37

John indicò un punto sulla riva del fiume. «È lì.»

Dopo aver saputo che il direttore dell’FBI era un marinaio esperto e possedeva una barca a vela di quindici metri a Chesapeake Bay, a Campbell Bates era stato affidato il comando della chiatta. Dal canto suo, John ormai conosceva il fiume, e diede preziosi consigli per condurre con successo l’imbarcazione attraverso le tenebre.

Al chiarore dell’alba, e spinta dal vento impetuoso, la chiatta urtò contro il molo. John e Bates ammainarono velocemente le vele, mentre Trevor saltò a terra con una cima per fissare l’ormeggio.

Nel corso dello sbarco, John affidò Karen Smithwick ad alcuni degli uomini più robusti. Scese per ultimo e lasciò che la chiatta andasse alla deriva verso valle.

«Non era male come barca», commentò Bates. «Speriamo che non ci serva davvero più.»

«Già.» John si caricò di nuovo Smithwick sulle spalle e annunciò: «Seguite Trevor e me».

Erano a meno di un chilometro dalla zona di confine, quando del movimento davanti a loro attirò l’attenzione di John. Per essere all’Inferno, era una giornata luminosa, e lui dovette strizzare gli occhi per vedere meglio.

«Quanti saranno?» chiese a Trevor.

«Parecchi, capo.»

«Merda...»

 

 

«La temperatura è stabile?» domandò Emily.

«Si mantiene a 1,7K», rispose lo scienziato che da Ginevra monitorava i magneti del MAAC.

«I magneti sono collegati?»

Ginevra riferì che gli schemi elettrici sembravano a posto.

«Siamo pronti», annunciò Emily. «Paul, un minuto da adesso.»

«Al tuo segnale», rispose Loomis, dalla sua postazione.

Mentre l’orologio scandiva i secondi, Emily assunse un’espressione rassegnata. «Iniziamo.»

Loomis controllò la pressione d’iniezione. «Il gas d’uranio è in circolo, i booster funzionano, il sincrotrone sembra riempirsi normalmente.»

«Fammi sapere quand’è pieno», disse Emily.

Un minuto dopo, Loomis avvisò che era pronto e Ginevra diede la conferma.

Emily si girò verso le porte della sala controllo, sperando che si spalancassero, ma non accadde nulla. «Avvia i cannoni di particelle, Paul.»

 

 

Trevor fissava i dannati che bloccavano la strada. «Forse possiamo aggirarli.»

«Già, forse. Diamo un’occhiata più da vicino.»

Matthew Coppens aveva trovato un piede di porco a bordo della chiatta. Raggiunse John impugnandolo con entrambe le mani e chiese se si sarebbero dovuti fare strada con la forza.

«Vedremo.»

Matthew lo seguì passo passo. «In ogni caso, io sono pronto.»

«Hai mai combattuto prima?» domandò John, sorridendo alla vista del piede di porco.

«C’è una prima volta per tutto.» Poi aggiunse con un’espressione disperata: «Voglio tornare da mia moglie e mio figlio».

«Sei un bravo ragazzo. Restami vicino.»

C’erano decine di dannati tra loro e la zona di confine, ma erano tutti girati di spalle. Era come se fossero in attesa, nessuno aveva il coraggio di spingersi in avanti.

Si avvicinarono al villaggio di Dartford da sud, dove il terreno era un po’ rialzato. John e Trevor avvistarono qualcuno che agitava le braccia verso di loro. Era un centinaio di metri al di là della folla.

«È del SAS?» chiese Trevor.

Fu sparato un colpo: era di certo un AK-47. Un dannato urlò di dolore e il cordone che circondava la zona di confine arretrò di qualche metro.

«Musica per le mie orecchie», commentò John.

In lontananza, i membri del SAS continuavano a fare cenni con le mani e spararono un altro colpo. Poi giunsero delle grida indistinte, trasportate dalla brezza del mattino.

I dannati, però, erano ancora ignari della presenza dei viventi.

«Ci stanno facendo segno di raggiungerli», disse Trevor.

«Potrebbero aiutarci con una bella sventagliata di piombo», ribatté John.

«Magari sono a corto di munizioni.»

«Hai ragione.» Con la mano libera, John fece cenno ai compagni dietro di loro di fermarsi.

«Qual è il piano?» domandò Bates.

«Dobbiamo aprirci la strada con la forza. Al mio segnale, correte. Stuart e Matthew, voi due aiutate George. Leroy, se la sente?»

«Certo», replicò Bitterman.

«Mi sembra una follia», si lamentò Trotter.

«Obiezione respinta», lo zittì John. «Può sempre tornare dai suoi amici a palazzo.»

L’altro sogghignò, ma non replicò.

«Okay, Trev, concentra il fuoco e non sprecare un colpo.» John afferrò meglio che poté Karen, che gemeva sulle sue spalle.

Trevor alzò il fucile. «Mi restano solo dieci colpi.»

«Lo so.»

 

 

Ben Wellington era arrivato a Dartford in elicottero e adesso si trovava nell’accampamento dell’esercito a ovest della zona di confine. Attraverso le cuffie ascoltava due canali di trasmissione: uno era riservato alle operazioni militari, l’altro era dedicato alla sala controllo del MAAC. A Manchester, anche il primo ministro e il suo staff erano in collegamento radio.

Arrivò un rapporto da Sevenoaks: «Li vedo! Stanno attraversando i campi di calcio della Belmeade. Si dirigono verso la nostra posizione».

«Sicuri che siano i SAS?»

«Devono essere loro. Restate in attesa, per favore.»

Ben sentì la voce del primo ministro: «Allora?»

«Confermo. Il capitano Marsh è qui con la truppa A. Riferisce che tutta la squadra di soccorso ha attraversato.»

«Qui Ben Wellington. Ci sono anche John Camp e Trevor Jones?»

«Negativo, signore. Solo SAS.»

Scoraggiato, Ben si sintonizzò sul canale di trasmissione del MAAC.

 

 

Emily studiò la pianta ellittica del MAAC sul monitor. Due punti, uno rosso e uno verde, rappresentavano i fasci di protoni d’uranio che viaggiavano in direzioni opposte, percorrendo l’anello di centottanta chilometri attorno a Londra quasi alla velocità della luce. Se tutto fosse andato secondo i piani, presto avrebbero visto gli effetti delle collisioni dei protoni.

Loomis era chino sullo spettrometro a muoni e stava studiando i flussi di dati.

«Come evolve l’attività degli strangelet, Paul?» domandò Emily.

«Nessun cambiamento.»

«Ci avviciniamo a venti TeV», annunciò un tecnico da Ginevra.

«Siamo vicini al livello che ha dato inizio a questo casino...» mormorò Emily.

«Cos’hai detto?» domandò Loomis.

«Niente.»

«Trenta TeV, in aumento», comunicarono da Ginevra.

«Questi tracciati di collisione...» disse Loomis. «Emily, brutte notizie. C’è un picco nella produzione di strangelet.»

 

 

Il primo ministro chiese cosa significasse il picco nella produzione di strangelet. Qualcuno a Manchester, presumibilmente un consigliere scientifico, rispose: «È probabile che i collegamenti tra le due dimensioni aumenteranno di ampiezza e forse di numero».

 

 

Trevor mirò a un uomo dalle spalle larghe con un ampio cappotto marrone. Il proiettile gli perforò la schiena e lui cadde a terra. I dannati si voltarono spaventati. Trevor avanzò verso di loro con calma. Fece fuoco due volte in rapida successione, lasciando altri due corpi sull’erba.

Restavano sette colpi.

John sentì un altro sparo, questa volta proveniente dai soldati del SAS. Un altro dannato si accasciò a terra. A quel punto si voltò verso gli altri. «Al mio segnale, iniziate a correre!»

Un altro colpo del SAS andò a segno.

«Okay, Trev, carica!»

 

 

Emily sentì una morsa al petto mentre l’energia di collisione saliva a livelli che pensava irraggiungibili.

Quaranta TeV.

Cinquanta.

Sessanta.

«Paul?»

Lui sapeva quale fosse la domanda implicita. «Gli strangelet sono fuori scala.»

 

 

Il primo ministro annunciò che gli era stato consigliato di ordinare l’immediato arretramento del personale in servizio nelle zone di confine.

Un ufficiale a Leatherhead chiese istruzioni più precise: «Di quanto?»

«Quanto?» domandò Lester a qualcuno del suo staff.

«Non ne ho idea», rispose una voce. «Magari duecento metri, per cominciare?»

Il colonnello iniziò a impartire l’ordine, poi s’interruppe. «Rileviamo segni d’attività. Degli uomini hanno attraversato. Sono in avvicinamento. Aspettate. È Gatti. È la truppa C.»

Ben restò in ascolto, finché non fu confermato che erano presenti tutti i superstiti della truppa C e la squadra di supporto, quindi chiese notizie di John e Trevor, ma gli dissero che non c’erano.

Intanto anche l’ufficiale responsabile della zona di confine di Dartford aveva ordinato ai suoi uomini di arretrare. Ben seguì i soldati in ritirata.

 

 

Trevor manteneva un ritmo di fuoco lento ma costante. John contò altri tre colpi provenienti dal lato del SAS, poi il silenzio.

Erano ormai a una trentina di metri dai dannati. Alcuni erano armati di spade, eppure non sembravano soldati, bensì povera gente disposta a tutto pur di tornare sulla Terra. Non potevano né sfondare le linee dei soldati del SAS, né fuggire verso Trevor, quindi si spostarono di lato, senza però creare un corridoio libero. C’erano ancora cinque o sei dannati accanto ai corpi che si contorcevano dal dolore.

John aveva perso il conto: quanti proiettili restavano? Due? Tre?

Trevor centrò a distanza ravvicinata un uomo.

Sparò di nuovo, abbattendone un altro.

Era a una decina di metri dal bersaglio successivo quando premette di nuovo il grilletto. Non accadde nulla. Con il caricatore vuoto e a cinque metri di distanza, non poté fare altro che lanciare un urlo minaccioso con tutto il fiato che aveva in gola.

Due uomini indietreggiarono da una parte e due dall’altra, e Trevor ne approfittò per infilarsi nello spazio libero.

John gridò agli altri di sbrigarsi e di seguire Trevor. George Lawrence inciampò. Henry Quint cercò di farlo rialzare aiutato da Matthew e Stuart. Ripresero a correre, trasportandolo a braccia.

Yates stava andando loro incontro con alcuni dei suoi uomini. «Presto! Muovetevi! Muovetevi!»

Trevor raggiunse il capitano per primo. «Avete finito le munizioni?»

«Sì. Sono quelli del MAAC?»

«Già», ribatté Trevor, ansimando.

«Cristo, dobbiamo fare in fretta. È tempo di evacuare.»

John affidò Smithwick a un paio di SAS. «Aiutate anche quell’uomo», disse, indicando Lawrence.

Un soldato se lo caricò in spalla.

«Forza!» urlò Yates, dirigendosi verso la zona di confine. «Per l’amor di Dio, correte!»

 

 

«Duecentoventi TeV», annunciarono da Ginevra.

Emily era in piedi, alle spalle di Loomis: studiava il flusso di dati dello spettrometro, ma ogni quattro o cinque secondi lanciava uno sguardo verso le porte. «Paul...»

«Sì, l’attività degli strangelet si è stabilizzata. È elevata, ma è stabile.»

«Duecentoventi... Duecentoquaranta... Duecentosessanta...»

«Mi sembra che stia calando», osservò Emily.

«Sono d’accordo», confermò lui.

«Duecentosettanta... Duecentottanta... Duecentonovanta...»

«Oh, John», sussurrò lei.

«Trecento TeV. Massima potenza raggiunta!»

Emily fissò le porte.

«Guarda!» esclamò Paul. «Hai visto?»

Lei si voltò verso lo schermo. L’attività degli strangelet era scesa a zero. «Ha funzionato?»

Loomis si alzò e l’abbracciò. «Sì! Ha funzionato! Ha funzionato!»

 

 

Il primo ministro voleva informazioni più precise. «Mettetemi in contatto con la sala controllo. Ho bisogno di una conferma.»

Dalla sua nuova posizione, Ben non aveva una buona visuale sul complesso del MAAC. «Qualcuno vede il gruppo di Yates?»

Nessuno rispose.

Poi ascoltò Lester che parlava al telefono con Emily.

«Quindi l’attività degli strangelet è pari a zero? Sono scomparsi? Definitivamente? Sì, suppongo che sarebbe prematuro. Ma i collegamenti sono stati chiusi? È l’unico modo per esserne sicuri? Davvero? Va bene, mi tenga informato. Dottoressa Loughty, le mie congratulazioni. Le faccia anche al dottor Loomis.»

«Se il solo modo per scoprire se i collegamenti sono stati chiusi è quello di entrare nella zona di confine, ci serve un volontario», intervenne Jeremy Slaine.

Ben non esitò un istante. Non pensò né alla moglie né alle figlie. Non pensò nemmeno a se stesso. «Mi offro io», disse nel microfono.

«Chi parla?» chiese Lester.

«Ben Wellington. Sono a Dartford.»

«È sicuro, Ben?»

«Sicurissimo. Sto andando verso il complesso del MAAC. Mi avvicino da ovest.»

 

 

Passarono cinque minuti, poi dieci.

Esausta, Emily era crollata su una sedia, in preda alla più cupa disperazione. Non si era mai sentita così triste, svuotata.

«È ancora a zero», confermò Paul. «Secondo me, è finita.» La guardò e capì all’istante. «Mi dispiace, Emily. Davvero.»

«Non posso credere che non ci sia più. Non ce la faccio ad andare avanti senza di lui.»

Loomis si alzò e le si avvicinò. «Sei giovane. Hai tutta la...»

D’un tratto, le porte si spalancarono.

Emily alzò di scatto la testa, ma la sua flebile speranza svanì all’istante: era Ben Wellington.

«Ho attraversato la zona di confine. Be’, non sono all’Inferno.»

«Allora è davvero finita», sospirò Emily. La sua voce era poco più di un sussurro.

«Però ho trovato qualcosa per strada», proseguì Ben, riaprendo le porte.

Era John.

Emily balzò in piedi e si gettò tra le sue braccia.

Lui la prese al volo e la strinse a sé.

«Mai», gli sussurrò.

«Cosa?»

«Non lasciarmi mai più.»

Entrarono anche Trevor, Bates, Bitterman e Quint, seguiti da Yates e dai superstiti della truppa B.

«Ce l’hai fatta», disse Emily. «Aspetta, torno subito.»

Tra le lacrime, abbracciò colleghi e amici: Matthew, David, Chris e tutti i tecnici.

Quando fu il turno di Henry Quint, lui evitò di guardarla.

Lei lo considerava ancora il responsabile di quel disastro, però disse: «Mi dispiace per quello che ha passato».

«Si potrebbe dire che ho avuto quello che meritavo», mormorò lui.

Nessuno notò Trotter defilarsi.

«Dov’è Brenda? E Kelly?» chiese Emily.

Chris scosse la testa. Non ci fu bisogno di aggiungere altro.

«Trevor!» esclamò Emily. «Devi chiamare subito Arabel.»

Il suo sorriso illuminò la stanza. «Non temere, è la prima cosa che farò.»

«Scusate, c’è una cassetta di primo soccorso?» intervenne il medico militare. «Questa donna ha bisogno di cure. È molto disidratata.»

«È in quell’armadietto», rispose Emily.

Adagiarono Smithwick sul pavimento. Dopo alcuni tentativi, il medico trovò la vena e le fissò una flebo.

I cinque minuti successivi furono un piacevole caos.

I tecnici circondarono Paul Loomis e il monitor collegato allo spettrometro, curiosi di dare un’occhiata a quel mare di dati.

Ben fece quella che sperava sarebbe stata la sua ultima telefonata con il primo ministro per un bel po’ di tempo. Dopo aver riagganciato, chiamò la moglie, assicurandole che quel calvario era quasi giunto al termine. E le disse che l’amava.

I telefoni del laboratorio vennero presi d’assalto per rassicurare i propri cari.

Il capitano Yates utilizzò la radio di Ben per fare rapporto al suo superiore, il maggiore Parker-Burns.

Trotter, invece, perlustrava il pavimento della sala controllo, cercando qualcosa. Alla fine la trovò sotto un tavolo.

Emily e John erano seduti contro un muro e si tenevano per mano. Non avevano bisogno di parlare. Per quello ci sarebbe stato tempo.

Yates annunciò che tutti avrebbero dovuto aspettare l’arrivo della squadra medica militare.

Dopo la seconda flebo di soluzione salina, Karen Smithwick sbatté le palpebre e cominciò a guardarsi attorno. Cercò di sedersi, ma il medico le ordinò di restare stesa. La donna scrutò la stanza e individuò Trotter.

Emily e John sentirono i suoi borbottii forti e incessanti, così si alzarono per capire cosa stesse succedendo.

«Sta bene?» chiese Chris.

Il medico rispose che i suoi parametri vitali stavano migliorando.

«Sta cercando di dirci qualcosa.» Emily notò che muoveva una mano sopra il palmo dell’altra. «Vuole scrivere qualcosa?»

Smithwick annuì con vigore.

Emily le portò carta e penna. Quando la donna ebbe finito di scrivere, lei prese il taccuino e lesse. «Mio Dio...»

«Cos’ha scritto?» chiese John.

Emily lesse a voce sufficientemente alta perché tutti nella sala controllo sentissero: «’È stato Anthony Trotter a ridurmi così. È responsabile della morte di Brenda. Credo abbia ucciso Kelly’».

John fu accecato dalla rabbia. Scorse Trotter dall’altra parte della stanza e si scagliò contro di lui. «Lurido bastardo!»

«John, no!» gridò Trevor. «Non ne vale la pena.»

Camp non lo ascoltò e bloccò Trotter in un angolo, stringendogli le mani attorno al collo.

Trevor e Ben corsero a separare i due prima che John lo soffocasse. Uno sparo assordante risuonò nella stanza.

John allentò la presa attorno al collo di Trotter e fece un passo indietro, poi cadde in ginocchio.

Trotter aveva in mano la sua pistola, quella che era rimasta sul pavimento quando lui era stato trasportato dall’altra parte.

«John!» Emily gli corse incontro e lo strinse fra le braccia, mentre lui crollava a terra. Una macchia di sangue si allargava sulla sua camicia. «Aiutatelo!»

Trevor e Ben si lanciarono su Trotter, gli strapparono di mano la pistola e lo atterrarono. Trevor iniziò a tempestarlo di pugni: lo avrebbe ucciso, se Yates non lo avesse fermato.

«Portatemi le manette», ordinò il capitano, indicando un pacco di fascette di plastica che gli agenti dell’MI5 avevano lasciato lì il giorno in cui erano stati catapultati all’Inferno.

Ben scalciò la pistola da parte e, dopo aver legato Trotter mani e piedi, cadde in ginocchio, stringendosi la testa tra le mani.

Il medico strappò la camicia di John: la ferita era appena sotto lo sterno. Cercò di tamponarla, senza però riuscire a fermare l’emorragia. «Ho usato tutt’e due le sacche di soluzione salina per quella donna.»

Yates afferrò le cuffie. «Abbiamo un ferito d’arma da fuoco. Ci serve personale medico. Tempo stimato di arrivo? Troppo! Mandate subito una squadra di primo intervento.»

Emily era inginocchiata accanto a John.

Lui alzò un braccio e le fece cenno di avvicinarsi. «Emily... Ti amo.»

«Ti amo anch’io. Più di quanto tu possa immaginare.»

«Sto morendo.» La sua voce non era mai stata così lieve.

«No, non è vero.»

«Sì, invece. Devo dirti una cosa.»

«No!»

«Per favore.»

Lei annuì.

«Io andrò lì.»

«Dove?»

«Andrò all’Inferno. Ho ucciso un uomo. In Afghanistan.»

«Eri un soldato», replicò lei, disperata. «I soldati non vanno all’Inferno. Lo sai.»

«È stato un omicidio. Ho ucciso un uomo. L’ho buttato giù da un elicottero. Ci andrò di sicuro. Io...» Gli occhi ancora fissi in quelli di Emily ormai non vedevano più nulla.

«John! No!»

Il medico appoggiò l’orecchio sul suo petto e, dopo pochi secondi, scosse la testa.

«Oh, Gesù...» gemette Trevor. «Dio mio!»

Nessuno, tranne Trotter, notò Emily barcollare verso il punto in cui Ben aveva scalciato la pistola.

Nessuno, tranne lui, la vide raccogliere l’arma.

Quando gridò: «No, non lo faccia!» era troppo tardi perché qualcuno potesse impedirle di piantargli una pallottola nel cervello.

Ed era troppo tardi perché qualcuno potesse impedirle di portarsi la pistola alla tempia e premere il grilletto.