1850 Hester Prynne
La strada della Nuova Inghilterra, tutta polvere e spine, dove cammina Hester Prynne, col suo marchio scarlatto cucito sul petto, e una mano nella mano della bimba–elfo Pearl, è il luogo simbolico della disgrazia, nel suo senso teologico e duro; il girone dove si sconta un vizio che è solo in parte la cancrena scura del sesso, ma in misura maggiore è l’orgoglio. Così fra due gogne – l’una subita, di Hester; l’altra volontaria, del suo complice – s’incurva la caduta e dannazione dei due: due gogne, due crudeli vergogne. Non senza che il puritano Jahvèt che le esige somigli un po’, ammettiamolo, a Satana.
La porta della prigione venne spalancata dall’interno e sulla soglia apparve dapprima, come un’ombra nera che emergesse nella luce del sole, la sinistra e raccapricciante figura del birro della città, con una spada al fianco e in mano il bastone, emblema della sua carica. Questo personaggio preannunziava e simboleggiava nel suo aspetto tutta la lugubre severità dei codici puritani, che era suo compito applicare con estremo e spietato rigore. Reggendo il bastone del comando nella mano sinistra, egli posò la destra sulla spalla di una giovane donna, che così trasse avanti. Ma proprio sulla soglia della prigione essa lo respinse con un gesto improntato a naturale dignità e forza di carattere, ed emerse nella luce del sole come di suo spontaneo volere. Recava in braccio una fantolina, che poteva avere tre mesi, la quale chiuse gli occhi e torse il visetto dalla troppo violenta luce del giorno, perché la sua esistenza sino a quel momento aveva conosciuto solo il grigio crepuscolo di una segreta o di qualche altro oscuro andito della prigione. Quando la giovane donna, la madre di quella bambina, si mostrò completamente dinanzi alla folla, parve che il suo primo impulso fosse di stringere anche più l’infante al seno, non tanto in un impeto di materno affetto, quanto per celare in tal modo un certo segno, che era stato ricamato o appiccato sul vestito. Ma un momento dopo, giudicando saggiamente che un segno della sua colpa mal poteva celarne un altro, essa prese l’infante in braccio e, con un vivo rossore e tuttavia un altero sorriso e uno sguardo che non si lasciava intimidire, volse gli occhi in giro, fissando i suoi concittadini. Sul corpetto del vestito, ritagliata in una stoffa di un rosso vivo, circondata da elaborati ricami e ornata di fantastiche fioriture dorate, appariva la lettera A. Il lavoro era eseguito così artisticamente, e denotava tanta fertilità e lussureggiante fantasia, da sembrare un ornamento, che opportunamente completasse il vestito indossato, il quale era di un’eleganza in accordo con il gusto del tempo, ma ben superiore a quanto permettevano i regolamenti suntuari della colonia.
La giovane donna era alta, con una corporatura di perfetta eleganza, sebbene maestosa. Aveva una copiosa capigliatura nera, così lucente da riflettere i raggi del sole, e un volto che, oltre ad essere bello per regolarità di lineamenti e ricchezza di tinte, possedeva quell’intensità che deriva da sopracciglia ben disegnate e profondi occhi neri. Aveva anche qualcosa di nobile, secondo i canoni che predominavano in quei giorni e prescrivevano una certa maestosa dignità, più che non la grazia delicata, evanescente e indescrivibile, che vien oggi riconosciuta come il segno della gentilezza femminile. E mai Hester Prynne era sembrata più gentildonna, nel senso antico della parola, che nel momento in cui uscì dalla prigione. Quelli che l’avevano conosciuta prima, e si attendevano di vederla offuscata e come velata da una funerea nube, restarono stupiti e fin spauriti, nell’osservare lo splendore di quella bellezza, che sapeva trasformare in alone i segni di disgrazia e ignominia che ora la circonfondevano. Ma forse un osservatore più attento avrebbe potuto notare qualcosa di straziante in quella fierezza. Il suo vestito, che essa aveva preparato per l’occasione, mentre era in carcere, e aveva tagliato secondo gli impulsi della sua fantasia, sembrava esprimere, con la sua ardita e pittoresca stravaganza, la disposizione del suo spirito, la disperata violenza del suo stato d’animo. Ma la cosa che attirava tutti gli occhi, e in certo modo trasfigurava la peccatrice – tanto che gli uomini e le donne che conoscevano bene Hester Prynne ne erano rimasti impressionati, come se la vedessero allora per la prima volta – era quella «lettera scarlatta», così fantasticamente ricamata e rutilante sul suo petto. Faceva pensare a un incanto magico, che la sottraesse agli ordinari rapporti con l’umanità, per chiuderla in una sfera, che lei sola abitava.
NATHANIEL HAWTHORNE, La lettera scarlatta, Torino, Einaudi 1951.