1839 Fabrizio del Dongo
Perché non copiare Savinio?: «Forse un giorno si scoprirà nella biografia di Stendhal che quelle famose “difficoltà” che egli incontrava presso le donne da lui vagheggiate, erano astutamente ispirate da lui stesso, per stendhalismo. Chi questo piacere stendhaliano sa capire e soprattutto sentire, deve riconoscere in esso la più sottile e dotta forma di piacere. Tutto e niente. S’intende per stendhalismo questo piacere del desiderio non limitato alle cose dei sensi, ma difuso a tutte le cose della vita, a tutto il mondo considerato come un immenso oggetto d’amore. Fabrizio, ovvero lo stendhalismo, è vivo di desiderio finché desidera e non conclude. Perché in ultimo Fabrizio tradisce lo stendhalismo, tradisce se stesso? In ultimo Fabrizio conclude con Clelia Conti e muore. Perché concludere è morire».
Confesseremo a questo punto che, sull’esempio di molti autorevoli scrittori, abbiamo cominciato la storia del nostro eroe un anno prima della sua nascita. Questo personaggio non è altri infatti che Fabrizio Valserra, marchesino del Dongo, come a Milano si dice. S’era dato appunto allora la pena di nascere, quando i francesi vennero cacciati; il caso l’aveva fatto nascere secondo figlio di quel marchese del Dongo sì gran signore, del quale già conoscete la grossa faccia scialba, il sorriso ipocrita e l’avversione accanita alle nuove idee. Tutta la fortuna della casa era messa in testa al primogenito, Ascanio del Dongo, degno ritratto di suo padre. Ascanio aveva otto anni e Fabrizio due, quando improvvisamente quel generale Buonaparte che tutta la gente perbene credeva impiccato da tempo, calò dal San Bernardo.
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Saltiamo a piè–pari dieci anni di progresso e di benessere, dal 1800 al 1810. Fabrizio passò i primi al castello di Grianta, dando e ricevendo pugni tra i paesanelli del villaggio; senza imparar nulla, neppure a leggere. Più tardi, venne mandato al collegio dei gesuiti a Milano. Il marchese padre pretese che gli venisse insegnato il latino, non già sui vecchi autori che trattano sempre di repubbliche, ma su un magnifico volume adorno di oltre cento incisioni, capodopera degli artisti del XVII secolo: era la genealogia dei Valserra, marchesi del Dongo, pubblicata nel 1650 da Fabrizio del Dongo, arcivescovo di Parma. Dato che la fortuna dei Valserra era soprattutto militare, le stampe rappresentavano battaglie a tutto spiano e si vedeva sempre qualche eroe di quel cognome in atto di assestare magistrali fendenti. Quel libro andava a genio al giovane Fabrizio. Sua madre che adorava il figliolo otteneva ogni tanto il permesso di venire a trovarlo a Milano; ma siccome per quei viaggi il marito non le offriva mai danaro, era la cognata, la simpatica contessa Pietranera, che gliene prestava. Dopo il ritorno dei francesi, la contessa era diventata una delle dame più brillanti della corte del principe Eugenio, viceré d’Italia.
Quando Fabrizio ebbe fatto la sua prima comunione, la zia ottenne dal marchese, sempre esule volontario, il permesso di farlo uscire qualche volta dal collegio. Lo trovò originale, sveglio di mente, molto serio, bel ragazzo, tale da non stonare affatto nel salotto d’una donna alla moda: ignorante del resto parecchio, e appena in grado di scrivere. La contessa che metteva in tutto l’entusiasmo ch’era nel suo carattere, promise al rettore dell’istituto la sua protezione se il nipote avesse fatto progressi sbalorditivi ed ottenuto a fin d’anno molti premi. Per dargli modo di meritarseli, tutti i sabati sera lo mandava a prendere e spesso non lo restituiva ai suoi insegnanti che il mercoledì o il giovedì. I gesuiti, sebbene diletti al cuore del principe viceré, erano dalle leggi del regno banditi; e il superiore del collegio, uomo abile, capì il partito che si poteva trarre dalle relazioni con una donna onnipotente alla corte. Si guardò bene dal lagnarsi delle assenze di Fabrizio che, più ignorante che mai, a fin d’anno riportò cinque primi premi. Così la brillante contessa Pietranera, accompagnata dal marito, generale comandante d’una delle divisioni della guardia, e da cinque o sei dei personaggi più in vista della corte del viceré, venne dai gesuiti ad assistere alla distribuzione dei premi. Il rettore s’ebbe per quel successo gli elogi dei superiori.
La contessa conduceva il nipote a tutte le feste brillanti che contrassegnarono il troppo fugace regno dell’amabile principe Eugenio. Di propria autorità essa lo aveva creato ufficiale degli ussari e Fabrizio, all’età di dodici anni, indossava quell’uniforme. Un giorno la contessa, incantata dalla sua bella presenza, chiese per lui al principe un posto di paggio, ciò che avrebbe significato che la famiglia del Dongo si riconciliava col conquistatore. Ma il giorno dopo essa ebbe bisogno di tutto il credito di cui godeva per ottenere dal viceré che volesse scordarsi di quella istanza, alla quale nulla mancava salvo il consenso del padre del futuro paggio: consenso che era stato rifiutato con una scenata. Conseguenza di questa follia che fece fremere l’immusonito marchese, fu che questi trovò un pretesto per richiamare a Grianta il giovane Fabrizio. La contessa aveva pel fratello il massimo disprezzo, lo considerava uno stupido tetro capace di malvagità ove ne avesse il destro. Ma voleva un matto bene a Fabrizio e, dopo dieci anni di silenzio, scrisse al marchese per richiedere il nipote; la sua lettera restò senza risposta. Al suo ritorno in quell’imponente palazzo, costruito dai più bellicosi dei suoi antenati, Fabrizio altro non sapeva che fare gli esercizi militari e montare a cavallo. Spesso il conte Pietranera, invaghito di quel ragazzo quanto sua moglie, lo faceva salire a cavallo e lo menava con sé alla rivista. Arrivando al castello di Grianta, con gli occhi ancora rossi delle lacrime che aveva versato lasciando i bei salotti della zia, Fabrizio non trovò che le appassionate carezze della madre e delle sorelle.
STENDHAL, La Certosa di Parma, Torino, Einaudi 1963.