1868 Maldoror
Sanguisuga e lupo mannaro, e mille altre bestie del suo zoo d’inferno, Maldoror ama nelle notti di luna le carni molli dei fanciulli, la loro immonda innocenza. Ma quando s’accampa, byroneggiando, a Satana nel suo monotono contenzioso con Dio, oppure nel ricordo d’una colpa senza nome si fa profeta di caos e distruzione, minacciando lo stupro dell’universo, il suo gesto, benché accada in un’aria di ossificata letteratura, non per ciò denunzia meno lo spasimo a vuoto di un’impotenza, l’artide d’una solitudine, con gli occhi ai vetri d’una soffitta, dietro un volo triangolare di gru.
Stabilirò in poche righe che Maldoror fu buono nei primi anni in cui visse felice: ecco fatto. S’accorse poi d’esser nato malvagio: straordinaria fatalità! Celò il suo carattere finché potè, per un gran numero d’anni; ma, alla fine, a cagione di questa concentrazione per lui innaturale, ogni giorno il sangue gli saliva alla testa; finché, non potendo più sopportare una vita simile, si buttò decisamente nella via del male... dolce atmosfera! Chi l’avrebbe detto! Quando baciava un fanciullino dal roseo volto, avrebbe voluto portargli via le guance con un rasoio, e l’avrebbe fatto di frequente se la Giustizia, col suo lungo strascico di castighi, non glielo avesse ogni volta impedito. Non era bugiardo, confessava la verità e diceva d’essere crudele. Uomini, avete udito? Egli osa ridirlo ora con questa penna che trema! Così, esiste dunque una potenza più forte della volontà... Maledizione! La pietra vorrebbe sottrarsi alle leggi della gravità? Impossibile, se il male volesse allearsi col bene. È quel che dicevo più su.
[...]
Come i cani, io sento il bisogno dell’infinito... Non posso, non posso soddisfare questo bisogno. Sono figlio dell’uomo e della donna, a quanto m’hanno detto. Mi stupisce... credevo d’esser di più! Del resto, che m’importa donde vengo? Se la cosa avesse potuto dipendere dalla mia volontà, avrei piuttosto voluto esser figlio della femmina dello squalo, dalla fame amica delle tempeste, e del tigre, dalla ben nota crudeltà: non sarei così malvagio. Voi che mi guardate, allontanatevi da me, il mio respiro esala un soffio ammorbato. Nessuno ha ancora visto le rughe verdi della mia fronte, né le ossa sporgenti della mia faccia smunta, simili alle lische di qualche grande pesce o alle rocce che coprono le sponde del mare o alle scoscese montagne alpestri che percorsi sovente quando sul capo avevo capelli d’un altro colore. E, quando m’aggiro intorno alle abitazioni degli uomini nelle notti burrascose, con gli occhi fiammeggianti, i capelli flagellati dal vento delle tempeste, isolato come un ciottolo in mezzo a un sentiero, mi copro il volto avvizzito con un pezzo di velluto, nero come la fuliggine che riempie l’interno dei camini: gli occhi non devono esser testimoni della bruttezza che l’Essere supremo, con un sorriso d’odio possente, ha posto su di me. Ogni mattina, quando il sole s’alza per gli altri, spargendo per tutta la natura la gioia e il calore salutari, guardando fissamente lo spazio pieno di tenebre, senza che nessuno dei miei lineamenti si muova, accovacciato verso il fondo della mia caverna diletta, in una disperazione che m’inebria come il vino, con le mani possenti mi strazio il petto a brandelli. Eppure, sento che non sono colpito dalla rabbia! Eppure, sento che non sono il solo a soffrire! Eppure, sento che respiro! Come un condannato che saggia i propri muscoli, riflettendo sulla loro sorte ora che sta per salire al patibolo, in piedi, sul mio pagliericcio, a occhi chiusi, giro lentamente il collo da destra a sinistra, da sinistra a destra, per ore intere; non cado morto stecchito. Di tanto in tanto, quando il collo, non potendo più continuare a girare nel medesimo senso, si ferma, per rimettersi a girare nel senso opposto, guardo subitamente l’orizzonte attraverso i rari interstizi lasciati dalle folte sterpaglie che ricoprono l’entrata: non vedo nulla!... Nulla... tranne le campagne che danzano in turbine con gli alberi e con le lunghe file d’uccelli che attraversano l’aria. Ciò mi turba il sangue e il cervello... Chi dunque, sulla testa, mi dà colpi con una sbarra di ferro, come un martello che colpisca l’incudine?
LAUTREMONT, «I canti di Maldoror» in Opere complete, Torino, Einaudi 1944.