggetti personali.
«Ci saranno le stampanti, a Manchester», replicò l’altro, appoggiandosi sulla valigetta e chiudendo la serratura. «Ecco fatto.»
«Dove ci sistemeremo?»
«Il sindaco ha gentilmente messo a disposizione i suoi uffici al municipio. Ci aspettiamo che i consiglieri comunali seguano spontaneamente il suo esempio. In caso contrario, li costringeremo a collaborare. Non c’è molto spazio per tutto il governo, ma ce la faremo. Il portavoce della Camera dei Comuni si è già lamentato, però...»
«Quell’uomo si lamenta solo per il gusto di farlo», lo interruppe il primo ministro.
«Non posso darle torto. L’opposizione sarà particolarmente scontenta della sua sistemazione. Uno spazio commerciale sfitto, a quanto ho capito.»
«Pensa se Churchill durante la guerra avesse dovuto sopportare tutti questi politici senza spina dorsale.»
«Rabbrividisco al solo pensiero.»
«E la famiglia reale?»
«È sulla strada per Balmoral. Sebbene a malincuore, la regina ha accettato il nostro suggerimento. I suoi genitori non avevano lasciato il palazzo durante il bombardamento di Londra.»
«Il nemico che affrontiamo oggi è peggio dei nazisti, per come la vedo io», obiettò il primo ministro, prendendo la valigetta rossa. «Adesso chiudiamo tutto e andiamo.»
La decisione di trasferire i membri del governo a Manchester era stata presa durante la riunione di quella mattina. Londra non era più sicura; i trasporti pubblici erano stati sospesi. L’evacuazione andava completandosi e la fiumana di sfollati si era ridotta a un rivolo. Nella migliore delle ipotesi, si stimava che tra i cinque e i sei milioni di persone, su otto milioni di abitanti, avessero lasciato l’area metropolitana di Londra. La percentuale più alta era stata registrata vicino alle zone di confine. Restavano in città soprattutto i poveri, i disabili e gli anziani, che non potevano o non volevano raggiungere i punti di evacuazione; gli scettici e i fanatici dei complotti, che dubitavano delle spiegazioni delle autorità; e le persone senza figli che, dovendo badare solo a se stesse, erano sicure di poter uscire indenni dalla tempesta. Inoltri i servizi televisivi sui campi di accoglienza allestiti nelle basi militari mostravano uno stato di disagio e sovraffollamento. Quelle immagini dissuadevano molti dal lasciare la propria casa, anche se i giornalisti che si avventuravano nelle zone di Londra colpite dall’invasione descrivevano scene di barbarie e carneficine. La verità era che la popolazione si trovava tra l’incudine e il martello. Per chi decideva di nascondersi, Londra era tutt’altro che ospitale. L’elettricità, l’acqua e il gas non mancavano, ma le poche attività rimaste aperte erano a conduzione familiare e, quando esaurivano le scorte, non ricevevano rifornimenti. Gli ospedali erano stati chiusi dopo aver trasferito altrove i pazienti e il personale, anche i servizi di emergenza non erano operativi. Alcune unità dell’esercito pattugliavano edifici chiave, musei e monumenti, mentre la Metropolitan Police e le forze di polizia delle contee di Londra, a parte alcune unità armate d’élite, avevano l’incarico di mantenere l’ordine nei centri di evacuazione. A volte, un drappello di soldati o una pattuglia di poliziotti armati s’imbatteva in uno scontro fra cittadini e dannati, ma, nella concitazione del momento, si faceva fatica a distinguere gli uni dagli altri. Sparare a chiunque fuggisse poteva avere conseguenze disastrose, e le regole d’ingaggio continuavano a mutare. In generale, i londinesi che avevano scelto di non partire si ritrovavano da soli ad affrontare gli invasori.
Il flusso di dannati, dapprima contenuto, era ormai diventato un fiume in piena che si riversava nella città. La voce si spargeva per tutta la Britannia e in centinaia affollavano le zone di confine per poter tornare nel mondo dei vivi. Quando arrivavano sulla Terra, alcuni erano intimiditi, sgomenti alla vista del sole e di tutte le novità del mondo moderno. Vagavano per Londra, frugando nei bidoni della spazzatura alla ricerca di cibo ed entravano timidamente nelle abitazioni, allontanandosi subito se erano occupate. Altri, però, erano ben determinati a soddisfare i loro istinti più bassi e terrorizzavano chiunque incontrassero. I peggiori erano gli erranti, che prendevano quello che volevano e, quando se ne andavano, si lasciavano alle spalle dispense vuote e pozze di sangue. Nelle zone rurali i contadini avevano i fucili da caccia, e a volte si difendevano. Ma, alla fine, un gruppo di dannati era come uno sciame di locuste che divorava tutto ciò che incontrava sul cammino.
Molti dannati si accorgevano che i loro rozzi abiti contadini o le uniformi militari li rendevano facilmente riconoscibili, così rubavano vestiti dalle case delle vittime. Alcuni avevano sentito i viventi parlare del loro fetore, che camuffavano con profumi e colonie. Ma, quando due dannati s’incontravano, si riconoscevano subito dallo sguardo negli occhi. Un sorriso accennato, qualche parola, e subito si rimettevano alla ricerca della prossima casa da occupare, del prossimo desiderio da appagare.
«Come te la passi?»
«È molto diverso, ma lo trovo meraviglioso.»
«Io non torno più indietro.»
«Nemmeno io, almeno non di mia volontà.»
«Cosa intendi?»
«Ho visto due dei nostri morire sotto le ruote di un’automobile.»
«Morti per davvero?»
«Già.»
«E, secondo te, dove sono finiti?»
«Saranno tornati nell’Oltre, immagino.»
«Allora faremmo meglio a non morire di nuovo.»
Il quartier generale dell’MI5 a Millbank era uno degli edifici governativi protetti da un cordone di soldati. Ben era nel seminterrato, al centro operativo. Con il suo staff stava studiando le statistiche sul numero di dannati nelle zone di confine e i loro modelli di dispersione una volta arrivati sulla Terra. I filmati che scorrevano sugli schermi alle pareti erano stati registrati dai droni che solcavano in lungo e in largo il cielo di Londra.
Un assistente lo avvisò che Lester era in linea.
«Buongiorno, signor primo ministro. Come posso aiutarla?»
«Sto andando a Manchester per tenere un discorso alla nazione. Mi servono i dati più recenti. Il flusso di dannati accenna a diminuire?»
«No, purtroppo. Semmai il contrario.»
«Quindi dobbiamo supporre che il SAS non sia ancora riuscito a prendere posizione come programmato?»
Il cellulare di Ben squillò e lui si affrettò ad attivare la modalità silenziosa. «Ritengo sia una supposizione corretta.»
«Che Dio ci aiuti.»
Ben riagganciò e vide che la chiamata persa era della moglie. Telefonò subito a casa dei suoi genitori nel Kent. «Tutto bene? Come stanno le bambine?» domandò, improvvisamente preoccupato.
«Stiamo tutti bene. Stanno colorando dei disegni con tua madre. Ascolta, Marjorie ha appena chiamato. Si sta pentendo amaramente di non essersene andata da Londra.»
«Be’, ci credo. È stata una mossa stupida», commentò Ben.
«Non voleva lasciare il cane. Come fai a non capirlo? Perché non hanno permesso alla gente di portare gli animali domestici?»
«Non mi sono occupato io di questa cosa.»
«Ha provato a telefonare al numero verde, ma non hanno risposto, così ha chiamato me.»
«Qual è il problema?»
«Ha sentito qualcuno provare a entrare nell’appartamento sotto il suo. È in preda al panico. È sicura che poi toccherà a lei.»
«E cosa dovrei fare, secondo te? Utilizzare delle risorse fondamentali altrove per soddisfare le sue paranoie?»
«È esattamente quello che voglio. Me lo devi, Ben. Sei stato un vero stronzo con me e le bambine, perciò adesso cerca di riscattarti.»
Il primo istinto fu quello di lasciare esplodere tutta la rabbia che sentiva crescere dentro: io sarei uno stronzo? Solo perché ho lavorato senza sosta per due mesi? Perché non ero a casa per il bagnetto e la favola della sera? Perché faccio il mio lavoro per cercare di salvare il Paese da una minaccia di inaudita gravità? Cercò di controllarsi e rispose laconico: «Va bene, farò quello che posso».
Uscì dal parcheggio sotterraneo con un autista e due agenti. Marjorie era andata a scuola con la moglie, una donna sempre depressa che lavorava nell’editoria. Quando chiacchieravano al telefono, Ben doveva lasciare la stanza, perché non sopportava il suono della voce roca che usciva dal ricevitore in un profluvio di lamentele. Il tragitto lungo il fiume accanto alla Tate fu surreale: il loro era l’unico veicolo sulla Millbank in quella che, in circostanze normali, sarebbe stata l’ora di punta serale.
Quando arrivarono davanti alla casa a schiera di Marjorie a Pimlico, la strada era deserta. Una volta Ben era andato lì per una festa, quindi seppe individuare le sue finestre fra quelle che si affacciavano sulla strada. Nell’appartamento si vedevano solo un paio di luci, mentre quelle al primo piano erano tutte accese. Suonò il campanello di Marjorie e attese. Nessuno rispose, così provò di nuovo e, quando pure il secondo tentativo fallì, suonò anche agli altri appartamenti. Non ottenendo risposta, chiamò la donna al cellulare, ma partì la segreteria telefonica.
«Cosa facciamo?» domandò uno dei suoi uomini.
«C’è un piccolo giardino sul retro», rispose Ben. «Vediamo se riusciamo a entrare da lì.»
Dovettero seguire la strada fino all’ultima casa dell’isolato per intrufolarsi dal retro: scavalcarono diverse siepi di recinzione e raggiunsero l’edificio di Marjorie. La porta sul giardino dell’appartamento al pianterreno aveva la parte superiore in vetro.
Uno degli agenti sfondò la lastra con il calcio della pistola. «Tenga», disse, offrendo a Ben la sua pistola. «Ne ho un’altra.»
Pur non amando le armi, lui la prese e controllò la sicura.
«C’è un colpo in canna», lo informò l’agente.
«Dubito che mi servirà.»
Avanzarono con cautela nell’ingresso e salirono la prima rampa di scale. Trovarono la porta sfondata e il chiavistello in frantumi.
«Dobbiamo prima controllare qui», ordinò Ben, con il cuore in gola.
Seguì gli altri, che entrarono con le pistole in pugno. L’anticamera e il soggiorno erano a soqquadro, con i mobili rovesciati e oggetti sparpagliati ovunque. Anche le camere da letto erano sottosopra. In cucina, lo sportello del frigorifero era spalancato e i ripiani erano vuoti. Tutte le credenze erano aperte e il pavimento era cosparso di scatolette di tonno e lattine di zuppa ammaccate, come se qualcuno avesse cercato di aprirle senza utilizzare l’apriscatole rimasto in un cassetto.
«È chiaro che qui non c’è nessuno», dichiarò uno degli agenti.
«Allora proviamo di sopra», replicò Ben.
Sul pianerottolo successivo notarono che pure la porta di Marjorie era stata sfondata. Un cagnolino abbaiava verso di loro.
Ben tolse la sicura alla pistola e trasse un respiro profondo per calmarsi.
«Teniamo la stessa disposizione?» domandò un agente a bassa voce.
«Direi di sì. Sono un po’ fuori esercizio.»
Il corridoio era buio. In salotto non c’era nessuno. Da lì riuscivano a vedere la cucina, anch’essa deserta. La porta della camera da letto era chiusa. Ben e un agente restarono lì fuori, mentre l’altro controllava la stanza degli ospiti. Tornò e bisbigliò che era libera.
«Al tre», sussurrò l’altro agente, mettendo la mano sulla maniglia.
Sentirono urlare una donna.
«Tre!» gridò l’agente, sfondando la porta.
Accanto al letto, un uomo guardava un altro tizio che stava sopra Marjorie, mentre lei si dibatteva sotto il suo peso. La stanza era invasa da un fetore insopportabile. Tanfo di dannati.
L’agente sparò due volte all’uomo in piedi, abbattendolo subito. Lo stupratore rotolò giù dal letto, con i pantaloni lerci calati alle caviglie. Venne freddato tra il letto e l’armadio. Ben gli fu sopra in un istante. La pistola era pesante e potente nelle sue mani. L’uomo, un gigante accigliato, aveva del sangue sui genitali. Iniziò a inveire contro Ben. Marjorie era troppo traumatizzata per coprirsi. Ben la guardò e scorse il sangue che le colava lungo una coscia.
Sparò un colpo in fronte all’uomo, mettendo fine alle sue imprecazioni.
Dopo alcuni secondi, abbassò l’arma, mise di nuovo la sicura e tirò un angolo del copriletto sulla donna scossa dai singhiozzi.
«Marjorie, sono Ben, Ben Wellington. Adesso ti porteremo via da qui, in qualche posto sicuro.»
«Posso portare il mio cane?» fu la prima cosa che disse lei.
Non osava toccarla, anche se avrebbe voluto darle una pacca rassicurante sulla spalla, un segno che le facesse capire che in mezzo a tutto quel male c’era ancora un po’ di bontà. «Certo che puoi portare il tuo cane.»