1930 Ulrich
Vi sono personaggi che vanno in cerca d’autore; altri lo scansano come il diavolo, gli si dibattono, per scappare in fumo, sotto la penna. Ulrich è uno di questi: eroe tutto pensiero — sussulti e gemitìi instancabili di pensiero – e niente carne, niente sangue. Sospeso fra progetti che, come onde, si cancellano l’un l’altro; ora slegato, ora legato da una matassa di racconto che si disfa ogni momento; ectoplasma rimasto a vegliare sulla fine dell’Austria felix, nella speranza, fosse pure con un incesto di carta, di ricomporre in mistica unione gli sparigli della vita e le vacanze dell’Azione Parallela.
L’uomo senza qualità di cui stiamo narrando la storia si chiamava Ulrich; e Ulrich – non è piacevole chiamare col nome di battesimo una persona che si conosce appena, ma dobbiamo tacere il casato per riguardo al padre – al limite fra infanzia e adolescenza aveva già dato un primo saggio della sua mentalità in un componimento che aveva per tema una frase patriottica. In Austria il patriottismo era una materia tutta speciale. I bambini tedeschi imparavano semplicemente a disprezzare le guerre dei bambini austriaci, e s’insegnava loro che i bambini francesi sono i pronipoti di libertini smidollati e scappano come lepri appena vedono un soldato tedesco della territoriale che sia fornito di una gran barba. E scambiando le parti, con qualche opportuno mutamento, s’insegnavano le stesse cose ai bambini francesi, russi e inglesi, che si gloriavano anch’essi di numerose vittorie. Ora si sa che i bambini sono fanfaroni, amano giocare a guardie e ladri, e son sempre pronti, ove per avventura ne faccian parte, a considerare la famiglia X che sta in via Y come la più importante del mondo. Perciò è molto facile inculcare loro il patriottismo. In Austria però la faccenda era un po’ più intricata. Gli austriaci infatti avevano vinto, è vero, tutte le guerre della loro storia, ma dopo queste guerre avevano dovuto quasi sempre cedere dei territori. Ciò induce a riflettere, e Ulrich scrisse nel componimento sull’amor di patria che un vero patriota non deve mai giudicare la sua patria la migliore di tutte; anzi, balenandogli un’idea che gli era parsa particolarmente bella, quantunque fosse piuttosto abbagliato dal suo scintillio che consapevole del suo contenuto, aveva aggiunto a quella frase sospetta quest’altra: che probabilmente anche Dio preferisce parlare del mondo da lui creato servendosi del congiuntivo potenziale (bic dixerit quispiam...) perché Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso. Di questa frase era molto orgoglioso, ma forse non s’era espresso con sufficiente chiarezza, perché ne era nato un putiferio e per poco non l’avevano espulso dalla scuola, anche se poi non avevano preso alcun provvedimento non sapendo decidere se quell’affermazione temeraria fosse da considerarsi un’offesa alla patria oppure a Dio. Ulrich frequentava allora l’aristocratica Accademia Teresiana che forniva le più nobili colonne dello stato, e il padre, irritato per l’onta recatagli da quel figlio degenere, lo aveva mandato all’estero, in un piccolo collegio belga che si trovava in una città sconosciuta, e, amministrato con sagace spirito commerciale, attirava mediante le rette bassissime una vasta clientela di scolari usciti dalla buona strada.
Da allora come le nuvole trascorrono in cielo erano passati sedici o diciassette anni. Ulrich non li rimpiangeva né se ne inorgogliva, semplicemente li riguardava con stupore, nel suo trentaduesimo anno d’età. Nel frattempo era stato in molti luoghi, qualche volta anche in patria, e dappertutto aveva fatto cose utili e cose inutili. S’è già accennato che era un matematico, e non occorre dirne di più perché in ogni professione esercitata non per lucro ma per amore giunge il momento in cui la curva ascendente degli anni sembra condurre al nulla. Questo momento durava da un poco quando Ulrich si ricordò che al paese natio viene attribuito il misterioso potere di far prendere radici al pensiero e di armonizzarlo con l’ambiente; vi si stabilì dunque provando le stesse impressioni d’un viandante che si segga su una panca per l’eternità pur presentendo che si rialzerà quasi subito. E quando mise in ordine la sua casa, come dice la Bibbia, fece un’esperienza che in verità s’aspettava. Egli si trovava nella piacevole situazione di dover rimettere in sesto ab ovo e a suo talento il piccolo edificio in rovina che aveva acquistato. Dalla ricostruzione fedele fino alla libertà assoluta si offrivano alla sua scelta tutte le soluzioni, e alla sua mente si proponevano tutti gli stili, dall’assiro al cubista. Che cosa decidere? L’uomo moderno viene al mondo in una clinica e muore in una clinica: per conseguenza deve anche abitare in una clinica! Questo era l’assioma di un architetto di grido, e un altro riformatore dell’ambientazione esigeva che nelle case vi fossero pareti mobili, per il motivo che l’uomo dalla vita in comune deve imparare la fiducia nell’uomo, e non gli è lecito isolarsi con spirito separatistico. Era incominciata proprio allora una nuova era (ne comincia una ad ogni minuto) e un’era nuova ha bisogno di uno stile nuovo. Per fortuna di Ulrich il castelletto, così com’era, aveva già tre stili sovrapposti, cosicché non si poteva davvero farne tutto quello che la moda voleva; nondimeno egli era assai turbato dalla responsabilità di costruirsi una casa, e si sentiva pender sul capo la minacciosa massima letta sovente nelle riviste d’arte: «dimmi come abiti e ti dirò chi sei». Dopo aver lungamente consultato quelle riviste venne alla conclusione che la costruzione della propria personalità era meglio intraprenderla da solo e si mise a disegnare di sua mano i futuri mobili. Ma appena ideata una linea corposa e d’effetto, gli veniva in mente che si sarebbe potuto sostituirla benissimo con una linea funzionale e smilza; e incominciando ad abbozzare una forma in stile cemento armato scarnita dal suo stesso vigore, pensava alle magre forme marzoline di una fanciulla tredicenne e si metteva a sognare invece di decidersi.
Era questa – in un campo che non gli stava seriamente a cuore – la ben nota discontinuità delle idee con il loro pullulare senza un nucleo centrale, incoerenza che contraddistingue il nostro tempo e ne determina la bizzarra aritmetica, la quale salta di palo in frasca senza unità. Alla fine non immaginava più che locali irrealizzabili, stanze girevoli, arredamenti caleidoscopici, congegni per la trasposizione dell’anima, e le sue idee divennero sempre più vuote di contenuto.
Così giunse infine al punto verso il quale si sentiva attratto. Suo padre l’avrebbe espresso all’inarca così: «Se si lascia che uno faccia tutto quel che vuole, dalla confusione finirà per dar del capo nei muri». Oppure: «Chi può concedersi tutto ciò che gli piace, presto non saprà più che cosa desiderare». Ulrich si ripeteva queste frasi con grande soddisfazione. Quell’antica saggezza tramandata gli sembrava un pensiero straordinariamente nuovo. Nelle sue possibilità, progetti e sentimenti, l’uomo dev’essere prima costretto da pregiudizi, tradizioni e ostacoli di ogni sorta, come un pazzo nella camicia di forza, e solo allora ciò che egli produce acquista forse valore, solidità e durevolezza... in verità è quasi impossibile misurare tutta la portata di questo pensiero! Ebbene, l’uomo senza qualità dopo esser ritornato in patria fece anche il secondo passo per lasciarsi foggiare dal di fuori, dalle circostanze esterne: a questo punto delle sue riflessioni abbandonò senz’altro l’arredamento della sua casa al talento dei fornitori, fermamente convinto che alle tradizioni, ai pregiudizi e ai limiti avrebbero provveduto loro. Per conto suo si accontentò di rinfrescare i vecchi motivi che c’erano già da prima, gli scuri palchi di cervi sotto le volte bianche del piccolo atrio o il rigido soffitto del salotto, e inoltre aggiunse tutto quel che gli pareva comodo o rispondente a uno scopo.
Quando tutto fu pronto, potè crollare il capo e chiedersi: questa dunque è la vita che dovrà esser la mia? Era ormai in possesso di un piccolo delizioso palazzo; non si poteva quasi chiamarlo altrimenti perché corrispondeva esattamente all’idea che la parola suggerisce: la residenza lussuosa di un personaggio ufficiale, come l’avevano concepita i mobilieri, i tappezzieri, i decoratori più in voga. Peccato che a quel magnifico meccanismo d’orologeria mancasse la carica; perché allora si sarebbero vedute salire su per la rampa carrozze con alti dignitari e nobili dame, i lacchè sarebbero saltati giù dalle predelle e avrebbero chiesto ad Ulrich con diffidenza: «Buon uomo, dov’è il vostro padrone?»
Ulrich era tornato dalla luna e immediatamente s’era ristabilito sulla luna.
ROBERT MUSIL, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi 1972.